Sangue

(foto di Sara Lorusso)

(foto di Sara Lorusso)

A scuola, in alcune classi, ho affrontato il tema dell’adolescenza. Abbiamo cominciato un giorno alzandoci dai posti obbligati, dalle sedie tutte in fila dietro la cattedra e i banchi. Abbiamo cercato una posizione comoda e abbiamo iniziato a respirare. Volevo che uscissero dalla folle quotidiana corsa delle sette ore di scuola, che si fermassero un attimo, che avessero il tempo di capire, di esistere. Poi ci siamo concentrati sulle emozioni, per comprendere quali fossero e in quale parte del corpo le sentivamo muovere. Così qualcuno ha scoperto di avere la rabbia nelle mani, la paura in gola, l’amore negli occhi.
E’ stato faticoso, faticosissimo, anzi. Ma bello, veramente tanto. Abbiamo parlato di tutto. Abbiamo parlato tutti. A voce, per iscritto, con una canzone, con un libro, ciascuno ha avuto modo di potersi esprimere, se lo voleva. I temi che sono stati affrontati erano impegnativi: il bullismo ad esempio. Che se lo chiami così sembra il titolo di un giornale, ma se poi spieghi cos’è te lo ritrovi addosso, come vittima e come carnefice, senza  aver immaginato di esserne protagonista. Oppure la relazione con i genitori, un conflitto sempre meno acceso e formante per i troppi “sì” che ricadono a cascata su corpi e cuori in trasformazione, che aspettano un “no” per potersi misurare con la potenza della propria metamorfosi.

Abbiamo parlato di differenze di genere, anche. Provando a stanare modi di intendere ed intendersi così radicati da diventare invisibili. Ho visto gli occhi dei ragazzi guardarmi con smarrimento mentre ragionavamo sul perché  la fidanzata che esce da sola in minigonna provoca loro rabbia. E ho visto le ragazze illuminarsi in viso quando abbiamo parlato del ciclo mestruale: liberamente, tecnicamente, davanti a tutti.

Abbiamo sorriso noi, femmine, osservando l’imbarazzo sulla faccia dei maschi e ci siamo guardate complici quando uno di loro ha detto stizzito e preoccupato: “Ma prima si vergognavano di più, ora vanno a cambiarsi e poi tornano con l’assorbente arrotolato in mano che si vede”.
Certo che è incredibile… Una donna, in media, ha il ciclo mestruale per circa 35 anni della sua vita. Lo sanno tutti, la vita stessa si rinnova grazie alle mestruazioni. Eppure, in una classe di liceo, nel continente culla della cultura occidentale, aggressiva e moderna, si prova ancora imbarazzo a parlare di sangue, assorbenti, dolori mestruali.

(foto di Alexandra Sophie)

(foto di Alexandra Sophie)

Negli ultimi anni qualcosa sta cambiando. Artiste, scrittrici, attiviste, tramite i social, Twitter sopratutto, hanno lanciato una campagna di sensibilizzazione e direi anche di liberazione, contro tutti gli stereotipi legati al ciclo e, di conseguenza, alle donne (per es.:https://casadiringhiera.com/im-on-my-period-sara-lorusso-editorial-4253fa47eb65#.j78mvsh91http://culturainquieta.com/en/foto/item/10341-lovely-and-provocative-photos-representing-the-stages-of-a-woman-s-life.htmlhttp://www.huffingtonpost.it/kiran-gandhi/perche-ho-corso-la-maratona-di-londra-durante-il-ciclo-senza-portare-lassorbente_b_8019062.html; diversi articoli a riguardo si trovano su http://www.internazionale.it/).
Ci penso sempre io, quando ho le mestruazioni e devo andare a scuola, un luogo di lavoro dove la presenza femminile è ancora preponderante. Ci penso, soprattutto, quando dopo lezione devo restare per le riunioni e so che in bagno non troverò carta igienica né i sacchetti dove riporre l’assorbente né tanto meno la possibilità di potermi rinfrescare. Crearle, invece, queste possibilità mi parrebbe un inizio concreto e sensato per una riforma scolastica seria e un esempio di civiltà che varrebbe cento lezioni di “Costituzione e cittadinanza”.

(foto di Alexandra Sophie)

(foto di Alexandra Sophie)

Quando sento un uomo o, peggio, una donna, esordire con la battuta: “Ehi, ma perché sei così nervosa ti devono venire le tue cose” (perché ancora mica tutti le sanno chiamare per nome in pubblico!), mi viene da piangere, sia per la banalità della battuta sia per l’ignoranza che si nasconde dietro. Nella mia piccola indagine a proposito, ho scoperto che più o meno la metà dei maschi e delle femmine in età fertile non conoscono le fasi del ciclo o non le sanno chiamare per nome. E l’apparato riproduttivo femminile? In tutte le sue parti e caratteristiche? Quasi un perfetto sconosciuto.

La maggior parte delle donne trascorre la propria esistenza e condivide l’esperienza sessuale con uomini che si ostinano a non voler capire nulla del ciclo e che si limitano a chiedere: “Oggi si può liberamente”? Aspettando il responso che pare dover arrivare da un mondo misterioso e sconosciuto, inaccessibile.

(foto di Alexandra Sophie)

(foto di Alexandra Sophie)

E’ vergognoso, pericoloso e triste che l’intero percorso obbligatorio d’istruzione non preveda un tempo, non facoltativo o lasciato alla buona volontà dei docenti, da dedicare all’educazione sessuale e affettiva delle nuove generazioni. L’analfabetismo a riguardo provoca ferite profonde e molto, troppo dolore.

Conoscere il ciclo, chiamare ogni cosa con il proprio nome, mettersi in ascolto del corpo è un’esperienza che trasforma la vita. Io ho imparato per necessità, quando da adolescente le mie ovaie si riempivano di cisti dolorosissime e nessuno sapeva spiegami il perché. Un ginecologo, alto, bello, della borghesia palermitana, uno di quelli che fa partorire con taglio cesario e molti euro le donne ricche della mia città, mi ha imbottito di estrogeni, attribuendo la responsabilità del “mal funzionamento” al mio animo irrequieto e troppo sensibile. Ho molto sofferto per questo. Poi mi sono stancata e ho cercato di capire. Ho studiato, ho trovato dottoresse in grado di ascoltare, valutare, comprendere. E ho scoperto che era l’insulina a provocare le cisti e l’irregolarità del ciclo. Ho eliminato gli zuccheri e tutto piano, piano, piano ha ricominciato ad essere armonico.

(foto di Alexandra Sophie)

(foto di Alexandra Sophie)

Ho imparato allora che non esiste un ciclo uguale ad un altro e che ogni fase va riconosciuta, ascoltata, attesa, vissuta. Ho imparato a distinguere i momenti fertili da quelli non fertili e a conoscere di cosa il mio corpo ha bisogno per ciascuno di questi momenti. Ho scoperto che nella fase che precede le perdite il mio corpo desidera il magnesio e alcune vitamine e che nei giorni del sangue vedo dentro di me cose che, poi, non vedo più.

Ho imparato che vale la pena  far la fatica di condividere ciascuna di queste conoscenze con l’uomo amato, perché cambia tutto, e cambia in meglio. E che, pure, confrontarsi con le altre donne è come immergersi in una sapienza antica quanto il mondo, una sapienza che ciascuna donna contribuisce a far crescere con la propria unica e singolare esperienza.

Dalle donne ci si aspetta sempre qualcosa: che siano belle, magre, corrispondenti ad un modello estetico costruito sul gusto degli uomini o del mercato, che scelgano tra figli o carriera, tra libertà o famiglia, tra femminismo o sottomissione e, quel che è peggio, alcuni dei più famosi e deleteri stereotipi di genere sono incarnati e perpetuati proprio dalle donne, come accade per la menopausa, ad esempio. Quante volte sentiamo o diciamo l’espressione: “Quella donna è ANCORA bella”, rivolta a chi si avvia verso i cinquanta o li ha passati da un pezzo. Ancora? Ancora rispetto a cosa? E con quale bellezza ci si sta confrontando?
E quante donne son capaci di godere dello sbocciare di qualcun’altra senza sentirsene minacciate o senza giudicarle in modo spietato?

Cresciamo vivendo il ciclo come la più grossa scocciatura possibile e invecchiamo pensando che la fine del ciclo sarà l’inizio delle nostre disgrazie: non più giovani, con qualche chilo in più, isteriche e sole. Nel peggiore dei casi circondate dai gatti (altro fantastico stereotipo legato solo alle donne, ovviamente.. Mah!).

E’ una trappola sociale/culturale subdola e meschina, costruita con finezza per secoli e secoli, che fa leva sulle fragilità e sull’ignoranza che alcune donne possiedono di se stesse. Va smascherata, disinnescata, trasformata in qualcos’altro.

Credo che sia necessario riconquistare il nostro stesso sangue, il ventre, il latte, il corpo tutto, con la sua sapienza; imparare le trasformazioni ed essere parte attiva della nostra crescita. Invecchiare non è certo indolore, ma voglio credere che sia possibile farlo scoprendone i segni come un prodigio, così come sappiamo riconoscerli e apprezzarli nell’alternarsi delle stagioni. E’ importante per qualunque donna questa riappropriazione di quanto le appartiene e possiede, di qualunque età, in qualunque condizione si trovi, che sia giovane o anziana, che sia madre o che non voglia o non abbia figli, che sia eterosessuale o lesbica, che abbia qualcuno accanto o che sia single, perché non è quello che viviamo che da maggiore o minore importanza a quel che siamo.

(foto di Alexandra Sophie)

(foto di Alexandra Sophie)

Conosco donne bellissime che il passare del tempo rende forti e coraggiose, piene di vitalità ed esperienza, capaci di riconoscere la vita ovunque si manifesti e di godere di essa anche quando, in qualche modo, sottolinea la distanza tra loro e la giovinezza. Sono donne senza rancore, impegnate in un processo di pacificazione che mi affascina e mi sorprende.

E’ un cambiamento culturale già in atto, ma sempre più urgente, che necessita della consapevolezza e della partecipazione di maschi e femmine, insieme, perché si tratta di sangue e di vita e la vita è di tutti e da tutti va conosciuta, sempre, nuovamente, e accudita con consapevolezza, perché se ne possa godere appieno, fino alla fine e “perché nulla vada perduto” (cfr. Gv 6,12).

Nelle più piccole cose

Se ricordo i miei diciassette anni, penso che mi sono accadute una quantità incredibile di cose, ma, forse, quando si hanno diciassette anni, è normale che accada una incredibile quantità di cose.

Giugno, Austria, 1997.
Dovevo frequentare il quarto anno del Liceo classico e in sorte mi toccò di partire per la seconda ed ultima tappa del “gemellaggio” che la mia classe aveva intrapreso con una scuola di Linz. Durante la primavera i ragazzi austriaci erano stati a Palermo per quindici giorni; l’estate era il nostro turno. Li avevamo ospitati in casa e loro avrebbero fatto altrettanto. La mia “gemella” si chiamava Sandra e abitava in un comprensorio di villette immerse nel verde. Di quel viaggio ricordo ancora molte cose, per esempio che a giugno sulla vespa, in Austria, non puoi salirci a maniche corte perché ti cadono i denti dal freddo, che esistono laghi tanto grandi da sembrare mare, che mi annoiava, tranne qualche eccezione, stare con ragazzi della mia età, che molti dei miei compagni non avevano idea di chi fossi, che se vieni ricoverata in ospedale, a pranzo mangi la cotoletta con marmellata di mirtilli per contorno. Mi accadde una incredibile quantità di cose, per l’appunto.

Ma più di tutto mi accadde di visitare insieme ad uno dei professori in viaggio con noi e ad un gruppetto esiguo di ragazzi, il campo di concentramento di Mauthausen.

Campo di concentramento di Mauthausen, Austria

Campo di concentramento di Mauthausen, Austria

Avevo una paura matta di andare e ancora oggi non lo so cosa mi spinse ad unirmi al gruppo. Forse fu solo perché chi andava tra i compagni mi faceva più simpatia di chi restava o forse perché la paura a me fa un effetto strano e invece di mettermi al riparo, mi espongo, nella speranza che la questione, qualunque essa sia, si risolva al più presto, per non pensarci più.

Del viaggio di andata non ricordo quasi nulla. Ricordo, però, che quando arrivammo ero tesa e vigile, pronta a chiudermi a riccio per non vedere o non sentire qualunque cosa fosse stata “troppo”, per me. Invece ho ascoltato e visto ogni cosa. Abbiamo preso una guida cioè una cassetta con un registratore. Ci hanno detto che dovevamo far partire il nastro prima di cominciare la visita e così abbiamo fatto. La voce di un uomo, roca e profonda, iniziò dicendo: “Cari visitatori, adesso accadrà qualcosa che non potrete controllare, il vostro cervello metterà un filtro di protezione, perché quanto vi racconterò non vi porti alla pazzia”.

Abbiamo proseguito in silenzio: le zone di lavoro, i dormitori con i letti a castello in legno, le camere a gas, i forni crematoi. Era tutto avvolto di un silenzio surreale, sembrava che nessuno di noi osasse respirare. Era una giornata di sole che rendeva difficile immaginare la neve e il freddo e i corpi all’agghiaccio. Ma davanti ai forni crematoi non c’era niente da immaginare. Non riuscivo a provare sdegno o sgomento o commozione o rabbia, niente. Nessun respiro, nessun pensiero, nessuna emozione: niente.
In uno dei capannoni avevano allestito una mostra fotografica che fu durissima da visitare. Ricordo che seppur muti noi ragazzi ci cercavamo con gli occhi, da pannello a pannello, da un lato all’altro della stanza, come se avessimo sviluppato il bisogno di sapere dove ciascuno di noi fosse, in ogni momento.

La visita durò un paio d’ore. Passammo molto tempo all’aperto, all’interno del campo, ma solo una volta varcato il cancello verso l’esterno sentimmo di essere “fuori”. Il ritorno alla parola fu lento e pure il respiro si regolarizzò con fatica. Camminando, seguendo gli altri, senza sapere verso dove, pensai che studiare la storia dai libri era davvero poca cosa, pensai che fra le pagine non ci sono gli odori e neppure il rumore dei passi e non ci sono le voci dei testimoni e neppure il tatto della mano, poggiata a palmo aperto su quei muri di pietra umida.

Cosa fu per me la visita a Mauthausen, lo compresi veramente, però, solo alcuni mesi dopo, in un cinema del centro, a Palermo. Con un gruppetto di compagni andammo a vedere “La vita è bella” di Roberto Benigni. Fu un incubo per me.

Scena del film "La vita è bella"

Scena del film “La vita è bella”

Perché di ogni fotogramma che mostrava il campo di concentramento io ricordavo gli odori e tutte quelle emozioni che erano rimaste raggelate e mute allora, vennero fuori all’improvviso: provai uno sgomento tale da farmi correre in bagno a vomitare, sudai freddo. Dovetti soffocare il desiderio di urlare fino a cadere stremata per liberarmi di tutto l’orrore che durante quella visita avevo immagazzinato e che in quel momento mi esplodeva nel cervello senza riguardo.

Mi salvarono le ciliegie. Ricordai che andando via da Mauthausen ci perdemmo per le campagne alla ricerca di una stazione nascosta chissà dove, in mezzo a distese di campi in fiore. Lungo una discesa un grande albero di ciliegi aveva un ramo che come una carezza pendeva sulla strada, sfiorando i passanti. Avevamo fame. Ne raccogliemmo molte, tutte quelle che potevamo con la paura che i padroni di casa se ne accorgessero. Le magliette ripiegate sulla pancia a mo’ di cesta e poi una corsa senza meta, sgambettando come a diciassette anni si riesce a fare. Scoppiammo tutti in una risata sonora, una di quelle che poi resta in circolo e si riaccende alla minima occasione. Eravamo sudati, giovani e vivi.

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Pensai a questo mentre piangevo al cinema, a quel sole pomeridiano, alla luce, alle risa, alla corsa, alle ciliege strette sulla pancia, alle macchie sulla maglietta e sulle dita. Da allora penso sempre alle ciliegie quando provo un dolore che mi pare di non saper gestire. E quando si fa primavera e le vedo per strada sui banchi del mercato o sulle tavole, tante tutte insieme, di quel rosso così vivido, divento allegra e sorrido e mi faccio coraggio pensando a come la vita esploda e si riveli anche nelle più piccole cose, lì dove la morte vuole vincere su tutto.

My clandestine body

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I have a secret in the heart
Myself have the secret of my heart.
My body is a mystery
and I do not find the map to understand it.

I get lost looking for the secret,
I’m afraid of the dark
I’m afraid of the light
There is no one who helps me to search.

Only the wind helps me
the air gives me relief.
I need to have courage
I need to be strong.

Can’t scare me
The journey is endless,
The road cannot be interrupted.
I need to have courage.

My blood won’t hurt me
the darkness doesn’t bury the secret of my heart.
I will tame the darkness
with the strength of every day and all night
with the patience of all day and all night.

Shout to my body: you are allowed to exist!
And I understand who you are.
I’ll say it in the wind,
so the air will be pure
and I shall recover my breath.

Ho un segreto nel cuore
Io, sono il segreto del mio cuore.
Il mio corpo è un mistero
e non trovo la mappa per decifrarlo.

Mi perdo alla ricerca del segreto.
Ho paura del buio.
Ho paura della luce.
E non c’è nessuno che mi aiuti a cercare.

Solo il vento mi viene in soccorso.
l’aria mi dà sollievo.
Io devo avere il coraggio.
Io devo essere forte.

Non posso spaventarmi.
Il viaggio è senza fine,
la strada non può essere interrotta.
Io ho bisogno di avere coraggio.

Il mio sangue non mi farà del male
e il buio non seppellirà il segreto del mio cuore.
Io domerò il buio
con la forza di ogni giorno e per tutta la notte
con la pazienza di tutto il giorno e di tutta la notte.

Grido al mio corpo: hai il permesso di esistere!
E capisco chi sei.
Lo dirò, al vento
così l’aria sarà pura
e riavrò il mio respiro.

 

Una felicità a perdere

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(Foto di Laura Makabresku)

 

Oggi ho visto una scena bellissima.
L’ho vista in piazza, una fra le tante piazzette popolari che alla periferia di Palermo sanno radunare ancora la vita di quartiere nella luce dei meriggi d’estate.
Ho visto una bambina bionda di circa dieci anni. Bionda e coi capelli lunghi, coi capelli lunghi e con guance color di rame e mare.

Stava accanto ad un motorino e sul sellino c’era un neonato che lei teneva stretto per non farlo cadere. Si guardava attorno, come aspettasse qualcuno e voltandosi, da una parte e dall’altra, i suoi capelli lunghi sfioravano il piccolo, come una carezza.

E’ stata una scena tanto bella e potente che mi è letteralmente mancato il fiato. Non vi ho visto nessun riferimento simbolico alla maternità, la bambina non imitava gestualità adulte, era, anzi, un po’ smarrita, tutta protesa verso l’arrivo di chi avrebbe potuto liberarla da quel ruolo di custodia sproporzionato alla sua età.

Ma era bella, elegante, potente in quanto alla variabile di possibilità contenute nella sua infanzia e fragile rispetto alla realtà. Erano indifesi entrambi, ma fortissimi, erano piccoli, ma riempivano lo spazio con una  presenza in grado di modificare, appunto, i sentimenti, le emozioni e i pensieri dei passanti.

Sembrava di poter toccare con mano tutta la vita che è possibile avvicinare.
A guardarli proprio così appariva la vita: come un eccesso incontenibile, una felicità a perdere.

 

Finché è possibile

 

Modificate in Lumia Selfie

Mondello, Palermo

 

“…dal momento che siete uomo e incostante voi stesso, siete costretto ad aggiungere tacitamente: finché è possibile”.

– Alfred de Musset, La confession d’un enfant du siècle, 1836 – parte prima, cap. V

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“E c’è da qualche parte un amore che uccide gli inverni ….”

– La rotazione, Nicolò Carnesi

Come un fiore

© Francesca Woodman

© Francesca Woodman

La solitudine che tu mi hai regalato
io la coltivo come un fiore.
– Sergio Endrigo, Canzone per te, 1968

Non perdere il mondo

 

© 2015 Stephania Dapolla

© 2015 Stephania Dapolla

 

Ci vuole un alambicco
per passare
da amore ad amore,
per cambiare colore
e non perdere il mondo,
ripetere passaggi
d’anima, morire
di trasformazione.

– Antonella Kubler

P.S: Grazie Alberto.

 

Come se

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Ti amo,
come se dicessi: “Dio sia lodato, sono vivo!”.

Nazim Hikmet

 

 

 

 

 

 

 

 

Groviglio d’intenti

mani

Quante cose per le mani
in questo inspiegabile groviglio d’intenti…

Non volermi male.

Certe volte l’importante è vedersi più belli,
quanto basta per sentire che il mondo è vicino.
E non è perfetto.

– C. Consoli, Non volermi male.