Equilibrio

(Alicja Brodowicz)

(Alicja Brodowicz)

RESISTENZA: dal verbo “resistere”, composto della particella RE addietro, che conferisce idea di opposizione e SISTERE fermarsi, formato dall’addoppiamento della radice di STA-RE star fermo, star saldo. Non cedere all’urto, alla spinta di altri corpi.

RESA: dal verbo “arrendersi”, nel senso di “dare in mano”.  Inflettersi agevolmente per ogni verso, senza spezzarsi.

Ex-sistere

(Foto di Fan Ho)

(Foto di Fan Ho)

Nel corridoio centrale dell’ipermercato, oggi mi è venuto incontro un uomo.
Era un signore anziano. Pochi capelli bianchi, alto, con un’andatura disarmonica. Aveva una maglia rossa ed era avvolto da una grande giacca a vento blu e gialla. Portava gli occhiali, quelli con le lenti che fanno sembrare gli occhi grandi grandi e aveva un’espressione smarrita e infelice.
In una mano stringeva una busta trasparente, con dentro un vestito da Babbo Natale nuovo di zecca, di bassa qualità, con appiccicata sulla plastica la foto di un uomo giovane e forte con quel vestito addosso, sorridente, circondato da regali e bambini dall’aria festante. Sembrava una beffa quella foto con poggiato sopra il suo pollice rugoso. Sotto al braccio portava un pacco di biscotti e con la mano avvolgeva il collo di una bottiglia di vino rosso.

Mi è venuto incontro cominciando a fissarmi da lontano, cercando di aprirsi una strada tra una muraglia di panettoni e una torre di Ferrero Rocher. Ha dato un’occhiata al mio carrello, semivuoto, senza nessun acquisto natalizio, poi ha rialzato lo sguardo senza che smarrimento o tristezza arretrassero di un passo. Ci siamo incrociati e abbiamo proseguito, ognuno per la sua strada.

Ho continuato a fare la spesa e a guardare la gente. C’erano due uomini, ognuno dei quali spingeva un carrello colmo di panettoni, quelli nella scatola di cartone, con una bottiglia di spumante per compagnia e i fuochi d’artificio sulla confezione. Ho contato, erano quaranta scatole. Hanno pagato circa 500 euro, in contanti. Ho dedotto che appartenessero ad un’azienda, una di quelle che invia i regali ai fedelissimi, con i biglietti prestampati, tutti uguali, per augurare buone feste.

Allora mi sono guardata attorno, ho guardato le cose, non le persone. Ho guardato i festoni, i dolci, le confezioni regalo, la frutta secca, i canditi nelle scatole di latta con Gesù bambino il bue e l’asinello, il fiocco argentato sulla casacca dei commessi, i barattoli di nutella di ogni dimensione e colore.

Ho immaginato le stesse persone, nello stesso supermercato l’8 di gennaio. Quando lo spirito delle feste viene svenduto “a prendi tre e paghi due” su banconi senza oro né argento. Quando i Ferrero Rocher smontano a malincuore la loro torre d’avvistamento e si rimettono in fila ordinata e anonima negli scaffali del reparto dolciumi, quando sulle casacche dei commessi rimane appesa soltanto una bustina di plastica con dentro il tesserino e una foto di riconoscimento che sorride in loro vece, sempre, anche a chiusura, quando la stanchezza stronca le caviglie e le voci della gente e la musica rimbombano nel cervello come una droga. Ho immaginato l’uomo anziano ripiegare il suo alter ego e riporre Babbo Natale dentro la busta con la foto stropicciata.

Allora ho capito perché quest’anno non ho tirato fuori gli addobbi, perché mi infastidiscono le luminarie e non ho comprato ancora un solo regalo. E’ perché non sopporto più ciò che non lascia un segno. La sterilità delle cose, perfino di quelle “spirituali” che pure sanno essere sterili e mutare  la loro profondità in un pozzo nero di tanfo e veleno. La ciclicità dei doveri mi pare spaventosa. Fosse pure il “dovere” della gioia. Rivendico il diritto ad una festa che trasforma, al passaggio di persone, vicende, storie e occasioni che mutano il paesaggio come lo scirocco le dune di sabbia. Non voglio vestire a festa ciò che resta sotto uguale a se stesso, felice o triste che sia. Preferisco lasciare tutto spoglio. In attesa. Preferisco saltare il turno, rimanere indietro, non tenere il tempo. E semmai arriverà la stagione di una festa che trasforma, allora mi vestirò da Babbo Natale fosse pure in pieno agosto e monterò luminarie d’argento nella luce invincibile dell’estate, farò il panettone con le mie mani abbronzate, comprerò regali in primavera e festeggerò il nuovo anno nel mezzo dell’autunno. Da allora in poi potrò rientrare nei cicli festivi della terra e camminare lietamente tra le torri di cioccolata e canditi, sorriderò agli uomini anziani che abbracciano babbo natale e una bottiglia di vino rosso. Ogni segno porterà la sua metamorfosi e non ci sarà, almeno per me, nessun ritorno alla normalità, si procederà per cambiamenti di fiore in frutto, di frutto in seme, di seme in fiore, di fiore in frutto…..

Il viaggio a ritroso

Nella vita “si deve andare avanti”. Lo si dice quando si è nel dolore, soprattutto. Quando si è disposti a qualunque cosa pur di “andar via”, dalla sofferenza, dal dramma, dal fallimento, dalla malattia. Poco importa se non si sa dove andare, se non si percepisce alcuna direzione: “avanti” è certamente un luogo migliore. Quando si è felici, invece, non ci si vorrebbe spostare, mai. Anzi, tutto quello che sembra poter mutare l’assetto delle cose è percepito come una minaccia: chi è felice vuole restare dov’è. Forse qualche temerario della felicità azzarda un passo nel territorio scosceso della “progettazione”, immaginando il modo di perpetuare nel tempo e nello spazio il proprio giubilo, inutilmente.

Poi, invece, c’è chi non è né felice né triste, perché ha disimparato la strada delle ambivalenze, degli opposti che si attraggono o delle forze che si respingono. Chi, magari, ha scoperto che ad andare sempre avanti per fuggire dal dolore ci si perde e a voler ingabbiare la felicità lo sguardo si restringe, sempre di piú, sempre di piú, fino alla cecità e all’egoismo piú bieco.

Accadono cose nella vita che costringono a tornare indietro, a fare la strada a ritroso fino a ricongiungersi con la parte di sé che si era persa, chissà quando, chissà dove o come. Magari proprio per l’ansia di futuro o per la brama di dettar legge alla vita. Oppure con la parte si stessi che non si è mai compresa o guardata a fondo o amata, accolta, accettata.

Accadono cose, s’incontrano persone. E all’improvviso comprendiamo che andare verso noi stessi è la sola strada possibile. È un percorso accidentato, pieno di macerie, di zone d’ombra, di vuoti d’aria. Si passa per strade che si preferirebbe dimenticare, che si vorrebbe non aver mai imboccato. E pur ripercorrendo a ritroso la vita, le cose imparate fino a quel momento non servono a nulla. Non ci sono criteri conosciuti che si possano applicare, nessuna esperienza è abilitata per la riuscita del cammino, non c’è giudizio che sappia aprire varchi nel buio, non ci sono imperativi esterni a noi stessi che sappiano appianare le salite, segnalare i burroni, evitare i tornanti. La fiducia in se stessi è tutto il coraggio di cui si può disporre, prendersi sul serio l’unico atto di eroismo possibile. Tutto ciò che sapevamo si ribalta, si ribella e scappa mentre del nuovo non riusciamo a scorgere che frammenti,  luccichii ed echi lontani.

La speranza è che una volta intrapresa la strada ci si possa ri-conoscere, alla fine, che esista realmente la possibilità di ri-congiungersi con se stessi, di ri-trovarsi, di ri-scoprirsi e che la vita, la nostra, le persone, le relazioni abbiano ancora desiderio d’accadere, con noi.

Srebrenica: c’ero anch’io?

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Avevo circa dieci anni, ed era una domenica di primavera.
Non ricordo per quale motivo io mi trovassi sola a casa, forse un’influenza da cambio stagione. Decisi di apparecchiare la tavola e accesi la tv per farmi compagnia. C’era il Tg. Era il 1991 e stava per scoppiare la guerra in Jugoslavia.

Resoconti politici, analisi sociologiche, previsioni catastrofiche, diplomazie fallimentari. Avevo dieci anni, ma intuivo che qualcosa di molto grave stava per accadere, qualcosa di grave e di molto vicino a noi. Durante il servizio del Tg, proprio mentre il cronista  (pre) annunciava la violenza e le atrocità che quella guerra avrebbe portato con sé, si susseguivano sullo schermo le immagini di una città bosniaca. Erano immagini girate in tempo reale. Si vedevano le auto circolare, una discreta folla per strada. In mezzo a quella folla il mio sguardo scelse di seguire una gionave donna, ripresa da dietro. Aveva i capelli castani raccolti in una coda di cavallo, un dolcevita verde e una gonna marrone, stretta, lunga fino al ginocchio, nelle mani le buste della spesa.

Mentre l’osservavo camminare (tutto avvenne in una manciata di secondi), la voce del gionalista divenne un sottofondo indistinto ed io sentì il panico diffondersi lentamente nel mio corpo, dal basso verso l’alto fino ad esplodere all’altezza del cuore. Mi chiedevo come potessero essere tutti lì per strada nonostante l’imminenza della guerra, mi chiedevo perché non stessero scappando tutti. Mi chiedevo, soprattutto, perché noi italiani, così vicini a quella terra, non stessimo facendo nulla per andare a salvare la ragazza con le buste della spesa.

I miei rientrarono e mi trovarono con un piatto in mano, immobile, con il viso affogato nelle lacrime. “Cosa è successo?” – mi chiesero – “Sta scoppiando la guerra” – dissi io, balbettando. Si premurarono di dirmi che era tutto a posto, che non sarebbe successo nulla. Avevo dieci anni, volevano ad ogni costo che non mi angosciassi per la guerra, lo capisco. Ma non poterono in alcun modo mettermi in salvo da quello che accadde dopo, dal resoconto di violenze che i Tg ogni giorno raccontavano, accennandole soltanto, ma lasciando intravedere tutto l’orrore. Mi chiedevo, ogni giorno, cosa fosse accaduto alla ragazza.

Di tutto questo avevo perso memoria, l’anniversario della strage di Srebrenica, mi ha fatto riaffiorare ogni cosa. Sono passati vent’anni. E oggi, che non sono più una bambina, mi rendo conto quanto sia illusorio credere o sperare che gli avvenimenti del mondo non ci riguardino sempre e da vicino. Certo, non ho subito violenze, non mi è mancato il pane, non ho perso casa, non ho visto attorno a me brandelli di uomini dilaniati. Ma quella guerra e quel dolore hanno comunque condizionato la mia vita. Le guerre, la violenza, segnano il corpo del mondo di cui tutti siamo membra, in un modo o nell’altro. E anche le omissioni, il soccorso non dato, la codardia degli Stati, la tirannia del potere economico, l’interesse di pochi a scapito di molte vite umane, non illudiamoci, scavano in noi lunghi solchi di sangue con cui faremo prima o poi i conti, proprio nel dispiegarsi del nostro quotidiano, apparentemente lontano e indipendente da quelle vicende.

Ieri la Jugoslavia, oggi la Siria, in mezzo infiniti conflitti dimenticati. La storia ci implora: imparate ad essere umani!

O a Palermo o all’inferno!

Incredibile e vero. E’ passato già un anno dalla pubblicazione su Eufemia di “O a Palermo o all’inferno”. E’ bello ricordarlo non solo per la gioia delle 7000 visualizzazioni in meno di 48 ore da ogni parte del mondo o per le infinite condivisioni sui social, cose che fanno molto piacere, ovviamente, ma sopratutto per la rete di relazioni che da questo post hanno preso vita. Ho ricevuto centinaia di messaggi privati, tanti commenti da parte di chi si è sentito coinvolto nel racconto, segno che per la mia generazione, travolta e sconvolta dalle vicende del mondo, la ricerca dell’identità, la necessità di fuggire, lo struggimento della nostalgia per un futuro negato, la voglia di tornare, il desiderio di crescere e vivere e fare, la rabbia e la resa sono aspetti che ci accomunano, pur nella singolarità di ogni storia. Nessuna certezza che tornare a Palermo sia stata la scelta giusta e la valigia è ancora a portata di mano, non si sa mai… Ma Palermo mi chiamava, ed ho risposto.

O a Palermo o all’inferno!.

Giugno

(foto di Mimmo Jodice)

(foto di Mimmo Jodice)

La testa che gira, l’amor che stordisce
la vita che avanza, eppure sparisce!
La notte silente affina gli artigli
la morte vogliosa che schiude i sigilli.

Ferite di sangue e lividi neri
cicatrici profonde dentro ai pensieri.
I piedi nel fango a passo di danza
negli occhi un bagliore ad intermittenza.

Il ventre ruggisce, di pietra, difende
il corpo che stanco pian piano s’arrende:
“Reagisci, ti prego!” – urla il ventre sventrato
al cuor dall’amore abbandonato.

“Ti han divorato il naso e la bocca?
Il buio profondo con le mani ti tocca?
Resisti piangendo le lacrime vere
vegliando la vita, di sera in sere!

E’ lento il risveglio, l’amor sembra muto,
ma il mostro vedrai sconfitto, abbattuto!
Dov’è la tua forza, gigante violento?
Le tue mani sacre d’abbrutimento?

La vita non tornerà da un paese lontano,
nessuno potrà offrirtela dalla sua mano.
La vita dall’intimo del tuo tormento
farà biondeggiare di luce il frumento.

Il corpo riavrà il profumo del pane,
risuscitate le labbra, morbide, sane.
Nei vostri baci nuovi affonderà la morte
dallo sfiorarsi di mani, la nuova sorte.

Quel che resta

Immagini della guerra in Siria, fin dal suo inizio, ne sono arrivate moltissime. Alcune di queste sono introdotte dalla scritta: “ATTENZIONE, le immagini che seguono potrebbero urtare la vostra sensibilità”. Mi fa sorridere questo avviso, poiché da per scontato il fatto di rivolgersi ad un pubblico provvisto di sensibilità. E’ un avviso ottimista, in fondo.

Le esecuzioni dell’Isis, le teste mozzate, i corpi sventrati dalle bombe, i bambini morti tutti in fila, uccisi dalle armi chimiche del dittatore. Sangue e distruzione ovunque, in un crescendo che pare non aver fine. Un groviglio politico, culturale, religioso ed economico di cui nessuno sembra voler tirare, veramente le fila. Il regime bombarda gli ospedali, le scuole, i mercati. Lì dove la gente si riunisce, ancora, nell’eroica ricerca di normalità, piomba impietosa la morte violenta, la polvere, il sibilo delle bombe. Macerie su macerie a formare cumuli di nulla: pure la disperazione si frantuma e si deposita ai bordi delle strade simile a materiale di scarto.

Da questo nulla che tutti ci interpella e verso il quale siamo responsabili, oggi è venuto fuori il corpo in vita di un neonato. Come dall’utero della madre, il piccolo, vivo di nuovo, è uscito dal buio e dal fuoco, incredibilmente indenne. Sono rimasta a guardare questa foto per alcuni lunghissimi minuti, cercando di capire cosa turbasse, pur in assenza di sangue e corpi in brandelli, la mia sensibilità. Forse l’espressione di quell’uomo che tiene in braccio il piccolo come la cosa più preziosa che le sue mani  possano contenere? Forse lo sguardo smarrito di chi si guarda intorno senza trovare un luogo sicuro nel quale custodire la vita? Forse il fatto che il bambino dorma, del tutto ignaro di esser nato all’inferno? O forse il dubbio che il bambino possa riuscire a diventare adulto, a vivere quella vita che uomini potenti e popoli pavidi gli stanno portando via?

Se questa foto rappresenta ciò che resta della Siria, allora vale ancora la pena sperare per la libertà di un popolo sacrificato sull’altare di questo mondo meschino. Io cambierei l’avviso e scriverei così: “ATTENZIONE! Speriamo che le immagini che seguono possano davvero turbare la vostra sensibilità e muovere i vostri cuori all’azione, la vita intera alla compassione”.

Le altre parole

(foto di Mike Brodie)

(foto di Mike Brodie)

“Voci ovunque”. E’ la mia personale definizione che descrive l’esperienza del fatidico ricevimento dei genitori. Ascolto la voce di chi sta parlando con me, la mia che rispondo, quella delle colleghe, della folla davanti alla porta dell’aula, a turno, le voci dei ragazzi rimasti di sotto in cortile. Parliamo tutti, tutti abbiamo qualcosa da dire, ridire, chiedere, rimproverare. “La parola all’accusa! La parola alla difesa!”.

Eppure queste voci che si diffondono ovunque sono una piccola parte dell’intero processo di comunicazione. Piccola davvero. Ognuno dei docenti sceglie un angolo dell’aula e si dispone come su un ring per sferzare e parare ogni tipo di colpi: oggi si consegnano le schede intermedie, una specie d’avviso alla popolazione perché chi sta per affogare abbia  il tempo di cercare un appiglio di salvezza e chi dall’inizio dell’anno rema con fatica possa vedere all’orizzonte la ricompensa della riva. Un foglio bianco come uno schema della battaglia navale, l’elenco delle materie e la fasce di voto: scarso, insufficiente, mediocre, sufficiente, discreto, buono e ottimo! E poi un pugno di “X” che sembrano sparse a caso: Acqua! Colpito! Affondato!

“Prof. glielo spiega a mia madre che questa non è la pagella?! Che ancora posso essere promosso? Per favore!”. E’ grande e grosso ma ha solo quindici anni. La sua famiglia viene da un paese davvero lontano, ma lui è nato qui. Il paradosso è che sua madre comprenda a stento l’italiano mentre il dialetto siciliano del figlio farebbe invidia ai venditori ambulanti del mercato di Ballarò. E’ un ragazzo sveglio, con grande senso dell’umorismo, ed è anche campione mondiale di pigrizia. Noi lo sappiamo, lui lo sa. Dopo pasqua comincerà la sua folle corsa, sarà rimandato in due, tre materie, passerà l’estate con la paura d’esser bocciato, proverà a studiare qualcosa, ma vincerà la voglia di mare e vacanze, noi a settembre lo aiuteremo a superare gli esami di riparazione e ricomincerà la giostra.

“Salve io sono l’educatrice di V., come va? Cosa mi dice?. V. abita in una casa famiglia. Ce lo ha detto lei candidamente, durante il giro (odioso!) delle presentazioni, dal quale nessuno scampa il primo giorno del primo anno di ogni nuovo ciclo di scuola; lo ha detto come se stesse comunicando di avere, chessò io, una bicicletta o un cane: “Si, io sono V. ho 14 anni e siccome non ho nessuno vivo in una casa famiglia, mi piace ascoltare musica e uscire con gli amici”. Ci sono giorni in cui la sua faccia diventa buia e lei è lì, seduta a pochi centimetri da me, ma irraggiungibile.

Io non andavo mai al ricevimento dei genitori con mia madre, soprattutto al liceo, tanto sapevo cosa le avrebbero riferito, lo stesso ritornello per anni: “Giulia ha molte capacità, ma studia soltanto le materie che le piacciono!”. Ancora oggi che sto dall’altra parte della barricata trovo che la loro lamentala fosse di una banalità irritante. Ancora oggi per me la strategia di studiare e prendere voti alti nelle materie che piacciono e la sufficienza appena risicata in quelle che non interessano, sinceramente, mi pare assai sensata. I miei alunni, invece, vengono praticamente tutti e, giuro, certe volte sembrano loro ad accompagnare i genitori. Il giorno del ricevimento ci si rende conto del perché alcuni ragazzi sembrano avere il mondo sulle spalle. E’ perché ce l’hanno davvero, accidenti! Ci sono madri e padri che sembrano fantasmi. La loro inconsistenza fa sobbalzare lo stomaco come quando si va giù veloci sulle montagne russe: “Signora guardi che c’è ancora da ritirare la pagella del primo quadrimestre! Abbiamo provato a chiamare, ma non ha risposto mai nessuno”, e dici queste cose cercando uno sguardo che non si fa incontrare mai, neppure se ti guarda dritto negli occhi. Alcuni genitori sono talmente fantasmi che al ricevimento i ragazzi arrivano con i nonni. E te lo dicono che sono i nonni con una voce a metà tra orgoglio e vergona, si presentano appena ma tutto il loro corpo e il modo in cui ti fissano sembra esclamare: “E non dovremmo esserci qui noi cazzo! E però ci siamo!”. Qualcuno con voce tremante ti confida che la figlia ha fatto due bambini con un disgraziato che ora è in galera e “speriamo che ci resti!”. Già. E mentre cerco di piantare bene i piedi a terra per rimanere salda sotto le raffiche di dolore che mi arrivano addosso, mi volto verso la ragazza che sta lì e mi guarda. L. ha due occhi blu di una luminosità imbarazzante. Chissà quante volte l’ha sentita questa storia del disgraziato di suo padre. Le sorrido, mi sorride e intanto non riesco a non chiedermi quale sia, in mezzo al casino in cui vive, la fonte dalla quale attinge la sua luce.

Stringo un’infinità di mani. La stretta di mano dice molte cose; di quelle ruvide, lo confesso, mi fido di più che delle mani lisce e morbide. Una signora, oltre ad avere palmi che graffiano possiede pure due centimetri di ricrescita bianca su una tinta nera fatta male e un sorriso sincero. Arriva dall’estrema periferia di Palermo, ma anche lei l’italiano lo parla a fatica. Oggi è contenta, però, perchè D. è migliorato e, infatti, tira un sospiro di sollievo che sembra possa alleggerire il mondo intero. Anche D. sorride, ha una montagna di ricci in testa color miele che esplodono in ogni direzione, portatori di una vita che non sa ancora dove andare e cosa fare, ma c’è.

Infine, arriva il teppistello della classe, quello che durante le lezioni esce per andare in bagno e torna dopo mezz’ora, quello che se ne frega di te e di quanto rappresenti, che ai rimproveri reagisce sghignazzando. Arriva scortato da padre e madre. Non ha, adesso, un atteggiamento di sfida, no. Guarda a terra. Sua madre mi confida di aver infilato nello zaino del figlio l’immaginetta con la preghiera dello studente: “Ma niente prof., non ha funzionato”. Il padre è un gigante grande e grosso e mi dice che quando arriveranno a casa gli farà vedere lui. Le “X” del suo foglio non sono sparse a caso, un po’ qui, un po’ lì, sono tutte incolonnate, solenni e gravi, come un corteo funebre sotto la voce “scarso”. Suo padre ringhia, sua madre dispera e mentre io osservo gli occhi del ragazzo piantati sul pavimento penso che, quasi quasi, non lo rimprovererò più quando mi sghignazzerà in faccia perché tutti, in fondo, abbiamo diritto ad una qualche forma di riscatto.

Mentre le voci cominciano a diradarsi e dalle finestre dell’aula esposta a ponente arriva la luce dei primi tramonti di primavera, io raccolgo pian piano i miei fogli e con essi i pensieri. Rifletto, stanca fino alla nausea, sul fiume di parole nel quale ho navigato tutto il giorno, a lezione prima e al ricevimento poi. Ripenso a tutti i discorsi, ma mi rendo conto di aver memorizzato molto di più gli sguardi e le strette di mano, i sorrisi e le facce tese. Richiediamo studio, ordine, impegno in mezzo al caos e al dolore, alle vita in frantumi e  alle preoccupazioni più nere, e anche lì dove invece, grazie a Dio, la vita procede più serena, non troviamo mai il tempo di capire dentro le persone, veramente, cosa c’è. Potremmo parlare per ore, ininterrottamente, provare a spiegare, a nascondere, a giustificare, ad accusare, ma la scuola, come la vita mi appare una pianura che si distende a perdita d’occhio dove aspettiamo, tutti, di veder fiorire, prima o poi, le altre parole, quelle seminate ovunque sul corpo, quelle che ci passano tra le dita come grani d’un rosario muto, le parole tutte bagnate sulle labbra o secche in gola, quelle che ci abitano addosso e che per esser dette e divenir compiute serve soltanto che qualcuno come noi, in carne, sangue e parole non dette, veramente, ci guardi.

Tremula

(foto di Rostislav Kostal)

(foto di Rostislav Kostal)

Tremula s’apre la mano
le dita di resa, sconfitte.
E’ l’inizio. E’ la fine.

Cade, bagna la terra, nessun rumore
sangue di una vita intera,
frutto maturo di semina
senza raccolto.

L’amore miracoloso si fa vedere
adulto, all’improvviso
tutto nudo e intero
appare
agli occhi bagnati d’addio.

Venite, Venite!
Ho doni per tutti:
pelle, ossa,
lacrime e vene,
i respiri
prendete ogni cosa.
Che nulla resti d’unito.

Ovunque la mia pelle canterà di te,
ovunque le ossa suoneranno il tuo nome,
le lacrime bagneranno su ogni sabbia i tuoi piedi
le vene uniranno come filo d’oro i tuoi passi
e il respiro spingerà lontano le vele.

Tutta la fatica d’esser viva tra i vivi,
fiorita dentro ai tuoi occhi,
ogni felicità attesa dal mondo,
germogliata fra le tue mani.
Che ne hai fatto del ghiaccio di tutti i miei inverni?

Ora, spogliata
d’amore nudo
entro a piedi scalzi
nella bocca del mondo.

Tutto può accadere, il mare respira.

Palermo.

Ho visto la vita intera, sul mare di Palermo in un riflesso di sole.
Ora sono come un pescatore che tira in barca le reti. Tiro, sollevo, fatico, ma le reti non hanno fine. Ho le braccia stanche e le dita di sangue. Le reti sono fili di lama.
Quel riflesso sul mare della mia città mi aspettava, un’imboscata.
Ha atteso con la pazienza di un cacciatore ed ha esploso il suo colpo appena mi ha vista sotto tiro. Un minuto prima e mi avrebbe mancata, un attimo dopo e mi avrebbe soltanto ferita di striscio. Sarei scappata impaurita e la cicatrice al braccio si sarebbe amalgamata con le cellule fino a non ricordare più nulla.
La mira è stata perfetta. E non c’è cellula che possa inghiottire i segni di quell’esplosione.

Palermo di colpi ne ha sentiti fin troppi, eppure non è mai sazia. Gli scoppi di morte si perpetuano all’infinito, rimbalzano dall’asfalto ai cimiteri, dai cimiteri alle pagine dei giornali, dai giornali alle aule dei processi, come un’eco che non trova riposo.
Gli scoppi di vita non rimbalzano, invece, gli scoppi di vita entrano nel corpo e rimangono in circolo. Trasformano da dentro, giorno dopo giorno. Ci si prova a dimenticarli, si, ma invano. Non si può. Si vorrebbe affidarli al primo cumulo di spazzatura all’angolo di qualsiasi strada, è la paura di scoprirsi capaci di realizzazione, ma per quanto ci si agiti restano attaccati alla pelle.

Non c’è pensiero o sentimento, paura o sussulto del cuore che non sia intrecciato come filo di lana ad un altro, al luogo dove viviamo. Una maglia che non si può sfilare, che non può in alcun modo tornare ad attorcigliarsi come un gomitolo.
Uno scoppio di vita acceca la vista e la percezione della pienezza non è data dal comprendere o intuire cosa esattamente accadrà, ma dalla visione di una potenza possibile, qualunque sarà la sua declinazione.

L’acqua era di cristallo. Circondata di sabbia e di roccia color deserto. Qualche metro dietro le mie spalle il grigio dell’asfalto, in cielo un sole fuori stagione, inopportuno. Un insieme di opposti, un impasto impossibile, elementi differenti che pure hanno imparato a convivere in uno spazio condiviso.
Non si dimentica il disagio né la rabbia di dover abbracciare con lo sguardo, ogni giorno, la gloria e l’inferno, la bellezza e la vergogna.

La rassegnazione dura un momento. L’animo si ammala di sconfitta solo se resta incapace di viaggiare nel tempo:
lo splendore del passato, la miseria del presente, la speranza del futuro,
la miseria del passato, la speranza del presente, lo splendore del futuro,
la speranza del passato, lo splendore del presente, la miseria del futuro.
Quando s’innalzano case di pietra con fondamenta profonde in quello che fu, che oggi è o forse sarà domani, si resta prigionieri di un solo momento che si perpetua inesorabile nel tempo.

Il vento era leggero. L’acqua tremava appena e i cespugli selvaggi ondeggiavano lievi.
Palermo lotta contro i giganti. Anch’io. Non sempre dalla sua parte, ma sempre al suo fianco. Vince una volta su mille, eppure non si ritira. Vince quando la posta in gioco è bassa, a notte fonda, quando il popolo abituato alla vittoria dei giganti si è appisolato, accasciato su sacchi pieni di monete d’oro, facile bottino del più forte.

Cosa accade nella vita di uomo in un sol giorno? Dal mattino fino a sera, quante volte respinge l’assalto dei briganti, quante volte si ritrova i piedi immersi nel fango, quante volte è incoronato re, quante volte difende se stesso e sfida a duello i suoi fantasmi? Quante volte batte la ritirata e mangia il pane amaro del fallimento?

C’era silenzio. Ogni voce taceva a bocca aperta. Ovunque lo stupore delle cose, quando comprendono di poter accadere. Vedere con i propri occhi l’impossibile possibile, per un istante appena e la visione diviene esperienza e l’esperienza è la chiave che apre le porte d’ogni prigione.

Tutto può accadere. Il mare respira.