Quel che resta

Immagini della guerra in Siria, fin dal suo inizio, ne sono arrivate moltissime. Alcune di queste sono introdotte dalla scritta: “ATTENZIONE, le immagini che seguono potrebbero urtare la vostra sensibilità”. Mi fa sorridere questo avviso, poiché da per scontato il fatto di rivolgersi ad un pubblico provvisto di sensibilità. E’ un avviso ottimista, in fondo.

Le esecuzioni dell’Isis, le teste mozzate, i corpi sventrati dalle bombe, i bambini morti tutti in fila, uccisi dalle armi chimiche del dittatore. Sangue e distruzione ovunque, in un crescendo che pare non aver fine. Un groviglio politico, culturale, religioso ed economico di cui nessuno sembra voler tirare, veramente le fila. Il regime bombarda gli ospedali, le scuole, i mercati. Lì dove la gente si riunisce, ancora, nell’eroica ricerca di normalità, piomba impietosa la morte violenta, la polvere, il sibilo delle bombe. Macerie su macerie a formare cumuli di nulla: pure la disperazione si frantuma e si deposita ai bordi delle strade simile a materiale di scarto.

Da questo nulla che tutti ci interpella e verso il quale siamo responsabili, oggi è venuto fuori il corpo in vita di un neonato. Come dall’utero della madre, il piccolo, vivo di nuovo, è uscito dal buio e dal fuoco, incredibilmente indenne. Sono rimasta a guardare questa foto per alcuni lunghissimi minuti, cercando di capire cosa turbasse, pur in assenza di sangue e corpi in brandelli, la mia sensibilità. Forse l’espressione di quell’uomo che tiene in braccio il piccolo come la cosa più preziosa che le sue mani  possano contenere? Forse lo sguardo smarrito di chi si guarda intorno senza trovare un luogo sicuro nel quale custodire la vita? Forse il fatto che il bambino dorma, del tutto ignaro di esser nato all’inferno? O forse il dubbio che il bambino possa riuscire a diventare adulto, a vivere quella vita che uomini potenti e popoli pavidi gli stanno portando via?

Se questa foto rappresenta ciò che resta della Siria, allora vale ancora la pena sperare per la libertà di un popolo sacrificato sull’altare di questo mondo meschino. Io cambierei l’avviso e scriverei così: “ATTENZIONE! Speriamo che le immagini che seguono possano davvero turbare la vostra sensibilità e muovere i vostri cuori all’azione, la vita intera alla compassione”.

Collera e Luce

© Francisca Yáñez, Ana (Starry Night)

© Francisca Yáñez, Ana (Starry Night)

Io non dormo, ma è colpa mia. Sotto la luce fioca delle mie notti leggo un libro di fuoco che toglie il sonno. S’intitola “Collera e luce” e lo ha scritto Paolo Dall’Oglio.

È un libro che brucia le dita ad ogni giro di pagina e, forse, il fatto che l’autore sia stato inghiottito dalla guerra siriana rende ancora più difficile sostenere la lettura. Impressiona  l’assenza di retorica. Nulla. Neppure una briciola. Né retorica, né prudenza. Paolo non compie il minimo sforzo per rendere le sue parole accettabili e condivisibili, esse sono piuttosto come i coltelli dei lanciatori al circo, ma la bravura di Paolo non sta nello scansare il bersaglio bensì nell’infilzarne il cuore. Scrive con la forza di chi ha condiviso il cammino sofferto e tortuoso della rivoluzione siriana, chiama Bashar al Assad “assassino” e accusa senza remore la comunità internazionale di aver abbandonato il suo popolo; descrive le minoranze della società siriana, le attese della gente comune, i sogni dei giovani, racconta nei particolari più crudi lo scorrere dei giorni stretto nella morsa di una dittatura crudele ma furba a tal punto da prendersi gioco di tutti, degli stessi siriani, del mondo intero.

Di se stesso descrive il travaglio tragico, il mutare del cuore davanti alla morte sempre imminente, quella lenta e radicale metamorfosi del pensiero e dei sentimenti di fronte all’oppressione, alla violenza, alla paura. Come giganti dai piedi d’argilla le prese di posizione “per principio” vanno in frantumi, le teorie, i dogmi si sbriciolano, perfino il buon senso, spesso, non è sufficiente a cogliere e scegliere il bene ed il bene cambia faccia, a seconda delle circostanze e i valori assoluti abbandonano i tratti rigidi e netti per assumere la forma del corpo dei giovani, delle donne, dei bambini massacrati dal regime, il colore del sangue offerto dai siriani per la libertà. Non fa sconti Paolo, alla complessità della vicenda: la Siria è divenuta il fronte di molte, troppe guerre; davanti a tale complessità l’occidente ha abdicato, trasformando quel territorio in una porzione d’inferno e sacrificando un intero popolo sull’altare degli interessi economici e politici dei singoli stati.

Ieri sera, prima di (non) dormire, ho letto il capitolo che Paolo dedica alla descrizione delle torture. Le parole scorrevano sotto i miei occhi e il mio cuore non provava nulla. Così, insensibile, ho spento la luce e chiuso i miei occhi, aprendomi al buio. Questa mattina, al risveglio, ho capito cosa aveva pietrificato il mio cuore: l’attesa. Si, mi sono resa conto che nella sofferenza sia fisica sia morale, spirituale o psicologica, s’impone la presa di coscienza del bisogno e l’attesa che qualcuno/qualcosa venga a sollevarci dal dolore, che qualcuno si addentri nel perimetro della nostra vita, mettendosi con noi alla ricerca di una soluzione. Quando è il corpo a patire sappiamo cosa fare, chiamiamo un medico, corriamo al pronto soccorso, quando invece la sofferenza è ormai cronica o d’altra natura, allora è più difficile capire a chi rivolgerci e spesso rimaniamo muti e smarriti, ancorati alla speranza che qualcuno ci raggiunga lì dove ci siamo perduti. Ecco, è sul palcoscenico dell’assenza che il dramma della Siria si sta svolgendo. Ieri, leggendo del giovane violentato e crocifisso nelle prigioni di Assad o di quell’uomo ucciso dai militari perché il suo volto torturato e sfigurato era divenuto insopportabile alla vista dei suoi stessi aguzzini, immedesimandomi nella donna arrestata mentre portava il pane ai partigiani del suo popolo, stuprata, torturata e uccisa, ho capito cosa significhi per la Siria la mia, la nostra assenza. Fossi stata io quel giovane, quell’uomo, quella donna, fossi io un bambino affamato nel campo profughi assediato dall’Isis, fossi io anziana e sola, senza casa, servizi igienici, conforto, fossi io, pregherei in ogni istante di veder arrivare qualcuno, cercherei fra le macerie l’orizzonte, lo fisserei, aspettando, aspettando. E non vedendo arrivare nessuno? Forse lascerei al rancore il permesso di divorarmi il cuore, mi nutrirei di rabbia e rassegnazione, forse smetterei di seppellire i morti, forse impugnerei le armi per farmi giustizia. O forse no, magari reagirei alla tragedia cercando di costruire ovunque piccoli istanti di pace, sorriderei senza alcuna logica ai miei bambini affamati, nutrendoli di fiducia e coraggio davanti alla morte imminente. Sotto le macerie della mia casa e della mia vita potrei ancora parlare di libertà? Sognare per la mia terra un futuro di pace?

Guardo con preoccupazione alla polemica sempre imperante nel nostro paese, al tentativo di cercare in ogni cosa il marcio per sabotare gli slanci generosi di bene, la memoria delle lotte, ogni speranza nel domani. L’incoerenza della vita e della storia ci paralizza, le contraddizioni risucchiano la forza, non riusciamo a tenere insieme ciò che vorremmo essere con quello che realmente siamo, vorremmo estirpare da noi quello che ci ferisce e ci stanca, guardiamo con sospetto ogni lato oscuro che ci abita senza  lasciarci  attraversare dal dubbio che lì, nella penombra del non conosciuto, possa celarsi una risorsa invece di una ferita. Quale politica salverà la Siria io non lo so, se Paolo farà mai ritorno a casa, io non lo so, cosa si possa fare per quel popolo abbandonato ai demoni e agli spettri che noi stessi abbiamo creato, io non lo so. Quello che posso fare, però, è dilatare i confini della mia attesa, far spazio alla speranza dei siriani nella mia quotidiana speranza e chiedermi, senza posa, finché avrò luce agli occhi e fiato e collera per il cuore: Da dove arriverà l’aiuto?

(Paolo Dall’Oglio, Collera e Luce. Un prete nella rivoluzione siriana, EMI, Bologna 2013)

Io, lo faccio con te

Caro Abuna Paolo,
a un anno e quattro mesi dal tuo rapimento torno a fare la cosa più inutile che posso: scriverti. Lo faccio perchè è il tuo compleanno, mentre il mondo intero con la preghiera o con un pensiero, con la stima e con l’affetto ti abbraccia, silenzioso e presente.

Alla mia prima lettera, scritta il giorno dopo la tua scomparsa per le strade di Raqqa, avevo affidato parole di sconcerto, parole di rabbia.
La rabbia, quella forza che mantiene in vita in mezzo a qualunque inferno, fino a quando si intravede, seppur lontana, una possibile via di uscita. Quando l’orizzonte si è ormai oscurato, quando le macerie superano in distruzione ciò che resta in piedi, allora alla rabbia deve far posto il coraggio, deve subentrare la pietà.
La Siria è morta.
Ci avevi avvertiti, lo hai fatto in ogni modo, hai urlato, pregato, parlato ovunque, cercando di richiamare l’attenzione di tutti, poi hai deciso di andar da solo per provare a resituire ai Siriani la loro pace e a te stesso quella promessa di Dio che è tutta la tua vita.

Ci vorranno decenni per ricostruire il paese, e anche quando le case saranno di nuovo in piedi, il popolo erediterà a lungo, di parto in parto, le ferite del nostro abbandono e della violenza subita.
Ti penso ogni giorno, e ho paura. Mi spaventa di più saperti vivo e consapevole della tragedia, con il cuore colmo di un dolore senza guarigione, che pensarti morto a questa terra ma vivente, faccia a faccia con il tuo Dio.

Ho desiderato di vederti tornare, di poterti avvistare all’orizzonte, ombra gigante da abbracciare, pensavo: quando tornerà sarà bellissimo! Ora, io voglio imparare a desiderare ciò che tu desideri. E tu, Paolo, cosa desideri?

Tagliano le teste. Rapiscono le donne. Cancellano l’infanzia. Sono bestie feroci. E a tanta violenza noi rispondiamo con le bombe dal cielo, privi di ogni pudore trasformiamo il luogo della speranza in pioggia di fuoco.
Possediamo parole che sono barattoli di latta, rumore e ruggine .
Per sembrare affidabili e ancora potenti abbiamo taciuto, armato gli eserciti e fatto scorta di munizioni.
Ricordi? Dicevi che il conflitto fa parte della realtà, che sottrarsi ad esso, fuggire, non affrontarlo, non assumerlo nella nostra esitenza rende ideologi, xenofobi e violenti.

Il desiderio di libertà del tuo popolo è stato troppo per noi. Cosa potevamo fare, così occupati come siamo a contare, spicciolo dopo spicciolo, i nostri euro e i nostri dollari agonizzanti! Rischiare forse? Perdere quello che avevamo per condividere il pane della democrazia e della pace? Potevamo mettere da parte la nostra ben delineata appartenenza religiosa, per mischiare i nostri abiti buoni della domenica ai vostri piedi nudi? Potevamo forse impegnarci a capire cos’è l’Islam, che pulsa e lotta per sopravvivere alle spalle di un estremismo dal volto coperto?

Paolo, a scuola parlo di te. Parlo di te e della Siria davanti a giovani vite dagli occhi vergini,  capaci di visione, come dici tu. E dico loro che, al di là della devastione, esistono ancora le persone, esistono i siriani, e che da essi si deve poter ricominciare. Lo faccio per non perdermi, per rimanere ancorata alla speranza di un mondo diverso. Lo faccio per non perderti, perchè il bene di chi ci ama ci strappa ogni giorno alla fame della morte.
Buon compleanno Abuna Paolo. Ovunque tu sia e qualunque sofferenza tu stia patendo, resta con gli occhi negli occhi del tuo Signore. E se è la vita che vuoi, invocala! Sii forte. Fagli sentire in faccia il fiato e la saliva delle tue grida, giorno e notte. Io, lo faccio con te. E se è la morte che vuoi, se sei stanco, Paolo, chiedila, fuori dalle barricate della dottrina, dove hai sempre vissuto, con la confidenza dei vecchi amici, con la dolcezza degli amanti, come solo può fare chi ha intrecciato la sua sorte all’esistenza di Dio. Io, lo faccio con te.

http://www.paolodalloglio.net/

Pane, e polvere di deserto tra i piedi

Ciao Abuna Paolo.

Eccomi qui, mentre mi appresto a fare la cosa più inutile che posso, quella che meno può servire alla tua vita e al paese che hai scelto come tuo: scrivere una lettera.

Parole inabili. Incapaci. Parole senza braccia per venirti a liberare, senza gambe per aiutare i bambini a scappare dalle bombe, che nell’attesa che arrivino ti frantumano dentro e che, quando atterrano, ti frantumano il corpo.

Parole.

Ma porta pazienza, ti prego, perchè solo parole mi pare di possedere, e di tenermele tutte scomposte dentro al cuore, non ho più forza e pazienza.

La prima volta che ti ho sentito parlare ero in RAI. Le domande sapienti di Gabriella Caramore ti hanno reso agile, con la sola forza della voce, dire chi sei. La radio l’amo per questo, perchè fra i cinque sensi l’udito regna. In radio quello che dici è davvero più importante di come appari. (http://www.radio3.rai.it/dl/radio3/programmi/puntata/ContentItem-f86e393a-2749-4a48-be17-7809f1b8802d.html)

Ti ho ascoltato. E mentre ti ascoltavo mi pareva si agitasse in me il mostro multiforme dell’inquetudine. Quello che si odia perchè rende zoppo il trascorrere quotidiano dei giorni, quello che non si riesce a domare, perchè costringe la vita ad occhi aperti e insonni.

In poche battute hai raccontato di te e del tuo cammino, da Roma all’oriente, dal centro del cattolicesimo all’islam, dal dogma alla vita, esperienza di relazioni meticce. L’ossessione della religione pura: pericolosa, viscida tentazione. Ordine contro il disordine di mense condivise, definizioni e teorie contro bambini musulmani e cristiani che giocano la domenica, alle porte del monastero di Mar Musa. E mentre a colpi di dottrina Roma tentava di mettere i puntini sopra le “i” della fede in forma teorica, in Siria, insieme ai tuoi, mangiavi il pane dei credenti in Allah.

Pane, e polvere di deserto tra i piedi.

Abuna Paolo, dicono che fra qualche giorno bombarderanno la Siria. Ed io ti chiedo scusa. Il fallimento politico pesa come pietra dura sullo specchio fragile della nostra democrazia. Quasi un milione di morti è costata la nostra attesa. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha preso tempo per verificare l’utilizzo di armi chimiche da parte dell’esercito di Assad. Abbiamo preso il tempo e ne abbiamo esasperato la relatività. Un minuto è per l’ONU un tempo pressochè inutile. In Siria, in un minuto, muoiono più di 300 persone. La somma dei minuti presi dall’ONU per “valutare” non ha condotto a soluzione alcuna. La somma degli stessi minuti ha fatto 90mila morti in terra di Siria.
Il potere economico di Cina e Russia tiene in ostaggio la comunità internazionale.

In questi giorni guardo spesso in giro per casa, credo che la maggior parte delle cose che possiedo siano made in China. E mi pare che ogni oggetto corrisponda a uno di quei cadaveri avvolti fra le lenzuola, in fila, a turno, verso una vita migliore.

Ti chiedo scusa. Per quello che non ho potuto e non so fare. Sono incapace di dare forma allo sdegno, alla rabbia, a quel poco di senso di giustizia fuggito all’anestetico di cui, volente o nolente, mi nutro ogni giorno. Per sopravivere, per passare cioè sopra la superficie della vita, scivolarci sopra senza passarci dentro, perchè se alla vita ci passi dentro non sai se ne esci vivo.

E così ti abbiamo nutrito di solitudine e tu sei diventato un gigante.

L’ho sentito con le mie orecchie. Ti criticano in molti e chissà da quanto tempo. Hai fatto un gravissimo errore, quello che sempre meno viene perdonato: ti sei schierato. Hai detto a tutti, gridandolo, da che parte stavi! Ma è mai possibile che nessuno ti abbia detto che schierarsi uccide? A schierarsi si resta nudi e si diventa bersagli. Tutti saranno pronti a mostrarti la follia della tua scelta, l’imprudenza, la non ragionevolezza. E poi è fin troppo facile dimostrare il tuo errore. Nel fitto groviglio della situazione Siriana, nel delicato gioco di equilibri di un paese in guerra, tu ti sei schierato. A fianco di amici, di gente che sono il volto della tua vita quotidiana, ma che per noi sono una massa poco definita di ribelli. Un miscuglio di estremismo e di pericolo, fondo torbido e opaco di quel pozzo nero che noi chiamiamo Islam. Hai scelto di stare con coloro che noi consideriamo assasini, mercenari, estremisti, mine pronte a scoppiare sotto il culo dell’occidente.

Io mica lo so se tu hai ragione. Perchè da qualunque parte della vita ti fermi a guardare la realtà ti dicono sempre che è la parte sbagliata. Ci sono cose che non sai, ci sono cose che non vedi, sfumature che guardate da altra angolazione permettono di avere la visione opposta.

Sempre, ti ritrovi sempre dalla parte sbagliata. E così tutto è vero e falso allo stesso tempo e non ti resta che arrenderti alle ragioni del più forte.

“I cristiani vogliono Assad” – dicono. Hai sempre affermato che non è così.

Ti abbiamo nutrito di solitudine e sei diventato un gigante.

Tu dici di te stesso che se fossi rimasto a fare il gesuita in Italia saresti scoppiato. E infatti per rimanere fedele a quanto avevi percepito vero, dai gesuiti te ne sei andato. E poi sei tornato. O ti hanno riammesso. Dipende da quale parte ti metti a guardare, appunto.

Sei strano – dicono – inquieto. Un po’ matto. Sei uno che se ne frega delle cose così come dovrebbero essere. E, infatti, ti sei incamminato tra sentieri di guerra. Sei tornato da dove ti avevano espulso per provare a far dialogare chi è incapace di comunicare se non a colpi di arma da fuoco. Hai fatto quello che non spettava a te, secondo quella distinzione di ruoli e responsabilità che ci rende tutti colpevoli e tutti innocenti. Un’invasione di campo, la tua.

Ti abbiamo nutrito di solitudine e sei diventato un gigante.

E la politica, che di pane e di polvere tra i piedi non se ne intende, adesso aggiungerà sangue a sangue. Un’addizione che non aumenta, ma sottrae vite alla vita. Anche la nostra democrazia non conosce che il rombo cupo delle armi per curare l’anemia di dialogo.

La comunità internazionale ha fallito. Ancora, di nuovo. E le comunità cristiane? Forse solo i tuoi compagni di vita sparsi per il mondo si sono messi insieme per capire, conoscere e pregare.

Io non ho sentito di parrocchie senza sonno, a vegliare per implorare la pace in Siria. O semplicemente di comunità che durante la celebrazione dell’Eucarestia pregano, insieme, come “corpo”, consapevolmente, per la Siria e per la pace. Non ho ascoltato di omelie a suscitare pietà dei morti e dei vivi di questa guerra assurda. Leggiamo fiumi di articoli sulle parole e l’operato di Papa Francesco. Sappiamo tutto, cosa porta nella sua borsa personale quando viaggia, sappiamo dove va, cosa fa, cosa mangia, cosa dice, cosa pensa e a chi telefona e perchè. Ci stupiamo della sua “normalità”, ne facciamo notizia, abituati come siamo a pensare che “religioso” voglia dire diverso, speciale, altro. Tutto il contrario di Gesù che è uguale, umano, vicino. E l’ignoranza del popolo di Dio riguardo alla sorte di milioni di persone in Siria, come in Egitto, come in Somalia o come nelle periferie delle nostre città è una ignoranza sempre meno sopportabile. La scissione tra liturgia e vita e destino del mondo attorno a noi è una ferita che rischia di farci morire dissanguati, tutti.

Allora, ti prego, resisti Abuna Paolo, torna. Dobbiamo tutti rimproverarti per la tua imprudenza, per i tuoi schieramenti extramagisteriali e troppo biblici. Torna a prenderti le nostre critiche e a darci in cambio il tuo sorriso, la tua vita esagerata, il tuo modo di essere eccessivo, imbarazzante, inopportuno.

Le nazioni usano le armi. Noi proviamo a riporre la nostra fiducia nel Signore della storia, così, piccoli come siamo, invochiamo pace e dialogo e pietà.

“Sono forse io il custode di mio fratello?” (Gen 4,9). Si Caino, sei proprio tu il custode di tuo fratello.