Noi ragazze

cop_Pane_nero_Mafai:2008Alcune settimane fa ho pranzato con una donna di ottantacinque anni, la signora Lucia, volitiva e con una memoria vividissi-ma, nonostante i malanni dell’età.
Mi ha parlato di molte cose, un po’ per farsi conoscere, un po’ per conoscere me, anche attraverso le mie reazioni al suo raccontarsi: occhi, corpo, parole.
E di fronte ai suoi ricordi di guerra, subita e vissuta a Roma poco più che bambina, io sono rimasta tutta occhi, però, senza parole.
Non era solo quel che raccontava a rapirmi dentro riflessioni e sensazioni fortissime, ma era la forza del racconto: un dramma ancora intatto, come intatta era la rabbia e la memoria dei personaggi che quella guerra l’hanno giocata solcando a sangue la vita di un intero popolo, come sempre disgraziatamente accade.

Poi, appena qualche giorno dopo, ho sentito in radio di un libro di Miriam Mafai: Pane nero. Donne e vita quotidiana durante la seconda guerra mondiale. L’ho letto con la fame di chi in questi tempi di penuria di senso e buon senso, sente la necessità di un nutrimento che non sappia di slogan senza radici, di semplificazioni della realtà, di rigurgiti fascisti. E’ stato davvero incredibile ritrovare fra le pagine della Mafai, gli stessi racconti e stati d’animo che la signora mi aveva trasmesso pochi giorni prima.

Il libro comincia narrando del 10 giugno 1940, di quel discorso che Mussolini fece per annunciare l’entrata in guerra del nostro paese, discorso che venne accolto quasi si trattasse di una festa.
Si credeva sarebbe durata ancora per poco la guerra e che, con il minimo sforzo, l’Italia si sarebbe guadagnata la partecipazione al tavolo dei “grandi”.

Le manie di grandezza di quel fascismo, a me che ne conosco il massacro e la disperazione che ne seguirono, sembrano ridicole fino ad essere offensive. La razza, l’impero, il prestigio. Una favola orribile capace di incantare la maggior parte degli italiani, non capisco ancora come e perché. La guerra non fu né veloce né indolore, fu un’immane tragedia, fu distruzione ed umiliazione.

Se i primi tempi si pregava perché l’Italia vincesse, presto si cominciò a pregare per la pace, perché “con la fame cresce la rabbia per le ingiustizie”.

E della fame, la signora Lucia me ne aveva parlato, delle bucce delle fave arrostite che si mangiavano davanti al focolare senza che ne rimanesse una sola briciola. In silenzio, perché sembrava incredibile e surreale anche a loro stessi.

Con gli uomini al fronte le donne si trovarono ad affrontare una vita che non avevano immaginato per se stesse. Non la scelsero, di fatto, se la ritrovarono fra le mani come unica alternativa alla morte: “La fame e la guerra spingono le donne fuori di casa, le obbligano a cercare un lavoro, a prendere decisioni, ad aiutare coloro che sparano o a sparare loro stesse; le obbligano ad uscire dal ruolo che era stato loro affidato dal fascismo e dalla Chiesa, di moglie e madre esemplare. Questa uscita dal ruolo non avviene sempre coscientemente. In molti casi, al contrario, si giustifica proprio col desiderio di mantenere fede fino in fondo a una tradizionale immagine di sé: Ma, una volta vissuta, la trasgressione incide nella coscienza di tutte, rivelando l’esistenza e la possibilità di percorsi individuali sconosciuti, certo più accidentati ma anche più gratificanti di quelli che alle donne erano riservati in passato”.

Era dura a morire l’idea che avevano interiorizzato di se stesse, quel modello di femminilità scelto da altri, maschi di potere o sacri che fossero.

Eppure, come le mie orecchie hanno udito dalla voce ferma di Lucia, erano le bambine che andavano a fare la fila per ottenere il carbone necessario a cucinare il poco che c’era, ed erano le donne a portare avanti le fabbriche, le ferrovie, le poste, l’Italia! Così come furono le donne a tessere la rete connettiva della Resistenza, percorrendo chilometri e chilometri in bicicletta, portando missive, armi, viveri, volantini: “La guerra costringe a cambiare abitudini […] Ma sollecita e stimola anche qualche corda segreta, quello spirito di avventura che normalmente le donne reprimono e puniscono quasi fosse una vergogna ed un peccato”.

Gli uomini che dal fronte riuscirono a tornare, però, desideravano ritrovare le certezze che avevano lasciato partendo. Quella possibilità d’essere padroni in casa propria, dopo essere stati servi di un regime e di un’ideologia che li aveva portati a sfiorare la morte e comunque a vederla ovunque attorno a loro. La superiorità dell’uomo sulla donna frutto dell’intreccio e del vicendevole sostegno tra politica fascista e l’ideologia cattolica, sembra ingoiare quasi del tutto l’esperienza che le donne avevano fatto di se stesse. Ma così non sarà, non del tutto, perché avere stretto al collo un cappio dai tedeschi per estorcere una confessione o vedere morire il proprio bambino per il latte divenuto cattivo a causa della fame e dello spavento costante, non sono esperienze che permettono di tornare come si era prima.

Anche la signora Lucia mi ha raccontato della paura, sentita in corpo più che consapevolizzata a causa dell’età e della confusione e della fame, vista e riconosciuta nei lineamenti della madre. La paura provata davanti alla fermata del bus, nella speranza di veder tornare il proprio padre,  non rimasto sotto un bombardamento, non ucciso dal fuoco dei soldati tedeschi.

“I bambini, circa trenta – racconta Elide Ruggeri – erano tutti morti tra le braccia delle loro madri. Alcuni adulti riuscirono incredibilmente a salvarsi, sepolti sotto i morti. Anche io, ferita, restai tra i cadaveri. Sopra di me e al mio fianco c’erano i cadaveri delle mie cugine e quello di mia madre, sventrata. Restai così immobile tutto il giorno e tutta la notte seguenti, sotto la pioggia, in un mare di sangue e quasi non respiravo più”.

La signora Lucia sembra non trovare parole abbastanza dispregiative per definire Mussolini e per la verità, neppure a  Vittorio Emanuele III, risparmia la sua incredibile ed intatta carica di rabbia mista a dolore. La ferita della guerra non è aperta, poiché la vita è andata avanti, sono state fatte scelte, affrontate difficoltà, vissute gioie e altri quotidiani dolori, ma non è neppure chiusa, perché dimenticare è morire. La ferita è viva, iscritta nella sua esperienza e portata addosso come bagaglio pesante, ma prezioso.

E sono proprio questi i sentimenti che mi hanno aiutata a leggere Pane nero, con lo stupore e l’interesse che il libro merita. Scritto in modo lineare, asciutto, chiaro, il testo della Mafai mi ha aiutata a leggere ed interpretare una parte di storia tanto recente e tanto discussa dalla quale io provengo e che mi porto dentro inevitabilmente. Attraverso le testimonianze che Miriam Mafai ha raccolto ho potuto far luce sulla mia identità di donna, in Italia, oggi. Un oggi difficile che incredibilmente guarda al passato rievocando quello spirito grottesco e tragico di una grandezza costruita su discriminazioni, demagogie e una profonda radicale ignoranza, quella su cui l’odio si annida e prolifera come forma di difesa verso un mondo divenuto troppo complesso per essere vissuto.

Pane nero è un libro che rende fiere le donne, per quella partecipazione alla Resistenza tanto attiva e fondamentale per la liberazione del nostro paese e tanto omessa dalla successiva storiografia. E’ un libro che permette di intravedere quella rete di fili rossi che dalla perseveranza, fiducia e coraggio di allora, conducono oggi alla perseveranza, alla fiducia e al coraggio di cui le donne hanno bisogno. Ed è un libro che apre gli occhi e fa sentire tutto il disgusto che il fascismo e che i fascismi, che la guerra e che le guerre meritano.

Miriam Mafai

Miriam Mafai

Infine, per chi non la conoscesse già, il libro è un modo per incontrare la vita e la scrittura di Miriam Mafai, una donna con la quale, se fosse ancora in vita, mi piacerebbe stare ore a parlare. Vorrei ascoltare da lei il racconto delle sue esperienze e, allo stesso tempo, dirle di me, della gratitudine che sento verso chi come lei, ha reso possibile percorrere strade altrimenti impensabili per noi donne. Mi piacerebbe dirle, guardandola con sguardo complice quel che la signora Lucia ha detto a me, con uno spirito di solidarietà che non potrò dimenticare, appena una battuta, ma che pronunciata da una donna di ottantacinque anni verso una di trentasette in gravidanza, ha avuto per me il sapore prezioso di una consegna: “Comunque Giulia, la verità è che noi ragazze ce la caviamo sempre!”:

La possibilità, la competenza (ovvero della vita e della morte)

("Il metafisico", opera di Elisa Nicolaci)

(“Il metafisico”, opera di Elisa Nicolaci)

Quando ero bambina non mi sfiorava l’idea che la “festa dei morti” fosse una contraddizione in termini. Perché la vivevo veramente come una festa ed intorno a me vedevo colori, luci, regali. I morti stavano sullo sfondo, anche se la visita obbligata ad un cimitero di provincia non mi lasciava indifferente. Il nonno lo conoscevo solo grazie a quella foto in bianco e nero da cui mi guardava austero, ma dolce. Poi c’era la zia Maria da visitare, che però la foto ce l’aveva a colori e poi c’erano i morti sconosciuti, giovani, vecchi, bambini perfino, di cui immaginavo la storia e incredibili avventure per tirarli fuori da quell’oblio che le tombe abbandonate mi suggerivano.

Oggi, seppur sia ancora forte e felice la memoria dell’infanzia, “la festa dei morti”, mi pare un ossimoro troppo difficile da accettare. Sarà che crescendo la morte si palesa in forme più o meno aggressive e personali, sarà che il persistere nella vita, la morte la mostra presente in mille piccole cose, se la si vuol ri-conoscere e vedere.

Certo fra gli uomini c’è chi la patisce da sempre, in forma violenta e carica di ingiustizia, perché è vero, inesorabilmente vero, che non è egualmente distribuita  la sua presenza tra le creature umane. E poi, non è soltanto il corpo a subirla, ma spesso è l’animo a farne le spese in modo più drammatico. Molte volte, corpo o animo che sia, viene inferta dall’esterno, altre germina da dentro e non si fa estirpare. Almeno così pare. E’ un po’ come la parabola del grano e della zizzania raccontata nei vangeli: vita e morte crescono insieme e non si possono separare se non rischiando di estirpare insieme alla morte la vita stessa.

Così accade durante le lunghe malattie, quelle che accompagnano per anni, che riempiono le giornate della stessa fatica per un tempo illimitato facendo attraversare giorno dopo giorno lo stesso calvario oramai battuto come una strada maestra.

E così, credo, sia il sopraggiungere della vecchiaia, sentirla nel corpo prima che nell’anima e opporre resistenza per istinto alla direzione forzata, fino a quando non vince la sapienza dell’accettazione o la disperazione del rifiuto.

Quel che però io oggi vedo, sospesa tra la più potente esperienza di vita e la fatica enorme della malattia, è che avanzare nell’esistenza comporta di fatto una perdita e un guadagno.
Quel che si va perdendo è il bagaglio di potenzialità che sono insite nel corpo, nella giovinezza e nel tempo, lungo e disteso dinnanzi a sé. La possibilità di non fare, di rimandare a domani, di distruggere e ricostruire, di lasciare a metà, di farsi sfuggire le occasioni, la possibilità di scelte acerbe tutte da recuperare.
Quel che si va guadagnando è, invece, l’abilità. La capacità cioè e la competenza per affrontare la vita, carica del suo passato, impegnativa nel presente e sempre più stretta di futuro. La capacità di riprendersi dal lutto e dal dolore, di affrontare gli ostacoli, di relazionarsi dosando aperture e difese, la competenza nella risoluzione dei problemi e dell’esperienza come bussola d’orientamento, l’abilità di riconoscere la gioia e di godere di momenti felici per quanto circoscritti e privi di perfezione e assolutezza, la capacità di lasciar andare sogni, affetti, persone…

Non lo so se questo è vero in generale, ma certamente è vero per me, che non “festeggio” più i morti, anzi che la morte la detesto, pur accettandola ogni giorno, così come si presenta, nella mia esperienza, nell’esperienza altrui, attorno a me, lontana  o vicina che sia. Esorcizzarla o rinnegarla è la più inutile delle illusioni. Mi pare. Tenerla presente costantemente e crederla preponderante rispetto alla vita e alla sua svariata sapienza, il più inutile dispendio di energie.

Forse il solo modo di mantenere insieme quel che si perde e quel che si guadagna, la potenzialità della vita da una parte e la capacità di viverla, dall’altra, è dosare la ribellione che la morte provoca con la sua oscenità di dolore e di fine di ogni cosa con l’integrazione nella vita della sua presenza, che, volente o nolente, c’è e ci interpella oggi e poi ancora e ancora e ancora.

La vita, la terra, la fisica e i baci!

Debbie Shultz, foto di Harvey Turtz, 1952.

Debbie Shultz, foto di Harvey Turtz, 1952.

Questa mattina sono andata a casa dei miei genitori, e sono entrata nella mia stanza. Dovevo prendere alcune cose, rimaste lì. Ho aperto armadi e cassetti e sono stata travolta da un mondo, il mio.

Fotografie, appunti ordinatissimi di ebraico ed esegesi biblica, moleskine con dentro segnati appuntamenti, cambiamenti e stravolgimenti, il nome del mio primo ragazzo circondato da cuori e un suo sms ricopiato in perfetta grafia, dove c’era scritto: “Posso rinunciare a tutto e a tutti, ma non a te! Quindi rompi questo silenzio stampa e parlami!!”. Non mi ricordo cosa fosse successo, ma ho sorriso, dosando con attenzione la giusta tenerezza e un’onesta malinconia.

Ho trovato biglietti di concerti e di viaggi in treno, alberi disegnati in foglietti volanti e quaderni ricoperti con carta colorata, un cappello come quello di De Gregori, una lettera della mia migliore amica degna del premio Pulitzer, un blister di pillole per il mal di pancia, la foto del mio cane vicino al comodino, la poesia di uno spasimante che mi ha fatto molto ridere, i diari carichi di un cammino non proprio lineare e facile.

La vita, insomma, che non mi è sembrata né brutta né bella, ma… mia! E questo si che mi è parso importante.

Allora ho pensato a mia nonna, che ha novantacinque anni e che domenica mi ha raccontato di quando nonno tornava da lavoro e la vedeva in lontananza seduta sotto il portico e le mandava con le mani baci di soffio appassionato. Giorno dopo giorno. E da quando è morto ogni mattina lei glieli restituisce guardando la sua foto al risveglio. Giorno dopo giorno.

Mi è venuto in mente perché la vita mi è sembrata come la terra, che è fatta di strati e di sostanze che le danno fertilità e di pietre e di radici e detriti, di sali minerali e di acqua, di sabbia e calcare e tutto si amalgama nel tempo, per millenni,  tutto fa sì che la terra sia terra.

E così anche se mia nonna è anziana e mio nonno è morto, i loro baci ci sono ancora, amalgamati al tutto che gli appartiene, non si sono perduti, come è tipico dei baci, di fatto.

E così anche se la mia vita è in trasformazione quel che ho alle spalle è  amalgamato nella mia terra d’oggi, anche le cose dolorose o interrotte senza parole o non comprese, anche le cose buie così come le giornate scintillanti di piccole segretissime felicità.

E così mi sono ricordata dell’unica, credo, legge della fisica che mi è rimasta nella memoria, perché è una legge poetica in fondo quella della conservazione della massa: “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”.

Non immaginavo che finalmente l’avrei capita così, dopo anni, una mattina d’autunno, con le mani a cercar il senso nel passato, la testa al presente e tutto il corpo immerso nel più miracoloso dei futuri.

 

Obiettivi cambiati

Consecutive moments © Hiroko Otake

Consecutive moments © Hiroko Otake

“Il prete mi ammoniva dicendo che non dovevo comportarmi mai in modo individualista, non dovevo pensare solo a me stesso! I miei genitori si auguravano che avessi un lavoro normale; i miei fratelli che finissi gli studi; i miei amici che trovassi un posto fisso. Io invece mi sono opposto a ogni tentativo di imposizione, e i miei obiettivi sono sempre cambiati. La fine di ogni singola fase della vita è stata determinata esclusivamente dalla percezione che da una determinata attività non avrei tratto più alcuno sviluppo ulteriore. Il mio nido, ogni volta diverso, mi ha consentito una continua evoluzione. Noi uomini non siamo «portati» per un determinato lavoro, abbiamo un «compito», ma nessuna «vocazione», proprio come accade per le piante o gli animali”.

 “La vita secondo me” di Reinhold Messner

Così in terra

IMG_20170604_202728

…non aggirarti muto nella nostra confusione,
non vagare a vuoto nell’ombra del nostro dolore,
non lasciare la tua impronta, dove non porti soluzione.
Disperdi i neri corpi celesti, contrabbandieri sacri del tuo nome!
Tra le pietre semina ovunque disobbedienza e consolazione.
Baci e baci e fiati di corpi mortali salvino la nostra carne da tutti i mali
e da qualunque perfezione liberaci, in eterno.
Amen.

Sai che cosa sembra?

(Addaura, Palermo)

“Ora camminavano sotto braccio.
L’uomo portava la bicicletta con la mano sinistra e lei, la donna, era nell’altra sua mano, camminava dentro di lui, non sulla strada. […]
«Sai,» egli le disse, «che cosa sembra?»,
«Che cosa?» disse Berta.
«Che io abbia un incantesimo in te».
«E io in te. Non l’ho anch’io in te?».
«Questa è la nostra cosa».
«C’è altro fra noi?»,
«Pure sembra che ci sia altro».
«Che altro?»,
«Che io debba vederti quando sono al limite».
«Come, al limite?»
«Quando ho voglia di perdermi»”.

Elio Vittorini, Uomini e no, 1945.

Le altre parole

(foto di Mike Brodie)

(foto di Mike Brodie)

“Voci ovunque”. E’ la mia personale definizione che descrive l’esperienza del fatidico ricevimento dei genitori. Ascolto la voce di chi sta parlando con me, la mia che rispondo, quella delle colleghe, della folla davanti alla porta dell’aula, a turno, le voci dei ragazzi rimasti di sotto in cortile. Parliamo tutti, tutti abbiamo qualcosa da dire, ridire, chiedere, rimproverare. “La parola all’accusa! La parola alla difesa!”.

Eppure queste voci che si diffondono ovunque sono una piccola parte dell’intero processo di comunicazione. Piccola davvero. Ognuno dei docenti sceglie un angolo dell’aula e si dispone come su un ring per sferzare e parare ogni tipo di colpi: oggi si consegnano le schede intermedie, una specie d’avviso alla popolazione perché chi sta per affogare abbia  il tempo di cercare un appiglio di salvezza e chi dall’inizio dell’anno rema con fatica possa vedere all’orizzonte la ricompensa della riva. Un foglio bianco come uno schema della battaglia navale, l’elenco delle materie e la fasce di voto: scarso, insufficiente, mediocre, sufficiente, discreto, buono e ottimo! E poi un pugno di “X” che sembrano sparse a caso: Acqua! Colpito! Affondato!

“Prof. glielo spiega a mia madre che questa non è la pagella?! Che ancora posso essere promosso? Per favore!”. E’ grande e grosso ma ha solo quindici anni. La sua famiglia viene da un paese davvero lontano, ma lui è nato qui. Il paradosso è che sua madre comprenda a stento l’italiano mentre il dialetto siciliano del figlio farebbe invidia ai venditori ambulanti del mercato di Ballarò. E’ un ragazzo sveglio, con grande senso dell’umorismo, ed è anche campione mondiale di pigrizia. Noi lo sappiamo, lui lo sa. Dopo pasqua comincerà la sua folle corsa, sarà rimandato in due, tre materie, passerà l’estate con la paura d’esser bocciato, proverà a studiare qualcosa, ma vincerà la voglia di mare e vacanze, noi a settembre lo aiuteremo a superare gli esami di riparazione e ricomincerà la giostra.

“Salve io sono l’educatrice di V., come va? Cosa mi dice?. V. abita in una casa famiglia. Ce lo ha detto lei candidamente, durante il giro (odioso!) delle presentazioni, dal quale nessuno scampa il primo giorno del primo anno di ogni nuovo ciclo di scuola; lo ha detto come se stesse comunicando di avere, chessò io, una bicicletta o un cane: “Si, io sono V. ho 14 anni e siccome non ho nessuno vivo in una casa famiglia, mi piace ascoltare musica e uscire con gli amici”. Ci sono giorni in cui la sua faccia diventa buia e lei è lì, seduta a pochi centimetri da me, ma irraggiungibile.

Io non andavo mai al ricevimento dei genitori con mia madre, soprattutto al liceo, tanto sapevo cosa le avrebbero riferito, lo stesso ritornello per anni: “Giulia ha molte capacità, ma studia soltanto le materie che le piacciono!”. Ancora oggi che sto dall’altra parte della barricata trovo che la loro lamentala fosse di una banalità irritante. Ancora oggi per me la strategia di studiare e prendere voti alti nelle materie che piacciono e la sufficienza appena risicata in quelle che non interessano, sinceramente, mi pare assai sensata. I miei alunni, invece, vengono praticamente tutti e, giuro, certe volte sembrano loro ad accompagnare i genitori. Il giorno del ricevimento ci si rende conto del perché alcuni ragazzi sembrano avere il mondo sulle spalle. E’ perché ce l’hanno davvero, accidenti! Ci sono madri e padri che sembrano fantasmi. La loro inconsistenza fa sobbalzare lo stomaco come quando si va giù veloci sulle montagne russe: “Signora guardi che c’è ancora da ritirare la pagella del primo quadrimestre! Abbiamo provato a chiamare, ma non ha risposto mai nessuno”, e dici queste cose cercando uno sguardo che non si fa incontrare mai, neppure se ti guarda dritto negli occhi. Alcuni genitori sono talmente fantasmi che al ricevimento i ragazzi arrivano con i nonni. E te lo dicono che sono i nonni con una voce a metà tra orgoglio e vergona, si presentano appena ma tutto il loro corpo e il modo in cui ti fissano sembra esclamare: “E non dovremmo esserci qui noi cazzo! E però ci siamo!”. Qualcuno con voce tremante ti confida che la figlia ha fatto due bambini con un disgraziato che ora è in galera e “speriamo che ci resti!”. Già. E mentre cerco di piantare bene i piedi a terra per rimanere salda sotto le raffiche di dolore che mi arrivano addosso, mi volto verso la ragazza che sta lì e mi guarda. L. ha due occhi blu di una luminosità imbarazzante. Chissà quante volte l’ha sentita questa storia del disgraziato di suo padre. Le sorrido, mi sorride e intanto non riesco a non chiedermi quale sia, in mezzo al casino in cui vive, la fonte dalla quale attinge la sua luce.

Stringo un’infinità di mani. La stretta di mano dice molte cose; di quelle ruvide, lo confesso, mi fido di più che delle mani lisce e morbide. Una signora, oltre ad avere palmi che graffiano possiede pure due centimetri di ricrescita bianca su una tinta nera fatta male e un sorriso sincero. Arriva dall’estrema periferia di Palermo, ma anche lei l’italiano lo parla a fatica. Oggi è contenta, però, perchè D. è migliorato e, infatti, tira un sospiro di sollievo che sembra possa alleggerire il mondo intero. Anche D. sorride, ha una montagna di ricci in testa color miele che esplodono in ogni direzione, portatori di una vita che non sa ancora dove andare e cosa fare, ma c’è.

Infine, arriva il teppistello della classe, quello che durante le lezioni esce per andare in bagno e torna dopo mezz’ora, quello che se ne frega di te e di quanto rappresenti, che ai rimproveri reagisce sghignazzando. Arriva scortato da padre e madre. Non ha, adesso, un atteggiamento di sfida, no. Guarda a terra. Sua madre mi confida di aver infilato nello zaino del figlio l’immaginetta con la preghiera dello studente: “Ma niente prof., non ha funzionato”. Il padre è un gigante grande e grosso e mi dice che quando arriveranno a casa gli farà vedere lui. Le “X” del suo foglio non sono sparse a caso, un po’ qui, un po’ lì, sono tutte incolonnate, solenni e gravi, come un corteo funebre sotto la voce “scarso”. Suo padre ringhia, sua madre dispera e mentre io osservo gli occhi del ragazzo piantati sul pavimento penso che, quasi quasi, non lo rimprovererò più quando mi sghignazzerà in faccia perché tutti, in fondo, abbiamo diritto ad una qualche forma di riscatto.

Mentre le voci cominciano a diradarsi e dalle finestre dell’aula esposta a ponente arriva la luce dei primi tramonti di primavera, io raccolgo pian piano i miei fogli e con essi i pensieri. Rifletto, stanca fino alla nausea, sul fiume di parole nel quale ho navigato tutto il giorno, a lezione prima e al ricevimento poi. Ripenso a tutti i discorsi, ma mi rendo conto di aver memorizzato molto di più gli sguardi e le strette di mano, i sorrisi e le facce tese. Richiediamo studio, ordine, impegno in mezzo al caos e al dolore, alle vita in frantumi e  alle preoccupazioni più nere, e anche lì dove invece, grazie a Dio, la vita procede più serena, non troviamo mai il tempo di capire dentro le persone, veramente, cosa c’è. Potremmo parlare per ore, ininterrottamente, provare a spiegare, a nascondere, a giustificare, ad accusare, ma la scuola, come la vita mi appare una pianura che si distende a perdita d’occhio dove aspettiamo, tutti, di veder fiorire, prima o poi, le altre parole, quelle seminate ovunque sul corpo, quelle che ci passano tra le dita come grani d’un rosario muto, le parole tutte bagnate sulle labbra o secche in gola, quelle che ci abitano addosso e che per esser dette e divenir compiute serve soltanto che qualcuno come noi, in carne, sangue e parole non dette, veramente, ci guardi.

“Roma è avida di passi” (Resoconto dei miei primi due anni a Roma)

Una valigia per due mesi. Sembrava dover essere un soggiorno breve e intenso. Corsi per il Dottorato, piccola esperienza in Rai. Dopo, ancora Sud. Per terminare la mia tesi, velocemente e bene. Come avevo sempre fatto. Oggi 30 aprile festeggio il mio secondo anno di vita a Roma. Quei due mesi si sono dilatati, la valigia è diventata stanza in affitto in una, due, tre case differenti. La tesi è ricoperta da centimetri di polvere. In Rai mi hanno aperto un numero di matricola (evento definito giustamente “miracoloso”), ma, di fatto, senza che sia colpa di nessuno, la mia matricola si è atrofizzata dentro a qualche archivio di viale Mazzini. Le hanno sicuramente detto di mettersi in un angolo, al sicuro dalla crisi economica, in attesa di essere richiamata in servizio. Povera! Soffrirà di malinconia, non certo di solitudine. Però un lavoro ce l’ho e pure uno stipendio. Giuro. Precario, ovviamente. Il fatto è che proprio non riesco a farmelo piacere. Il lavoro dico, non lo stipendio, ovviamente.

Due anni. Due anni come due minuti dentro ad un frullatore. Tutto spezzato e trasformato. Tutto diverso. Tra la prima valigia e lo stipendio di oggi ci stanno ventidue mesi e molte cose. Tra la prima valigia e il mio presente c’è una città, una città affollata di gente, di eventi, di robe da piazza, di viicoli stretti, di palazzi, di chiese e monumenti, di manifestazioni, di politica e potere, di spaghetti cacio e pepe, di librerie, di tramonti mozzafiato, di cupolone, di fiorai, di derby, di turisti in canottiera e di bus affolati. Roma. Le persone, le cose, le parole, gli incontri. Ad uno sguardo di insieme, distante, distratto sembra confusione, traffico, caos. Ma a guardare con più attenzione Roma è gente venuta a portare qualcosa nella mia vita: una parola, una possibilità. Gente venuta ad aprire porte chiuse da tempo, o che si accosta, con andatura determinata e costante per dirmi qualcosa di me che ancora non so.

Roma ti deruba di forza. Roma è avida di passi. Accade allora di sentire la stanchezza e di non avere voglia di ributtarsi nella mischia. Pensi: Ma dove vado? Ma cosa sto facendo? Ti pare che il tuo volto si confonda con quello degli altri e che nessuno lo riconosca come unico. E, mentre stai seduto sul gradino del marciapiede ed osservi le ginocchia del mondo che ti passa accanto, alzi lo sguardo, pensi di intravedere “qualcuno” tra la folla e ti assale una malinconia che rende quel luogo insopportabile e la fatica per restarci dentro, inutile. Il luogo da dove vieni si trasforma. I ricordi delle cose “normali” diventano sacri e anche il pensiero di un pranzo in famiglia assume i contorni di un racconto mitologico fatto di eroi, di divinità, di vittorie.

La distanza da casa e l’incertezza del futuro, la vita che cambia e non capisci, i desideri che si trasformano e non riconosci, i compromessi che ti rincorrono, la nostalgia di ciò che desideri diventare, le novità che ti sorprendono, le persone che ti travolgono, tutto ti scava dentro uno spazio. Uno spazio inatteso, non previsto, di cui ti accorgi solo dopo, quando già esiste. E ci guardi dentro e ne vedi la profondità e ti chiedi cosa mai potrai metterci lì dentro, come riuscire a riempirlo. Già. Cosa? Capita di pensare, allora, dopo questi due anni per le strade di Roma, che quello per cui sei arrivata fin qui è diventato altro e che bisogna cambiare programma. Capita di pensare che si, magari la tesi di dottorato la finirai pure ma tocca reinventarsi la vita. E anche se ti rabbrividisce il freddo e l’umidità che arriva da quel vuoto che la città con la sua vita ti ha scavato dentro, speri di poter trovare, da qualche parte, pensieri nuovi, speranze durature, sogni diversi o, forse, sogni rinnovati, cambiati di abito, tirati a lucido. Che la vita è bizzarra, dicono. E i sogni vanno tenuti allennati, ben oleati, con la revisione fatta, con il tagliando in regola. Pronti a ripartire, in qualsiasi momento. Perchè Roma non è solo “guerra”, la tua crociata per conquistare e difenderti la vita. Roma è già vittoria. È la pagina che si gira, è l’attesa di sapere come finirà la storia. “…A me pure piace girare per le strade di Roma… soprattutto in estate.. di sera… verso le sette e mezza, otto… e sentire il rumore delle posate che vengono disposte sulla tavola… e pensare alle famiglie che si stanno preparando a cenare… e sentirmi leggero….

Tramonto romano 1° Maggio 2011

Tramonto romano 1° Maggio 2011