…Ma invece dopo la nascita capisco il contrario (ovvero…”Nutro mia figlia”)

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Nutro mia figlia è un testo bellissimo.
Uno di quei testi che leggere è come viaggiare. Un viaggio a velocità folle tra le viscere, il sangue, il corpo, l’utero, lo sguardo, il latte di una madre.
E’ come uno scrigno, dal quale ciascuno può estrarre la sua moneta d’oro e sentirsi il re o la regina del più fantastico dei regni: il proprio corpo!
Di seguito trovate un “frammento” del testo e il link attraverso il quale potrete leggere il brano per intero (prendete fiato prima!).
Da, qui, invece, accedete all’intero progetto dal quale il brano è estrapolato. Lo ridico, è bellissimo!

 

Nascita terremoto e tempesta 
nascita non ce la faccio
madonnuzza incastonata sul muro alla mia sinistra
coraggiosa compagna santa e madre madre e santa
ti cerco a tentoni nel cuore alla mia sinistra
mi afferro a questo nostro cuore come ad un albero
e chiedo aiuto alle donne vive nel mio cuore
impasto i loro nomi fra lingua e palato
dietro gli occhi trovo la parola antica
aiuto
ho paura
non mi lasciate
fatemi vita
fatemi spazio e silenzio
fatemi luce
Continua…

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My clandestine body

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I have a secret in the heart
Myself have the secret of my heart.
My body is a mystery
and I do not find the map to understand it.

I get lost looking for the secret,
I’m afraid of the dark
I’m afraid of the light
There is no one who helps me to search.

Only the wind helps me
the air gives me relief.
I need to have courage
I need to be strong.

Can’t scare me
The journey is endless,
The road cannot be interrupted.
I need to have courage.

My blood won’t hurt me
the darkness doesn’t bury the secret of my heart.
I will tame the darkness
with the strength of every day and all night
with the patience of all day and all night.

Shout to my body: you are allowed to exist!
And I understand who you are.
I’ll say it in the wind,
so the air will be pure
and I shall recover my breath.

Ho un segreto nel cuore
Io, sono il segreto del mio cuore.
Il mio corpo è un mistero
e non trovo la mappa per decifrarlo.

Mi perdo alla ricerca del segreto.
Ho paura del buio.
Ho paura della luce.
E non c’è nessuno che mi aiuti a cercare.

Solo il vento mi viene in soccorso.
l’aria mi dà sollievo.
Io devo avere il coraggio.
Io devo essere forte.

Non posso spaventarmi.
Il viaggio è senza fine,
la strada non può essere interrotta.
Io ho bisogno di avere coraggio.

Il mio sangue non mi farà del male
e il buio non seppellirà il segreto del mio cuore.
Io domerò il buio
con la forza di ogni giorno e per tutta la notte
con la pazienza di tutto il giorno e di tutta la notte.

Grido al mio corpo: hai il permesso di esistere!
E capisco chi sei.
Lo dirò, al vento
così l’aria sarà pura
e riavrò il mio respiro.

 

Vento

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Io comincio.

Nell’anno ’42 guardando un albero in autunno
e una foglia che cadeva,
decisi di fare quel tipo di danza,
ma quando cercai una musica adatta, non la trovai.

Allora chiesi alla foglia dell’autunno:
“Hai bisogno di musica per muoverti?”.
La foglia mi contestò:
“No, ho bisogno del vento”.

Allora cominciai a cercare
nei ritmi interni
la possibilità di muovere la mia danza
il mio corpo.

Io sento che il mio tempo
è molto più breve,
più breve di vita.

Non devo smettere di fare
ciò che devo fare oggi,
non aspettare domani.

Potete arrivare al gran mistero
e dire:

“Sento il suono del vento
sento il suono del mare”.

Maria Fux

Guardate, qui. http://www.internazionale.it/notizie/2016/01/23/ivan-gergolet-dancing-with-maria-fux

Giugno

(foto di Mimmo Jodice)

(foto di Mimmo Jodice)

La testa che gira, l’amor che stordisce
la vita che avanza, eppure sparisce!
La notte silente affina gli artigli
la morte vogliosa che schiude i sigilli.

Ferite di sangue e lividi neri
cicatrici profonde dentro ai pensieri.
I piedi nel fango a passo di danza
negli occhi un bagliore ad intermittenza.

Il ventre ruggisce, di pietra, difende
il corpo che stanco pian piano s’arrende:
“Reagisci, ti prego!” – urla il ventre sventrato
al cuor dall’amore abbandonato.

“Ti han divorato il naso e la bocca?
Il buio profondo con le mani ti tocca?
Resisti piangendo le lacrime vere
vegliando la vita, di sera in sere!

E’ lento il risveglio, l’amor sembra muto,
ma il mostro vedrai sconfitto, abbattuto!
Dov’è la tua forza, gigante violento?
Le tue mani sacre d’abbrutimento?

La vita non tornerà da un paese lontano,
nessuno potrà offrirtela dalla sua mano.
La vita dall’intimo del tuo tormento
farà biondeggiare di luce il frumento.

Il corpo riavrà il profumo del pane,
risuscitate le labbra, morbide, sane.
Nei vostri baci nuovi affonderà la morte
dallo sfiorarsi di mani, la nuova sorte.

Tremula

(foto di Rostislav Kostal)

(foto di Rostislav Kostal)

Tremula s’apre la mano
le dita di resa, sconfitte.
E’ l’inizio. E’ la fine.

Cade, bagna la terra, nessun rumore
sangue di una vita intera,
frutto maturo di semina
senza raccolto.

L’amore miracoloso si fa vedere
adulto, all’improvviso
tutto nudo e intero
appare
agli occhi bagnati d’addio.

Venite, Venite!
Ho doni per tutti:
pelle, ossa,
lacrime e vene,
i respiri
prendete ogni cosa.
Che nulla resti d’unito.

Ovunque la mia pelle canterà di te,
ovunque le ossa suoneranno il tuo nome,
le lacrime bagneranno su ogni sabbia i tuoi piedi
le vene uniranno come filo d’oro i tuoi passi
e il respiro spingerà lontano le vele.

Tutta la fatica d’esser viva tra i vivi,
fiorita dentro ai tuoi occhi,
ogni felicità attesa dal mondo,
germogliata fra le tue mani.
Che ne hai fatto del ghiaccio di tutti i miei inverni?

Ora, spogliata
d’amore nudo
entro a piedi scalzi
nella bocca del mondo.

Ehm…No, niente.

©Bart Synowiec

©Bart Synowiec

L’etimologia della parola niente è incerta, dicono i vocabolari. Perfino le sue origini lasciano un senso di vuoto, una certa instabilità. Niente, probabilmente dal latino ne inde, nec entem, con molta probabilità nec gentem. La parola niente è per lo più utilizzata in contesti di negazione e sofferenza: “Non vali niente“, “Non mi importa niente“, “Non sei niente“. Chi è capace di venir fuori indenne da costrutti grammaticali così?

Non è solo negazione dell’esistenza è anche negazione di ogni originalità, di ogni compassione: “Per te (lui, lei, l’altro!) non provo niente“. E si, come quando da bambini si cade e mamma e papà, per non scoraggiare i primi passi, esclamano: “Dai, su, non ti sei fatto niente!”. E ci si convince, benevolmente e tenacemente che sia vero così, nonostante i graffi e il dolore (seppur momentaneo) del sedere sul pavimento!

E poi, cosa dire di quando si vede una persona amata pensierosa e preoccupata e ci si avvicina per chiedere: “A che pensi? Cos’hai?”, per sentirsi rispondere: “No, niente!”.

Niente è artifizio, maschera indossata alla fatica di comunicare e forse anche di dire a se stessi cosa fa male o, semplicemete, cosè che proviamo e che pare, però, incondivisibile, poco importante agli occhi degli altri.

Niente è negazione del corpo, ma il corpo non prova mai il niente. Forse non capisce, forse non sa esprimere un sintomo, forse serve la fatica di collegare una sensazione al sentimento corrispondente, ma, il corpo, è un continuo accadimento di cose, fosse solo del sangue che circola, del cuore che pompa, dei polmoni e dell’ossigeno in sinergia.

Niente paura/niente panico”, lo si sente dire, sempre, quando i motivi per provar paura e scatenare il panico sono così veri ed evidenti da essere innegabili! Come nei films americani: il fuoco divampa tra gli uffici di un grattecielo e il polizziotto, sudato e ansimante, esclama: “Niente panico!”, nel medesimo istante in cui il protagonista si accorge degli abiti del migliore amico avvolti dalle fiamme!

Niente è il termine che segna la frattura del dialogo, quando non si riesce ad andare avanti e la relazione si infrange: “È inutile che continui a parlare, non c’è niente che può farmi cambiare idea”. Che senso di disperazione e rabbia provoca l’infrangersi delle nostre ragioni sulle convinzioni dell’altro.

“Non c’è più niente da fare”. È il colpo mortale inferto alla speranza.

E poi, quando sì è a fianco di una persona alla quale si vuole dire qualcosa di importante, di veramente nostro; mentre lei parla di tutt’altro, ci si concentra per trovare il modo giusto desprimere quello che vogliamo dire, il coraggio necessario a farlo, cominciamo a borbottare qualcosa, l’altro si gira, ci guarda ed esclama: “Cosa?” E noi: “Ehm…no, niente“.

Niente è l’aggancio mancato, il contatto non avvenuto. È il rinnegamento di ogni responsabilità. E, infatti, quando i ragazzini giocano senza prudenza e capita che il più piccolo fra loro rovini per terra, il più grande si rivolge all’adulto vicino, alza le braccia e afferma: “Io non gli ho fatto niente!”.

Niente è il desiderio degli altri per noi quando soffriamo, come se negare il motivo del dolore fosse un modo di evitare la sofferenza.

Il niente è il contrario della realtà. È la separazione di una parte dal tutto a cui appartiene. È minimizzare, dire che qualcosa non è importante, è il grottesco tentativo di negare le nostre reazioni.

“Non è successo niente“, è il re degli ossimori! L’accadere e il niente non sono compatibili, la vita e il niente sono contrari inconciliabili! Noi siamo un flusso continuo di avvenimenti, un incessante procedere di fatti, un misterioso seguitare di pensieri, un incalzante proliferare di sensazioni. Tutto ci coinvolge e a tutto noi reagiamo. E quando la nostra reazione ci travolge, ci coinvolge fin dalle viscere e ci svela parti di noi inesplorate, quando non sappiamo cosa e come fare, lo smarrimento diviene terreno fertile al germogliare del niente, che, in realtà, vuol dire: “Non capisco cosa mi accade, non so cosa succede, non riesco a dire quello che provo!”.

Se solo riuscissimo a descrivere quanto ci attraversa mentre ci attraversa, descrizione del sentire senza categorie e senza timore di inciampare su definizioni che non ci appartengono! Forse saremmo tutti più fragili, esposti ai pericoli dell’incomprensione, impauriti dalla consapevolezza di ciò che siamo, di come siamo eppure vivi, presenti, esistenti.

Vicino, lontano

(foto di Walter Chappell)

(foto di Walter Chappell)

Soffiava quel vento maledetto, così forte da rendere impossibile sentire la propria voce, così come la voce di lei. E sentire la voce di lei era l’unica cosa che desiderava, davvero, in quel momento, un momento maledetto come il vento.

Ma lei non parlava. Nonostante le sue labbra fossero socchiuse, come in procinto di dire. Sembrava che le parole fossero lì, tutte in fila, pronte a venir fuori. E così lui le fissava le labbra, per non perder d’occhio lo sgorgare possibile di una sorgente.

Gli occhi di lui, come una riva, linea di confine tra terra e acqua salata. Lacrime in equilibrio, per paura che superassero il confine e che gli accadesse di sparire sotto un salire d’acqua irrefrenabile.

La guardava, senza batter ciglio, per non perderla di vista neppure un istante. La guardava così, come aveva fatto per anni, vicino abbastanza per imparare ogni particolare e ripeterlo a memoria giorno e notte, al risveglio, la sera, per strada, al lavoro. Vicino abbastanza, ma troppo distante per sentire sotto il palmo della mano il calore della pelle, per sentire sotto le dita lo spessore dei nei, le onde della labbra, la seta dei capelli, le ossa sporgenti, la linea curva del naso, la morbidezza del seno. Non abbastanza vicino per amarla, non sufficientemente lontano per scordarla.

Si ricordò di quando la vide sorridere la prima volta. Credeva di perder il senno. E si era guardato attorno, sconvolto dal procedere disinvolto del mondo. Si chiedeva smarrito e commosso come fosse possibile che la vita di tutti continuasse senza incantarsi davanti al quel distendersi della bocca così dolce…come non piantare i piedi davanti a quell’illuminarsi reciproco di occhi e labbra, come non restare lì a raccogliere luce e calore come un mendicante affamato? Avrebbe voluto fermare la gente, afferarla per il braccio e costringerla a condividere il momento: “Ehi dove andate? Ma..ma restate qui, venite con me..non vedete come è bella quando sorride?”. Era accaduto poche volte che gli sorridesse così, eppure, ogni volta gli pareva di poter aggiungere millenni ai suoi giorni di uomo.

Certo, si ricordava, pure, di quando piangeva…della lama affillata che gli tagliava le ossa: una pugnalata per ogni sua lacrima. Si ricordava di come l’universo intero patisse il sussulto dei suoi singhiozzi. Le montagne sembravano schiacciare la terra, il cielo tremava, non era possibile riuscire a fare un passo senza vacillare. Tutto perdeva la sua forma, la realtà sbiadiva i contorni lasciandolo privo di appigli. E quando stava male poi…le capitava spesso. Sopratutto ultimamente. Diventava così pallida, e tossiva. Nei momenti peggiori si accasciava, in ginocchio, come se portasse su di sè il peso del mondo.  Teneva stretto il ventre, un abbraccio intensissimo con il proprio corpo. Mangiava poco e troppo spesso, con le ginocchia piantate a terra, si sporgeva in avanti e vomitava cibo misto a sangue. Neppure lo guardava in quei momenti, lei. Eppure lui restava lì non se ne andava, mai. Restava lì sopportando eroicamente di non riuscire ad intervenire per darle sollievo. Restava lì, e quando lei sfinita, in ginocchio, rialzava di poco la testa, lui sentiva il sapore della morte, nel vederla così, stremata e bellissima, con un rivolo di sangue che le colava ancora dalla bocca e i suoi capelli scuri e lucenti impastati con i resti di quel cibo che non era per lei nè forza nè nutrimento.
Non smetteva di soffiare, il vento balordo. Il pensiero che quelle labbra socchiuse potessero finalmente partorire parole che il vento gli avrebbe portato via, lo prostrava profondamente. Posò i suoi occhi stanchi per l’attesa sulle mani di lei. Mani scure e belle. Magre ormai, ma espressive e potenti. Si ricordò, inevitabilmente, di quella volta che, quasi per errore, riuscirono a toccarsi. Fu un attimo, ma s’impresse in lui con una tale potenza…con una forza quasi violenta.

Camminavano insieme, uno accanto all’altra, come sempre. Avevano ormai imparato a procedere con ritmo costante, vicini, vicinissimi, ma lontani abbastanza per evitare il contatto. Ad un certo punto, però, il cammino si fece impervio, la strada dissestata, i sassi aumentarono improvvisamente, sembravano venire fuori dal nulla, una moltiplicazione feroce d’inciampi. Persero il ritmo del loro procedere paralleli e l’equilibrio di lui vacillò. Per evitare di rovinare a terra e batter la testa sui sassi, le afferrò la mano. Lui strinse, lei strinse. E lui non cadde sui sassi. Ma attraverso quella stretta di mani sentì lei in modo così forte dentro di sè che non potè frenare l’istinto di mollare la presa. Gli parve che i sassi gli avrebbero potuto nuocere meno di quella presenza di lei in lui così intensa.

Non gli accadde di toccarsi mai più. E adesso che lei lo stava lasciando, lui avrebbe voluto con tutta la sua anima, il suo corpo, la sua mente e le forze tornare a quel momento. Avrebbe voluto camminare sui sassi e riperdere l’equilibrio, rompere il ritmo del procedere parallelo e afferare di lei non solo la mano, ma il corpo, tutto: i fianchi, le braccia, le gambe, tutto. La pelle, il sangue, le ossa: tutto. Avrebbe voluto sentire fra le mani il pulsare dei suoi organi interni, stringere il suo intestino e il fegato e il cuore. Avrebbe voluto sporcarsi con il corpo di lei, avrebbe voluto sentire fra le dita i grumi del sangue da mischiare al suo in un esplodere incontenibile e furioso di rosso vivo. Avrebbe voluto sentirla addosso per sempre, perdere il proprio odore a favore del suo, mandare in frantumi i confini costruiti a difesa della propria solitudine e sentirsi invaso dalla presenza di lei. Avrebbe voluto. E ora che la vita lo stava lasciando non poteva che guardarla, nè troppo lontano nè troppo vicino e fissare quelle labbra socchiuse e immaginare, nonostante quel vento maledetto, un’ultima volta, il suono delle parole che la sua vita aveva tentato di pronunciare infinite volte.