A costo zero

(Foto di Muhammed Muheisen)

(Foto di Muhammed Muheisen)

Un mese e dodici giorni. Scuola superiore e un’altra città. Ma dopo un mese e dodici giorni dall’inizio della scuola, la mia sensazione è la stessa, più o meno. Certo, qualcosa è cambiato: posso usare qualche espressione in dialetto con i ragazzi, condivido con loro la stessa congenita nostalgia negli occhi, in quella tonalità originale che appartiene di diritto ai palermitani e riesco a costruire un dialogo più diretto rispetto a quanto potevo fare con i non-più-bambini-quasi-ragazzi delle scuole medie. Ma il disagio nel rapporto con l’Istituzione-scuola è lo stesso, anzi, cresce a dismisura.

Un mese e dodici giorni e la mia casella di posta è già piena zeppa di circolari che specificano doveri e divieti: Non arrivare tardi, non uscire prima, se hai bisogno di un permesso devi avvertire, se ti devi assentare per malattia devi comunicarlo entro le 7.45, altrimenti devi portare prova provata della ritardata comunicazione, oltre al certificato medico (tipo che se ti senti male e ti viene da vomitare alle 10 o vai a scuola e vomiti in presidenza oppure ti fai un selfie inginocchiata davanti al water del tuo bagno, in modo da giustificare il fatto che non hai avvertito entro le 7.45!); non mettere note tranne che un alunno non ti punti una pistola alla tempia e non mettere insufficienze a chi ha un problema, di qualunque tipo, vero o presunto, che “non si sa mai ci fanno ricorso!”. L’azione legale è la paura più grande dei dirigenti, è il manico del coltello con il quale famiglie sempre meno consapevoli del ruolo della scuola tengono in ostaggio ogni forma di azione educativa. Non sequestrare i cellulari (sopratutto quelli costosi), non rimproverare, non gridare, e se ci riesci non respirare fino al suono della campana! Non violare privacy, neanche per chiedere: “ehi, ti fa male la testa?”. E se un alunno in preda a crisi epilettica ti sta per morire in classe non somminastrare farmaci, neanche quelli salvavita che ha nello zaino, mai mai e poi mai! Lascialo lì e chiama il 118! Mantieni il controllo, sempre e comunque, non stancarti, non soffrire, non compatire, non farti coinvolgere.

Le classi non hanno porte né cartine, un cancellino per corridoio e quando finisce il gesso puoi tagliarti le vene e scrivere con il sangue. In bagno non esiste la carta igienica e se per caso ti dimentichi di portare un fazzolettino, puoi scegliere tra la vasta gamma di parolacce e bestemmie scritte sulle pareti e sulle porte. Però abbiamo i registri elettronici! Si, più o meno. Solo in alcune classi. E per le altre? Ti appunti tutto sull’agenda e poi ti colleghi da casa. E vogliamo parlare dei grandi passi avanti fatti grazie a questa tecnologia? Se i ragazzi, minorenni (la maggior parte cioè) arrivano in ritardo, prendono un brutto voto o si assentano, il registro invia un avviso ai genitori del malcapitato/a. Ai tempi miei per comunicare una nota o un brutto voto bisognava imparare l’arte dell’attesa: aspettare il momento opportuno, saperlo riconoscere e cogliere, trovare il coraggio di affrontare i genitori, ammettere l’errore, provare a ripararlo, recuperare. Adesso no. Adesso nessuna attesa e nessun momento opportuno. Decide la macchina. Siamo convinti, evidentemente, che i ragazzi non siano più capaci di gestire se stessi, non hanno bisogno di imparare a farlo, la vita ha altre esigenze. Nessuna responsabilità. Gli innocenti marciscono in galera, i corrotti governano gli stati. Va bene così.

Abbiamo scelto la settimana corta, perchè fa molto Stati Uniti d’America, ciò significa che i ragazzi alle scuole superiori entrano alle 8 ed escono alle 15. Sette ore in pochi metri quadrati (perchè le nostre scuole non sono come quelle degli Stati Uniti d’America!), tranne 20 minuti di ricreazione, seduti, in aule senza alcuna bellezza. Chi ha la sfortuna di dover fare lezione all’ultima ora ha la possibilità di vedere nei loro occhi il fuoco rosso di una rabbia compressa pronta ad esplodere, la noia, la fame, la testa altrove. Le scuole non hanno spazi esterni adatti a far lezione fuori, e comunque non possiamo portarli da nessuna parte: “E se cadono? E se si fanno male?”. Non ci sono fondi per organizzare progetti, per pagare figure competenti e specializzate per inventarsi nuove modalità di lezione. Quando si va in presidenza per condividere l’idea che ti è venuta, magari mentre stendi il bucato, perchè a cosa e come fare ci si pensa tutto il giorno, non ti fanno neppure finire di parlare: “Si, ma è a costo zero per la scuola?”.  E tu ti alzi e te ne vai, in silenzio, e invece vorresti far esplodere la stessa rabbia rossa e compressa degli occhi dei ragazzi e urlare a squarciagola che l’idea di una scuola a costo zero ti fa schifo! Ti fa schifo la burocrazia, la mortificazione della tua professionalità, ti fa schifo lo squallore degli ambienti a cui tutti sembrano assueffatti, ti fa schifo lo stato di polizia nel quale devi agire ogni giorno e che piano piano diventa anche il tuo modo di ragionare, ti fa schifo che a sedici anni i ragazzi non sanno cosa sia e dove si trovi a Palermo la Cappella Palatina, la Cattedrale, il palazzo Steri, ti fa schifo che esprimano tutti, ognuno a suo modo, il desiderio di fuggire lontano da questa terra maledetta che ti fa crescere con il complesso di appartenere alla parte sbagliata dell’Italia. Ti fanno schifo le riforme che si sono divorate ogni  progetto educativo riducendo pelle e ossa le fondamenta della società civile.

La scuola si regge sulle spalle di docenti che inspiegabilmente credono ancora al lavoro che fanno, che suppliscono all’ignavia di altri, che non si impuntano su questioni di principio, che decidono di correre rischi e prendersi responsabilità. Ieri, ai consigli di classe si parlava di tutto: qualche considerazione sugli alunni, qualche lamentela, un paio di frecciatine al collega rompipalle, cosa fanno sta sera in tv e quanto sono buone le melenzane fritte cucinate domenica. E secondo me è un bene che sia così. Magari fosse sempre così, magari la scuola fosse una comunità che condivide gioie e dolori, piaceri e dispiaceri di questa bizzarra cosa che è la vita. Perchè la vita, come la scuola, non può essere, mai, a costo zero.

Settembre senza titolo

Foto di Herbert List.

Foto di Herbert List.

Pensavi fossero eterne le mie risate?
Gioco di rincorse tra le ombre del vento.
Fuori
trema la terra di lievi sospiri.
Dal buio alla luce,
le tue palpebre d’oro,
si apre e si schiude la bocca
un migrare di sillabe mute.
Lontano,
riposa il corpo stremato,
l’occhio non dorme,
fame, sete, scintille.
Tutto il presente in un punto
fisso
il passare dei giorni.
Fuoco di viscere in fiamme,
il sangue su palmo di mani,
foglie di rami sugli occhi.
Viene il futuro all’indietro
cieco
su strade di fame.

O a Palermo o all’inferno!

Da quando ho deciso di tornare a vivere a Palermo ho l’impressione che tutto a Roma mi rivolga lo sguardo. La città mi guarda, mi guardano le strade, i platani, i gatti di Torre Argentina. Mi guardano i turisti, i conducenti dei bus, i gabbiani, il Tevere, il Cupolone. Mi guardano senza fiatare. Non dicono nulla. Uno sguardo muto e intenso. Uno sguardo al quale non si può rispondere se non con occhi muti e intensi.
“A Palermo?” – mi ha chiesto un’amica, al telefono, con un tono interrogativo simile a quello che avrebbe avuto se gli avessi detto che ero in partenza per combattere la guerra santa in  Pakistan.
– “Si, a Palermo”, ho risposto io.
– “Ma l’insegnamento lì te lo danno?”
– “No”.
– “E quindi lasci uno stipendio sicuro, a Roma, per tornare a Palermo…”
– “Ehm…Si”.
– “A Palermo?”.
– “Si, ti ho detto, a Palermo”.
– “Che immagino sia la stessa Palermo dove siamo cresciute e dalla quale sono scappata”.
– “Si, è la stessa”.
– “E tu ci torni dopo tre anni di vita a Roma dove hai un lavoro sicuro senza garanzia di un qualsivoglia stipendio…”
– “Esatto”.
– “Aaaaaah… (silenzio). Ma perchè????????”.
– “Non lo so esattamente. Ma devo farlo, anzi no non devo, voglio farlo…So che è giusto così, so che voglio provare a vivere con le cose che Roma ha donato a me, di me”.

Roma, tre anni fa sono arrivata da te con degli obiettivi da raggiungere, una manciata di desideri e qualche dubbio. Adesso ti lascio con molti obiettivi mancati, desideri inediti e una valanga di dubbi. Quello che ero te lo sei rosicchiato poco a poco, quasi senza che io potessi accorgermene per poter lottare con te ed evitare che accadesse. Hai estirpato con pazienza quasi tutte le cose che pensavo di sapere e che credevo di dover/voler essere. Son partita da casa tanto pigra da non voler fare neppure un bollettino alla posta, adesso torno a Palermo in grado di far ripartire la caldaia, smacchiare i vestiti, cucinare, sterminare le formiche, entrare e uscire dall’ospedale, litigare con i vigili urbani, farmi le punture da sola, dire la mia ai consigli di classe, leggere un contratto, tenere a bada 400 ragazzini a settimana, asciugare le prime lacrime di un cuore spezzato, compilare il modulo per le ferie, usare un registro elettronico, capire come si entra e si esce dal raccordo anulare; so organizzare una rassegna stampa e so come si gestisce la diretta di una trasmissione radio, so fare la scaletta di un programma e so che non bisogna credere a tutto quello che viene detto nei corridoi della Rai. E, alcune volte, so perfino fare queste cose quasi contemporaneamente.
Mai avrei immaginato quale vita mi stavi preparando mentre abbattevi ciò che conoscevo, Roma città piena di segreti. Mai avrei immaginato di saper resistere alla vita con tale costanza, mai avrei creduto di saper condividere il pane del mio lavoro con la solitudine di cene piene di inverno.
Roma, mi hai insegnato a saziarmi delle briciole, raccolte con pazienza nei lunghi tragitti in tram. Racimolare i frammenti della vita degli altri e poi rovistarci dentro alla ricerca di un’esistenza che tutti ci accomuna. Ho mille tramonti di cui ringraziarti, infiniti passi donati, generosi e furiosi, alle tue strade.
Roma, che mi hai nutrito di Pasolini e temporali, di strade innevate a festa e di notti calde in attesa di vacanza.
Roma, che mi hai insegnato a parlare e che generosa e severa mi hai fatto recuperare con fretta violenta il necessario per vivere.
Roma, che hai mischiato la mia carne e il mio sangue con la carne e il sangue di tutti. Roma benedetta, che mi hai insegnato la bellezza di essere normale, di camminare sconusciuta e sola dentro all’ammasso intricato del mondo:

Stupenda e misera città, 
che m’hai insegnato ciò che allegri e feroci 
gli uomini imparano bambini,

le piccole cose in cui la grandezza 
della vita in pace si scopre, come 
andare duri e pronti nella ressa

delle strade, rivolgersi a un altro uomo 
senza tremare, non vergognarsi 
di guardare il denaro contato

con pigre dita dal fattorino 
che suda contro le facciate in corsa 
in un colore eterno d’estate;

a difendermi, a offendere, ad avere 
il mondo davanti agli occhi e non 
soltanto in cuore, a capire

che pochi conoscono le passioni 
in cui io sono vissuto:
che non mi sono fraterni, eppure sono

fratelli proprio nell’avere 
passioni di uomini 
che allegri, inconsci, interi

vivono di esperienze 
ignote a me. Stupenda e misera 
città che mi hai fatto fare

esperienza di quella vita 
ignota: fino a farmi scoprire 
ciò che, in ognuno, era il mondo. (P. Pasolini)

Roma, adesso devo andar via, proprio adesso che ho imparato a vivere insieme a te la lunga lotta del trascorrere quotidiano del tempo. Torno a casa, ma non torno a ciò che ho lasciato. Di quanto ho lasciato non esiste più nulla se non il mare e l’affetto di una famiglia che non è solo legame di sangue, ma radici pazienti e profonde che ci intrecciano gli uni gli altri. Lo so che Palermo è una città feroce. Ma so che posso reggere il suo sguardo adesso. Lo so che Palermo non avrà riguardo per me e che non mi riserverà nessun trattamento di favore per essere tornata. Rimmarrà così com’è, bellissima e violenta e quando incassando i suoi colpi  mi accascerò con un filo di sangue che esce dalla bocca, lei mi dirà seria e con voce ferma: “Io non ti avevo promesso niente”.
WP_20140530_044Palermo che non prometti niente, io torno da te lo stesso. Posso, adesso, che ho imparato a sopportare l’assenza del compimento. Voglio, adesso, che non sei una resa, ma una scelta. Posso, adesso, ora che ho imparato a non aver paura dei miei squilibri ora che sorridendo apro la porta ad una strana e folle forza che diventa parole da scrivere e disegni tra le dita, idee e progetti da rischiare, ora che la vittoria la vedo nella possibilità di esistere e non soltanto nella capacità di realizzare, anzi, ora che la vittoria non è più un traguardo da tagliare.
Palermo Palermo, è inutile che mi guardi così. Io lo so. Lo so che queste cose che ho imparato sono solo una piccola parte dell’equipaggio necessario a vivere dentro al tuo assedio. Ma io torno lo stesso.
Torno sapendo che ti maledirò e ti amerò, e ti urlerò dietro la tua crudeltà e rimarrò muta davanti a te. Ma se non torno, adesso, i semi che Roma mi ha piantato dentro non marciranno e non ci sarà frutto. E non provare a vivere secondo quanto si intuisce vero è l’unica morte che oggi temo.
Bixio: Generale, finalmente siamo giunti nella tanto desiderata città di Palermo.
Garibaldi: Nino, domani a Palermo.
Bixio: Riusciremo ad entrare in questa città, generale?
Garbaldi: Nino, o a Palermo o all’inferno! (M. Cuticchio).

Qui. Dopo. Lì. Adesso.

Immagine

Sono all’aeroporto. Vedo la gente.
Mi passa davanti con gli zaini sulle spalle e le valigie in mano. Si prepara a partire.
Partire ha un peso.
Il peso delle cose che vuoi portare con te o il peso della rinuncia, per le cose lasciate.
Più cose lasci, più la capacità di adattamento deve esser grande.
Più cose porti più si deve esser disposti a sopportare il peso, l’impiccio, la poca libertà d’azione.
Si deve esser viaggiatori esperti per dosare con saggezza  peso e mancanza, oscillare più volte tra il troppo e il troppo poco per sentire di possedere il “giusto”.
Che poi, il “giusto”, non è uno e non è per sempre. No.
Dipende da dove si è diretti e per quanto tempo.
Il “giusto” è un’unità di misura liquida, prende la forma di ciò che sai in un momento preciso di un luogo preciso di un contesto preciso.
E così, quello che è “giusto” qui e adesso, non lo sarà più lì e dopo.
Qui. Dopo. Lì. Adesso.
Le coordinate della “giusta misura” si mischiano con la percezione di ciò che è necessario.
Cosa mi serve davvero?
A cosa posso rinunciare?
Ma anche: a cosa devo rinunciare perchè il mio essere qui, ora, sia della “giusta misura?”.
Viaggiare, partire è azione amata, stancante a volte, ma desiderata perchè da sempre il viaggio è metafora della ricerca di una vita che sia la nostra.
Forse è per questo che dietro al viaggiare troppo o troppo poco si nasconde una vita incapace di dosare necessità e giusta misura, una vita troppo pesante o priva del necessario.
Del viaggio non è la meta che si ama e neppure un luogo in cui tornare. Ciò che si ama è il tempo di mezzo, quel dimorare per un tempo indeterminato in un luogo indeterminato. In cielo, in terra, in mare esiste uno spazio privo di argini e di barriere nel quale ci si sente liberi di essere “informali”, senza forma, pura potenzialità in divenire.
Il viaggio è il rifugio di chi non ha trovato nella propria vita una sua dimora.
E’ il campo fertile di chi possiede i semi ma non ha la pazienza dell’attesa.
Il viaggio è il tocco leggero di chi fugge i legami. Occhi che si incrociano veloci. Abbracci senza radici.
Viaggiare troppo.
Viaggiare troppo poco è degli uomini di pietra. Di chi si lascia levigare, immobile, dal vento e dall’acqua,
di chi si fa formare o deformare senza resistenza se non quella del duro materiale di cui è fatto.
Chi viaggia poco ha la pazienza dello sguardo fisso, impara i particolari di un paesaggio e se ne nutre senza la nausea per quel cibo sempre uguale. Chi viaggia poco ha lo sguardo e lo stomaco di ferro.
Qui. Dopo. Lì. Adesso.
La gente mi passa davanti veloce e stanca, euforica e dormiente. Ognuno ha il suo bagaglio, un biglietto, una destinazione. E un tempo, il tempo di mezzo nel quale possiamo, provare almeno, a di-venire.

 

Vicino, lontano

(foto di Walter Chappell)

(foto di Walter Chappell)

Soffiava quel vento maledetto, così forte da rendere impossibile sentire la propria voce, così come la voce di lei. E sentire la voce di lei era l’unica cosa che desiderava, davvero, in quel momento, un momento maledetto come il vento.

Ma lei non parlava. Nonostante le sue labbra fossero socchiuse, come in procinto di dire. Sembrava che le parole fossero lì, tutte in fila, pronte a venir fuori. E così lui le fissava le labbra, per non perder d’occhio lo sgorgare possibile di una sorgente.

Gli occhi di lui, come una riva, linea di confine tra terra e acqua salata. Lacrime in equilibrio, per paura che superassero il confine e che gli accadesse di sparire sotto un salire d’acqua irrefrenabile.

La guardava, senza batter ciglio, per non perderla di vista neppure un istante. La guardava così, come aveva fatto per anni, vicino abbastanza per imparare ogni particolare e ripeterlo a memoria giorno e notte, al risveglio, la sera, per strada, al lavoro. Vicino abbastanza, ma troppo distante per sentire sotto il palmo della mano il calore della pelle, per sentire sotto le dita lo spessore dei nei, le onde della labbra, la seta dei capelli, le ossa sporgenti, la linea curva del naso, la morbidezza del seno. Non abbastanza vicino per amarla, non sufficientemente lontano per scordarla.

Si ricordò di quando la vide sorridere la prima volta. Credeva di perder il senno. E si era guardato attorno, sconvolto dal procedere disinvolto del mondo. Si chiedeva smarrito e commosso come fosse possibile che la vita di tutti continuasse senza incantarsi davanti al quel distendersi della bocca così dolce…come non piantare i piedi davanti a quell’illuminarsi reciproco di occhi e labbra, come non restare lì a raccogliere luce e calore come un mendicante affamato? Avrebbe voluto fermare la gente, afferarla per il braccio e costringerla a condividere il momento: “Ehi dove andate? Ma..ma restate qui, venite con me..non vedete come è bella quando sorride?”. Era accaduto poche volte che gli sorridesse così, eppure, ogni volta gli pareva di poter aggiungere millenni ai suoi giorni di uomo.

Certo, si ricordava, pure, di quando piangeva…della lama affillata che gli tagliava le ossa: una pugnalata per ogni sua lacrima. Si ricordava di come l’universo intero patisse il sussulto dei suoi singhiozzi. Le montagne sembravano schiacciare la terra, il cielo tremava, non era possibile riuscire a fare un passo senza vacillare. Tutto perdeva la sua forma, la realtà sbiadiva i contorni lasciandolo privo di appigli. E quando stava male poi…le capitava spesso. Sopratutto ultimamente. Diventava così pallida, e tossiva. Nei momenti peggiori si accasciava, in ginocchio, come se portasse su di sè il peso del mondo.  Teneva stretto il ventre, un abbraccio intensissimo con il proprio corpo. Mangiava poco e troppo spesso, con le ginocchia piantate a terra, si sporgeva in avanti e vomitava cibo misto a sangue. Neppure lo guardava in quei momenti, lei. Eppure lui restava lì non se ne andava, mai. Restava lì sopportando eroicamente di non riuscire ad intervenire per darle sollievo. Restava lì, e quando lei sfinita, in ginocchio, rialzava di poco la testa, lui sentiva il sapore della morte, nel vederla così, stremata e bellissima, con un rivolo di sangue che le colava ancora dalla bocca e i suoi capelli scuri e lucenti impastati con i resti di quel cibo che non era per lei nè forza nè nutrimento.
Non smetteva di soffiare, il vento balordo. Il pensiero che quelle labbra socchiuse potessero finalmente partorire parole che il vento gli avrebbe portato via, lo prostrava profondamente. Posò i suoi occhi stanchi per l’attesa sulle mani di lei. Mani scure e belle. Magre ormai, ma espressive e potenti. Si ricordò, inevitabilmente, di quella volta che, quasi per errore, riuscirono a toccarsi. Fu un attimo, ma s’impresse in lui con una tale potenza…con una forza quasi violenta.

Camminavano insieme, uno accanto all’altra, come sempre. Avevano ormai imparato a procedere con ritmo costante, vicini, vicinissimi, ma lontani abbastanza per evitare il contatto. Ad un certo punto, però, il cammino si fece impervio, la strada dissestata, i sassi aumentarono improvvisamente, sembravano venire fuori dal nulla, una moltiplicazione feroce d’inciampi. Persero il ritmo del loro procedere paralleli e l’equilibrio di lui vacillò. Per evitare di rovinare a terra e batter la testa sui sassi, le afferrò la mano. Lui strinse, lei strinse. E lui non cadde sui sassi. Ma attraverso quella stretta di mani sentì lei in modo così forte dentro di sè che non potè frenare l’istinto di mollare la presa. Gli parve che i sassi gli avrebbero potuto nuocere meno di quella presenza di lei in lui così intensa.

Non gli accadde di toccarsi mai più. E adesso che lei lo stava lasciando, lui avrebbe voluto con tutta la sua anima, il suo corpo, la sua mente e le forze tornare a quel momento. Avrebbe voluto camminare sui sassi e riperdere l’equilibrio, rompere il ritmo del procedere parallelo e afferare di lei non solo la mano, ma il corpo, tutto: i fianchi, le braccia, le gambe, tutto. La pelle, il sangue, le ossa: tutto. Avrebbe voluto sentire fra le mani il pulsare dei suoi organi interni, stringere il suo intestino e il fegato e il cuore. Avrebbe voluto sporcarsi con il corpo di lei, avrebbe voluto sentire fra le dita i grumi del sangue da mischiare al suo in un esplodere incontenibile e furioso di rosso vivo. Avrebbe voluto sentirla addosso per sempre, perdere il proprio odore a favore del suo, mandare in frantumi i confini costruiti a difesa della propria solitudine e sentirsi invaso dalla presenza di lei. Avrebbe voluto. E ora che la vita lo stava lasciando non poteva che guardarla, nè troppo lontano nè troppo vicino e fissare quelle labbra socchiuse e immaginare, nonostante quel vento maledetto, un’ultima volta, il suono delle parole che la sua vita aveva tentato di pronunciare infinite volte.

È così che accade, ogni tanto, la notte.

(foto di Luca Nizzoli Toetti)

(foto di Luca Nizzoli Toetti)

È così che accade, ogni tanto, la notte.

Di dover andare a dormire, ma di non riuscirvi, di sentire insonnia ribelle muovere guerra al riposo necessario ad alzarsi, domani.

È frammento di caos primordiale, impossibile staccarlo di dosso. Polvere di bing bang ad annodare i capelli, scheggia incastrata, in circolo nelle cellule, che si muove, su e giù, sotto e sopra, tra cascate di sangue in piena, tremar di vene al passaggio.

Devi dormire, lo sai. Sai che domani l’alba arriverà, risuonare arrogante di sveglia e maledirai il caos, il magma, il fuoco e il sangue, e cercherai tu, disperata-mente, di star bene al mondo. Cercherai quiete, vita, presente per forza.

Eppure, accade, la notte, che assalga il dubbio, di pensare bugiardo il riposo di membra e di ignorare disinvolto il mattino. Nella notte accade pensare che ci sia, altrove, una vita diversa dove ogni cosa è tesa allo sforzo di generare la versione vera di te. Sudore, sangue, squarci di placenta, urla di dolore. Non è guerra, non è miseria né morte. È la vita che si dimena nel desiderio insostenibile di averti. Di avere te, di possedere te e nessun altro al tuo posto.

La vita, che si consuma di desiderio, che geme, solitudine insostenibile la nostra assenza. Non più tu a patire incomprensione, non più tu a smussare angoli senza sosta per riuscire ad entrare dove, credi, tutti ti attendano, fatica, e semina di desideri altrui.

No, non più tu a voltarti ad ogni passo, non più tu a tender l’orecchio, a raffinar l’udito, speranza di sentire corse ansiose, scalate a nude mani su punta di roccia, pur di veder te, e nessun’altro al tuo posto.

La vita, sentinella senza cambio di guardia nè sonno, sguardo teso come freccia a puntar l’orizzonte, pronta a scoccare veloce, a tagliar l’aria, silente e decisa, per passarti accanto, sfiorare.

Occhi furtivi e capriole di ruoli, spiarle in faccia lo sconforto, lo sguardo fisso alle spalle, attesa sfinita del tuo volto. Ma, poi, riconoscere nel suo sconforto la delusione dell’attesa, la tua di lei, sentir fremiti di pietà e voltarti di scatto ad acchiappar l’istante, amore e sorpresa. La vita, sguardo affamato di incontro. Non più tu a correrle dietro, a cercar le tracce del passaggio, non più tu ad attendere ore, moltiplicazioni di giorni, panchine fredde e ruggine su palmi di mano.

Il sonno preme, spinge di spalla, si getta di peso, e invece resisti e speri che il magma non torni a scavare rifugi codardi di tenebre. Resisti e speri che il caos rispacchi la terra, brandelli di fuoco all’intorno, confini come briciole. Andare, ovunque. Nessuna licenza. Poter essere niente, assenza di sforzo nel diventar qualcosa, rinunciando a qualcos’altro. Tutto è tuo e ogni luogo è quello giusto. La vita, non più amputazione d’eccessi, nessun equilibrio. Nessun sentiero diritto, solo cime, solo pendenze.

Colori nell’ombra

Chiaroscuro. Penombra. Sempre ho immaginato così lo spazio interiore nel quale prendono vita le nostre domande. Un gioco di luci ed ombre. Le domande nascono da intuizioni. Da qualcosa che comprendiamo ma non del tutto, frammenti di verità a cui vorremmo dar forma, spesso senza riuscirvi. Sono domande grandi, domande che molti rinunciano a farsi: la vita, la morte, il dolore, il perchè delle cose che siamo, il perchè di ciò che desideriamo, il perchè di quanto non comprendiamo. Di questi tempi poi…la crisi riduce gli orizzonti, dicono. I bisogni primari non sono soddisfatti. Si ha fame. E la fame del corpo divora i bisogni dell’animo. Dicono. Ma per i bambini forse non è così, non ancora. Il loro spazio di penombra è ampio. I bisogni sono tutti primari. Riempire la pancia e sapere perchè sei nato bambino e non cane, sono entrambi istinti in cerca di risposta. Meraviglia. Ho affidato ai miei alunni di prima media uno spazio di silenzio. Una porzione di tempo durante il quale andare a scovare e tirar fuori le domanade alle quali vorrebero abbinare una risposta, quelle che magari hanno timore di fare ai “grandi”. Ho detto loro che potevano chiedere tutto. E mi sono premurata di chiarire loro che non sarei stata in grado di rispondere. Soltanto mi sarei impegnata ad accogliere. Il risultato di questo piccolo esperimento dentro ad una piccola aula di una piccola scuola mi è sembrato avere proporzioni universali, ascoltare, una dopo l’altra le loro domande mi ha dato l’impressione di assistere ad una esplosione di colori che ha del tutto mutato il mio immaginario di chiaroscuro . Le domande sono colori nell’ombra.

Federica: Perchè io sono io?

Martina: C’è il paradiso dopo la morte oppure rimarremo polvere senza anima?

Tommaso: Perchè esiste la natura?

Luca: Perchè non possiamo rispondere alle domande?

Federico: Perchè esiste il mondo?

Leonardo: Perchè dopo aver raggiunto degli obiettivi non si sa più qual è il senso della vita?

Carlotta: Perchè certe volte sembra che Dio non ci assista?

Benedetta: Perchè si vive se poi bisogna morire?

Leyla: Perchè non possiamo vivere senza acqua e cibo?

Chiara: Perchè si sogna?

Davide: Perchè l’universo è infinito?

Leonardo: Perchè tanti uomini si fanno male da soli?

Francesca: Perchè sono nata e certi bambini no?

Lorenzo: Perchè Dio ha creato il mondo e noi?

Jonathan: Perchè non nasciamo tutti intelligenti?

Eleonora: Quando moriamo tutti, cosa succederà?

Filippo: Perchè il destino mi ha fatto fare certe cose?

Camilla: Esiste una vita dopo la morte?

Cristian: Quando moriamo cosa succederà?

Beatrice: Perchè esistono le malattie?

Giulia: Perchè sono uomo e non un animale?

Giacomo: Perchè si muore?

Marco: Perchè esiste la vita?

Simone: Perchè l’uomo cerca sempre la perfezione?

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“Roma è avida di passi” (Resoconto dei miei primi due anni a Roma)

Una valigia per due mesi. Sembrava dover essere un soggiorno breve e intenso. Corsi per il Dottorato, piccola esperienza in Rai. Dopo, ancora Sud. Per terminare la mia tesi, velocemente e bene. Come avevo sempre fatto. Oggi 30 aprile festeggio il mio secondo anno di vita a Roma. Quei due mesi si sono dilatati, la valigia è diventata stanza in affitto in una, due, tre case differenti. La tesi è ricoperta da centimetri di polvere. In Rai mi hanno aperto un numero di matricola (evento definito giustamente “miracoloso”), ma, di fatto, senza che sia colpa di nessuno, la mia matricola si è atrofizzata dentro a qualche archivio di viale Mazzini. Le hanno sicuramente detto di mettersi in un angolo, al sicuro dalla crisi economica, in attesa di essere richiamata in servizio. Povera! Soffrirà di malinconia, non certo di solitudine. Però un lavoro ce l’ho e pure uno stipendio. Giuro. Precario, ovviamente. Il fatto è che proprio non riesco a farmelo piacere. Il lavoro dico, non lo stipendio, ovviamente.

Due anni. Due anni come due minuti dentro ad un frullatore. Tutto spezzato e trasformato. Tutto diverso. Tra la prima valigia e lo stipendio di oggi ci stanno ventidue mesi e molte cose. Tra la prima valigia e il mio presente c’è una città, una città affollata di gente, di eventi, di robe da piazza, di viicoli stretti, di palazzi, di chiese e monumenti, di manifestazioni, di politica e potere, di spaghetti cacio e pepe, di librerie, di tramonti mozzafiato, di cupolone, di fiorai, di derby, di turisti in canottiera e di bus affolati. Roma. Le persone, le cose, le parole, gli incontri. Ad uno sguardo di insieme, distante, distratto sembra confusione, traffico, caos. Ma a guardare con più attenzione Roma è gente venuta a portare qualcosa nella mia vita: una parola, una possibilità. Gente venuta ad aprire porte chiuse da tempo, o che si accosta, con andatura determinata e costante per dirmi qualcosa di me che ancora non so.

Roma ti deruba di forza. Roma è avida di passi. Accade allora di sentire la stanchezza e di non avere voglia di ributtarsi nella mischia. Pensi: Ma dove vado? Ma cosa sto facendo? Ti pare che il tuo volto si confonda con quello degli altri e che nessuno lo riconosca come unico. E, mentre stai seduto sul gradino del marciapiede ed osservi le ginocchia del mondo che ti passa accanto, alzi lo sguardo, pensi di intravedere “qualcuno” tra la folla e ti assale una malinconia che rende quel luogo insopportabile e la fatica per restarci dentro, inutile. Il luogo da dove vieni si trasforma. I ricordi delle cose “normali” diventano sacri e anche il pensiero di un pranzo in famiglia assume i contorni di un racconto mitologico fatto di eroi, di divinità, di vittorie.

La distanza da casa e l’incertezza del futuro, la vita che cambia e non capisci, i desideri che si trasformano e non riconosci, i compromessi che ti rincorrono, la nostalgia di ciò che desideri diventare, le novità che ti sorprendono, le persone che ti travolgono, tutto ti scava dentro uno spazio. Uno spazio inatteso, non previsto, di cui ti accorgi solo dopo, quando già esiste. E ci guardi dentro e ne vedi la profondità e ti chiedi cosa mai potrai metterci lì dentro, come riuscire a riempirlo. Già. Cosa? Capita di pensare, allora, dopo questi due anni per le strade di Roma, che quello per cui sei arrivata fin qui è diventato altro e che bisogna cambiare programma. Capita di pensare che si, magari la tesi di dottorato la finirai pure ma tocca reinventarsi la vita. E anche se ti rabbrividisce il freddo e l’umidità che arriva da quel vuoto che la città con la sua vita ti ha scavato dentro, speri di poter trovare, da qualche parte, pensieri nuovi, speranze durature, sogni diversi o, forse, sogni rinnovati, cambiati di abito, tirati a lucido. Che la vita è bizzarra, dicono. E i sogni vanno tenuti allennati, ben oleati, con la revisione fatta, con il tagliando in regola. Pronti a ripartire, in qualsiasi momento. Perchè Roma non è solo “guerra”, la tua crociata per conquistare e difenderti la vita. Roma è già vittoria. È la pagina che si gira, è l’attesa di sapere come finirà la storia. “…A me pure piace girare per le strade di Roma… soprattutto in estate.. di sera… verso le sette e mezza, otto… e sentire il rumore delle posate che vengono disposte sulla tavola… e pensare alle famiglie che si stanno preparando a cenare… e sentirmi leggero….

Tramonto romano 1° Maggio 2011

Tramonto romano 1° Maggio 2011