D’amore è il ritorno

Ponte Garibaldi, Roma

Ponte Garibaldi, Roma

Ho rivisto uguali i posti. Ho guardato gli stessi luoghi con occhi nuovi. L’amore rinnova gli organi di tessuti vergini e modifica gli sguardi come fanciulli.

Roma puzza di piscio e povertà davanti ai portoni delle chiese del centro. All’interno bruciano le candale e si consuma l’attesa, la speranza di un esito. L’amore trasforma l’attesa, l’amore partorisce desideri di radici antiche e rami morbidi di germoglio.

A Roma i barboni dormono negli angoli e tormentano la prospettiva, le palpebre si chiudono sulle panchine vegliate dai cani. A Roma s’intrecciano le braccia degli amici, le risa liete nell’umidità della sera, le voci dei bambini. L’amore mescola i drammi e accende la notte di fiato e di segreti.

A Roma piovono ricordi sulle foglie dei platani rossi. Tremano le ombre al perdurar dei sentimenti tutti trasformati, adulti e soli. L’amore fermenta il mosto di antiche raccolte e placa la sete della festa.

A Roma suonano campane di antichi annunci, si accendono le strade di passi novelli. L’amore scioglie i grumi al dolore ed è fertile di semi la terra strappata al pianto.

 

A nudo

Foto di Marco Bisanti

Nel cuore del cuore di Roma c’è un posto bellissimo, incastonato tra Campo dei Fiori e Sant’Andrea della Valle. Al Largo del Pallaro, l’artista Elisa Nicolaci ha dato vita ad un mondo incantato.
E’ un laboratorio ed è un museo, è una scuola ed è un rifugio, è un’officina di idee ed è la quiete del cuore, è tutto quello che si voglia che sia. Sui muri sono esposti i disegni dei più piccoli, ci sono draghi, ballerine, tigri, giraffe, guerrieri e principesse. Il colore è ovunque, la vita è ovunque, l’impossibile, vicino.

Poi, ci sono le sculture di Elisa, di metallo e stoffa, due materiali tanto diversi tra loro che pure si fondono, si amalgamano, si intrecciano per far nascere quello che non sappiamo dire, ma che ci abita.
Nelle sculture di Elisa ci si riconosce, si rimane a contatto con le parti più estreme di se stessi. Non si dice nulla davanti alle sue sculture, ci si ammutolisce in cerca del significato che possiede quello che si sta provando. Ci si sente messi a nudo, all’improvviso.

"Un'altra storia d'amore (La donna morta) Tessuto cucito, metallo Cm173 x200 x55 Foto di Francesco Filingeri

“Un’altra storia d’amore (La donna morta)”
Tessuto cucito, metallo Cm173 x200 x55
Foto di Francesco Filangeri

Al “Pallaro”, così come è chiamato il laboratorio, io ho imparato a disegnare. Io, che sono cresciuta convinta di non esserne capace né portata. Elisa dice che tutti sanno disegnare e ci riesce davvero a far disegnar tutti e dice pure che “Cancellare non vuol dire riportare il foglio al grado zero, ma sostituire quello che c’è con quanto dovrebbe esserci”, ed io non me lo scordo più.

"Raggiungimi", matita e tempera.

Questa sono io, questo il mio primo disegno: “Raggiungimi”, matita e tempera.

Ma la cosa più bella, per me, è stata trovare un luogo nel quale essere me stessa fosse possibile, plausibile, auspicabile! Un luogo dove poter raccontare le immagini del cuore, un luogo dove il contrario di ogni cosa trovava legittima cittadinanza. Nel laboratorio di Elisa Nicolaci le sedie stanno sugli alberi, gli alberi hanno gli occhi, gli occhi stringono le mani e le mani ascoltano, le orecchie cantano, la bocca danza.

Se passate da Roma o siete di Roma, cercate il “Pallaro”, bussate ed entrate. Sarete i benvenuti, ne sono certa. E se potete, iscrivetevi ad un corso di scultura o pittura…imparerete cose incredibili e scoprirete di avere in cuore un mondo fantastico: lo vedrete prendere forma e niente sarà più uguale a prima, mai più.

Elisa è una maestra paziente, anzi, è una compagna di strada e vi darà gli strumenti per potervi esprimere davvero, come non credevate o immaginavate di poter fare.

Nel cuore del cuore di Roma, mi raccomando, andate.

Foto di Francesco Filangeri

Foto di Francesco Filangeri

https://www.facebook.com/Elisa-Nicolaci-235866696596127/?fref=ts

L’odore del mare, come uno schiaffo.

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Certe volte mi chiedo come abbia fatto a vivere per trent’anni senza leggere le poesie di Pier Paolo Pasolini. Mi domando come sia potuta arrivare a conseguire un dottorato di ricerca senza che qualcuno mi abbia chiesto: “Hai mai letto le poesie di Pasolini?”.

Quando poi l’ho fatto è stato come sbattere contro un muro procedendo ad alta, altissima velocità. Da adolescente lo osservavo da lontano, lo guardavo ma non mi avvicinavo, come si fa a quell’età con le cose “dei grandi”. Una volta chiesi a mia madre: “A te piace Pier Paolo Pasolini?”. Mia mamma mi guardò e mi rispose: “Pasolini è… troppo”. Io non domandai oltre, lei non mi spiegò.

A trent’anni ho fatto le valigie e sono andata a vivere a Roma, prima per frequentare un corso di tre mesi, poi per lavorare in Rai sei mesi, poi, ci sono rimasta quattro anni. Ho scritto, insegnato, camminato molto, mangiato poco, pianto moltissimo. Ci siamo incontrati così io e Pasolini, tra lacrime e passi.

Il mio posto preferito di Roma è Torre Argentina. La prima volta nella capitale  ho dormito in una soffitta di un palazzo lì vicino. Studiavo i testi antichi seduta ad una minuscola scrivania dalla quale scorgevo una distesa infinita di tetti. Poi scendevo giù, giravo l’angolo, sentivo il rumore del tram che faceva capolinea davanti al Teatro Argentina. Il teatro aveva una facciata mal messa, decadente, bellissima. Due anni dopo, qualche scellerato ha deciso di metterla a nuovo. Una follia. Prima del restauro sembrava un’anziana signora elegante: l’intonaco bianco pendeva a brandelli in più punti facendo intravedere un color ocra d’altri tempi e creando una mappa segreta di chiazze e crepe sottili. L’amavo davvero molto. Dopo il restauro ho odiato il suo luccichio nuovo di zecca e la distesa di cemento a cancellar per sempre le tracce del capolinea del tram 8.

(Teatro Argentina)

(Teatro Argentina)

Guardavo i gatti, la gente, la donna di colore che chiedeva l’elemosina cantando tutto il giorno con un cartello appeso al collo con su scritto: “Sono felice, aiutatemi!”. Entravo alla Feltrinelli e stavo lì per ore. Non avevo una lira da spendere in libri, quindi mi piazzavo davanti allo scaffale dei poeti, prendevo un testo, mi sedevo, leggevo. Un pomeriggio ho alzato lo sguardo e ho visto: “Trasumanar e organizzar” di Pier Paolo Pasolini. Ho preso il libro. Mi son seduta, ho respirato, ho aperto, ho letto:

Non c’è cena o pranzo o soddisfazione del mondo che valga una camminata senza fine per le strade povere, dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani.

Ho chiuso il testo. Sono uscita dalla libreria e non ci sono rientrata per settimane. Ho camminato per ore senza meta, tra i ponti che solcano il Tevere, i platani gialli d’autunno e l’umidità della sera. 561432_107041426159320_1833314049_n “Pier Paolo Pasolini è… troppo” – soltanto questo riuscivo a pensare. Poi ho smesso di pensare. Era un pungolo nel cuore che non mi dava tregua. Volevo provare a capire cosa fosse. Ho comprato il libro. Poi un altro. Poi tutte le raccolte di poesie. Ma il pungolo è rimasto, intatto.

 

Leggo con difficoltà, lentamente, la prosa di Pier Paolo Pasolini, i film non riesco a reggerli. Non conosco poesie a memoria. Imparo soltanto singoli versi con tutta la lentezza che richiede: Una nera rabbia di poesia nel petto.
(http://www.eufemiaframmenti.it/2013/05/12/frammento-alla-morte/)

Non amo i film che lo raccontano. Quel che vedo rappresentato non corrisponde a quel che io so, a quanto provo per lui. Di andare ad Ostia dove lo hanno massacrato per la paura che incuteva all’animo meschino dei falsi e degli ingiusti, non ho avuto mai il coraggio. Spesso però mi addentravo tra le vie di Testaccio, e lo cercavo. Anche se oramai era tutto troppo diverso da quello che i suoi occhi avevano visto, da quanto il suo cuore aveva amato. Restavo, allora, a fissare il Gazometro nella luce del tramonto che a Roma è sempre l’annuncio di un compimento.

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Un pomeriggio di giugno, il giorno del mio compleanno, sono andata a visitare una mostra che lo riguardava al Palazzo delle Esposizioni. Sono rimasta fino alla chiusura. Ho letto le pagine di diario, i dattiloscritti, ho guardato le fotografie. Ho imparato a memoria i tratti della sua grafia e quelli dei disegni. Ho osservato le foto, quegli zigomi così pronunciati in una faccia che sembrava di cartapesta. Ho odiato sua madre perché mi sembrava fosse responsabile delle sue disgrazie, anche se non saprei spiegare perché. Ho appuntato tutte le parole che sollecitavano il pungolo nel cuore su un taccuino dalla copertina in pelle regalatomi da un uomo troppo ferito e  troppo lontano da se stesso per essere amato.

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Fuggii con mia madre, una valigia e un po’ di gioia che risultarono false su un treno lento come un merci, per la pianura friulana coperta da un leggero strato di neve. Andavamo verso Roma. Ho vissuto quella pagina di romanzo, l’unica della mia vita: per il resto – che volete – sono vissuto dentro ad una lirica come ogni ossesso.

Ha vissuto senza evitare il suo tormento. Senza distrarsi un attimo da esso. Ha puntato gli occhi sulla miseria umana che gli abitava in corpo e l’ha cercata ovunque fosse possibile trovarla. Ha attraversato la disperazione, cercando dappertutto ogni felicità. Ma è rimasto solo, fino alla morte perché nessuno era in grado di fargli compagnia.

Adulto? Mai, mai! Come l’esistenza che non matura, resta sempre acerba, di splendido giorno in splendido giorno. Io non posso che restare fedele alla monotonia del mistero. Ecco perché nella felicità non mi sono abbandonato, ecco perché nell’ansia della mia colpa non mi ha toccato un rimorso vero. Pari, sempre pari come l’inespresso, all’origine di quello che sono. 

Da quel pomeriggio alla Feltrinelli di Torre Argentina, Pier Paolo Pasolini abita in me come una ferita dal significato introvabile. Il suo “troppo” sarà per sempre impenetrabile. Gli studiosi che parlano di lui, che sanno di lui, che scrivono di lui, mi fanno sorridere. Mi pare che lui li beffi sempre, continuamente, senza che essi ne abbiano mai reale coscienza.

Lo scorso novembre ho visitato, sempre a Roma, una piccola mostra che esponeva gli oggetti che aveva addosso e in auto la notte in cui è stato ucciso.

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Ho visto il suo sangue.

Allora mi sono ricordata di una strofa che avevo imparato a memoria, leggendola davanti al Cristo crocifisso della Chiesa del Gesù.

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Noi staremo offerti sulla croce,
alla gogna, tra le pupille

limpide di gioia feroce,
scoprendo all’ironia le stille
del sangue dal petto ai ginocchi,
miti, ridicoli, tremando
d’intelletto e passione nel gioco
del cuore arso dal suo fuoco,
per testimoniare lo scandalo.

 

 

 

A margine di un disegno senza data scriveva: Il mondo non mi vuole più, e non lo sa.
Mi è sembrata la più precisa e coraggiosa definizione della sua vita.

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Che cosa abbia avuto a che fare Pier Paolo Pasolini con la nostra storia, con questo paese che isola e uccide i profeti come un tempo faceva Gerusalemme, io non so capirlo.

Ma forse i poeti hanno a che fare soltanto con la vita di chi li legge e ne custodisce le parole costate loro così care. E la ricerca del senso di quelle parole, per chi le trova, tiene in vita, generazione dopo generazione, lo spirito dei giusti massacrati dove l’umanità misera si infrange e dove l’odore del mare è come uno schiaffo.
(https://www.youtube.com/watch?v=d8CTJbYqOaE)

O a Palermo o all’inferno!

Incredibile e vero. E’ passato già un anno dalla pubblicazione su Eufemia di “O a Palermo o all’inferno”. E’ bello ricordarlo non solo per la gioia delle 7000 visualizzazioni in meno di 48 ore da ogni parte del mondo o per le infinite condivisioni sui social, cose che fanno molto piacere, ovviamente, ma sopratutto per la rete di relazioni che da questo post hanno preso vita. Ho ricevuto centinaia di messaggi privati, tanti commenti da parte di chi si è sentito coinvolto nel racconto, segno che per la mia generazione, travolta e sconvolta dalle vicende del mondo, la ricerca dell’identità, la necessità di fuggire, lo struggimento della nostalgia per un futuro negato, la voglia di tornare, il desiderio di crescere e vivere e fare, la rabbia e la resa sono aspetti che ci accomunano, pur nella singolarità di ogni storia. Nessuna certezza che tornare a Palermo sia stata la scelta giusta e la valigia è ancora a portata di mano, non si sa mai… Ma Palermo mi chiamava, ed ho risposto.

O a Palermo o all’inferno!.

O a Palermo o all’inferno!

Da quando ho deciso di tornare a vivere a Palermo ho l’impressione che tutto a Roma mi rivolga lo sguardo. La città mi guarda, mi guardano le strade, i platani, i gatti di Torre Argentina. Mi guardano i turisti, i conducenti dei bus, i gabbiani, il Tevere, il Cupolone. Mi guardano senza fiatare. Non dicono nulla. Uno sguardo muto e intenso. Uno sguardo al quale non si può rispondere se non con occhi muti e intensi.
“A Palermo?” – mi ha chiesto un’amica, al telefono, con un tono interrogativo simile a quello che avrebbe avuto se gli avessi detto che ero in partenza per combattere la guerra santa in  Pakistan.
– “Si, a Palermo”, ho risposto io.
– “Ma l’insegnamento lì te lo danno?”
– “No”.
– “E quindi lasci uno stipendio sicuro, a Roma, per tornare a Palermo…”
– “Ehm…Si”.
– “A Palermo?”.
– “Si, ti ho detto, a Palermo”.
– “Che immagino sia la stessa Palermo dove siamo cresciute e dalla quale sono scappata”.
– “Si, è la stessa”.
– “E tu ci torni dopo tre anni di vita a Roma dove hai un lavoro sicuro senza garanzia di un qualsivoglia stipendio…”
– “Esatto”.
– “Aaaaaah… (silenzio). Ma perchè????????”.
– “Non lo so esattamente. Ma devo farlo, anzi no non devo, voglio farlo…So che è giusto così, so che voglio provare a vivere con le cose che Roma ha donato a me, di me”.

Roma, tre anni fa sono arrivata da te con degli obiettivi da raggiungere, una manciata di desideri e qualche dubbio. Adesso ti lascio con molti obiettivi mancati, desideri inediti e una valanga di dubbi. Quello che ero te lo sei rosicchiato poco a poco, quasi senza che io potessi accorgermene per poter lottare con te ed evitare che accadesse. Hai estirpato con pazienza quasi tutte le cose che pensavo di sapere e che credevo di dover/voler essere. Son partita da casa tanto pigra da non voler fare neppure un bollettino alla posta, adesso torno a Palermo in grado di far ripartire la caldaia, smacchiare i vestiti, cucinare, sterminare le formiche, entrare e uscire dall’ospedale, litigare con i vigili urbani, farmi le punture da sola, dire la mia ai consigli di classe, leggere un contratto, tenere a bada 400 ragazzini a settimana, asciugare le prime lacrime di un cuore spezzato, compilare il modulo per le ferie, usare un registro elettronico, capire come si entra e si esce dal raccordo anulare; so organizzare una rassegna stampa e so come si gestisce la diretta di una trasmissione radio, so fare la scaletta di un programma e so che non bisogna credere a tutto quello che viene detto nei corridoi della Rai. E, alcune volte, so perfino fare queste cose quasi contemporaneamente.
Mai avrei immaginato quale vita mi stavi preparando mentre abbattevi ciò che conoscevo, Roma città piena di segreti. Mai avrei immaginato di saper resistere alla vita con tale costanza, mai avrei creduto di saper condividere il pane del mio lavoro con la solitudine di cene piene di inverno.
Roma, mi hai insegnato a saziarmi delle briciole, raccolte con pazienza nei lunghi tragitti in tram. Racimolare i frammenti della vita degli altri e poi rovistarci dentro alla ricerca di un’esistenza che tutti ci accomuna. Ho mille tramonti di cui ringraziarti, infiniti passi donati, generosi e furiosi, alle tue strade.
Roma, che mi hai nutrito di Pasolini e temporali, di strade innevate a festa e di notti calde in attesa di vacanza.
Roma, che mi hai insegnato a parlare e che generosa e severa mi hai fatto recuperare con fretta violenta il necessario per vivere.
Roma, che hai mischiato la mia carne e il mio sangue con la carne e il sangue di tutti. Roma benedetta, che mi hai insegnato la bellezza di essere normale, di camminare sconusciuta e sola dentro all’ammasso intricato del mondo:

Stupenda e misera città, 
che m’hai insegnato ciò che allegri e feroci 
gli uomini imparano bambini,

le piccole cose in cui la grandezza 
della vita in pace si scopre, come 
andare duri e pronti nella ressa

delle strade, rivolgersi a un altro uomo 
senza tremare, non vergognarsi 
di guardare il denaro contato

con pigre dita dal fattorino 
che suda contro le facciate in corsa 
in un colore eterno d’estate;

a difendermi, a offendere, ad avere 
il mondo davanti agli occhi e non 
soltanto in cuore, a capire

che pochi conoscono le passioni 
in cui io sono vissuto:
che non mi sono fraterni, eppure sono

fratelli proprio nell’avere 
passioni di uomini 
che allegri, inconsci, interi

vivono di esperienze 
ignote a me. Stupenda e misera 
città che mi hai fatto fare

esperienza di quella vita 
ignota: fino a farmi scoprire 
ciò che, in ognuno, era il mondo. (P. Pasolini)

Roma, adesso devo andar via, proprio adesso che ho imparato a vivere insieme a te la lunga lotta del trascorrere quotidiano del tempo. Torno a casa, ma non torno a ciò che ho lasciato. Di quanto ho lasciato non esiste più nulla se non il mare e l’affetto di una famiglia che non è solo legame di sangue, ma radici pazienti e profonde che ci intrecciano gli uni gli altri. Lo so che Palermo è una città feroce. Ma so che posso reggere il suo sguardo adesso. Lo so che Palermo non avrà riguardo per me e che non mi riserverà nessun trattamento di favore per essere tornata. Rimmarrà così com’è, bellissima e violenta e quando incassando i suoi colpi  mi accascerò con un filo di sangue che esce dalla bocca, lei mi dirà seria e con voce ferma: “Io non ti avevo promesso niente”.
WP_20140530_044Palermo che non prometti niente, io torno da te lo stesso. Posso, adesso, che ho imparato a sopportare l’assenza del compimento. Voglio, adesso, che non sei una resa, ma una scelta. Posso, adesso, ora che ho imparato a non aver paura dei miei squilibri ora che sorridendo apro la porta ad una strana e folle forza che diventa parole da scrivere e disegni tra le dita, idee e progetti da rischiare, ora che la vittoria la vedo nella possibilità di esistere e non soltanto nella capacità di realizzare, anzi, ora che la vittoria non è più un traguardo da tagliare.
Palermo Palermo, è inutile che mi guardi così. Io lo so. Lo so che queste cose che ho imparato sono solo una piccola parte dell’equipaggio necessario a vivere dentro al tuo assedio. Ma io torno lo stesso.
Torno sapendo che ti maledirò e ti amerò, e ti urlerò dietro la tua crudeltà e rimarrò muta davanti a te. Ma se non torno, adesso, i semi che Roma mi ha piantato dentro non marciranno e non ci sarà frutto. E non provare a vivere secondo quanto si intuisce vero è l’unica morte che oggi temo.
Bixio: Generale, finalmente siamo giunti nella tanto desiderata città di Palermo.
Garibaldi: Nino, domani a Palermo.
Bixio: Riusciremo ad entrare in questa città, generale?
Garbaldi: Nino, o a Palermo o all’inferno! (M. Cuticchio).

La quiete della tempesta

Non è vero che la quiete viene dopo la tempesta. Accade che sia la tempesta, nel suo accadere, ad essere la quiete.
Giorni di afa, esplosa nel bel mezzo di un’estate che non è ancora riposo per nessuno, se non per i bimbi e i ragazzi, liberati dagli argini stretti dei banchi di scuola.
A volte lo sforzo e la fatica raggiungono il loro apice estremo sotto le mentite spoglie della vita quotidiana, una corda tesa all’infinito. La terra si spacca, il cuore si asciuga, la polvere è secca e confonde lo sguardo.
Impossibile resistere oltre. Ma, allo stesso tempo, sembra di poter andare avanti così per sempre. L’uomo si abitua a tutto, la natura no. La natura si salva, per istinto, la natura genera la tempesta.
Lavoro, leggo, sudo. Non penso a niente, non penso a niente. La corda è tesa, l’umidità ringhia. Domani come oggi, domani come ieri. Fa caldo. Lavoro, rileggo, non penso a niente, non penso a niente, la corda è tesa, il sole è una pietra, e brucia.
Poi, un attimo.
Le foglie secche raschiano il terrazzo. I gabbiani volano bassi. Il vento si alza, la tenda comincia a danzare. Mi alzo anch’io, mi affaccio, il sole è impallidito, le nuvole si muovono, impazzite, potenti e nere. L’afa si scioglie, come un incantesimo, tutto gira, tutto si muove. E’ giorno, ma è buio. L’attesa scandisce il tempo: adesso arriva, adesso piove. Tutto si gonfia. E poi una goccia, grossa, sola. E poi due e tre e quattro e cento e mille. Non si contano, si ascoltano, è ritmo. Luce. Silenzio. Tuono. Luce. Silenzio. Tuono. Silenzio.
Un attimo, tutto è cambiato. La corda si allenta, è caduta, riposa. Dalla finestra una raffica, fresca, d’aria nuova, fuoco che si spegne, respiro. Respiro. I tuoni parlano, i vetri tremano, è quiete. Leggo, lavoro, penso a te, penso a te. L’acqua colpisce i vetri, violenta. Tutto è calmo. La natura genera la tempesta, la natura si salva.

Redenti dal racconto

(foto di Matt Weber)

(foto di Matt Weber)

Ieri ho passato la giornata sui mezzi pubblici. Bus, tram, metro. Ho attraversato la città. Ho incrociato una quantità di persone che non so quantificare e sono passata attraverso pensieri numerosi e diversi. Sui mezzi in movimento i pensieri diventano spaziosi. E non so perchè. Eppure accade, così. Fin dai tempi in cui il sabato sera si andava, tutta la famiglia, in campagna, e in macchina, poggiavo la testa al finestrino e guardando fuori mi pareva di poter arrivare ovunque. Il mondo prende un ritmo diverso, veloce, le figure si sfumano, si allungano. Non esiste pesantezza nè lentezza.

Viaggiando sui mezzi, a Roma, si incontra tanta gente. Spesso capita di intercettare frammenti di conversazione, litigi, racconti, indicazioni. A volte ci sente uniti da una strana sorta di complicità. In fondo – pensavo ieri, guardando i miei compagni di viaggio, ad uno ad uno  – so cosa mangerai sta sera o perchè il capo ufficio ti ha fatto perdere la pazienza; so cosa hanno detto i prof sul rendimento di tuo figlio oppure cosa ha fatto quello stronzo con cui sei uscita l’altra sera. I mezzi pubblici sono una condivisione anonima ed estrema della vita. Anche chi concede i suoi occhi soltanto allo smartphone partecipa qualcosa di sè al resto dell’equipaggio. C’è chi scorre il dito sullo schermo con ritmo convulso e disordinato. E mentre lo fa sorride o cruccia le sopracciglie. Oppure si invia un messaggio e poi si sospira passandosi le mani tra i capelli. E  si capisce, allora, quanto sia difficile il momento. Spesso mi diverto a leggere i titoli dei libri di chi in metro entra già con le pagine aperte sotto gli occhi e cerco di capire, un poco almeno, a seconda dei titoli, le persone. Sui mezzi pubblici ci sono veri e propri equilibristi, capaci di rimanere in piedi, con i libri in mano, nonostante le frenate da paris dakar. All’ora di punta arrivano i professionisti con quello strano odore che solo le 8 ore di ufficio lascia addosso. Hanno il corpo dentro ad un vestito da riunione importante, al collo la cravatta e la faccia che si scioglie, piano piano, man mano che la strada li riconduce a casa: da facce dure a facce stanche. Ci sono anche brutte facce sui mezzi pubblici, sguardi da non incrociare, occhi infelici affamati di rabbia. Turisti, immigrati, anziani. Ci siamo, tutti. Come un appello senza assenti. Tutti presenti, tutti diretti alla stessa meta ma ciascuno su una rotta diversa.

A volte, invece, ci sente soffocare. Tutto appare squallido: bus, strade, persone. C’è chi spinge, c’è chi urla, chi pesta i piedi e chi puzza. I mezzi pubblici divorano il buon umore e ne sputano i resti agli angoli delle strade. Ieri però il bus andava, procedeva verso la sua meta, scaricando uomini e donne qua e là, ed io ascoltavo musica. Con le cuffie, si, la mia musica, quella che più amo. E mi sono accorta che la musica cambia lo sguardo, lo trasfigura. Cambia la faccia alle persone e la trasforma proprio dentro, davanti ai nostri occhi. Mi è accaduto di pensare che ciascuna delle persone che avevo accanto fosse una storia. Si, una storia, bella o triste, tragica o violenta. E ho pensato che se ci si accostasse alla vita della gente, e forse anche alla propria, con la stessa curiosità e attenzione che riserviamo ai protagonisti dei libri che leggiamo, sarebbe meno duro l’essere uomini tra gli uomini.

Ho pensato che ogni vita ha il diritto di diventare storia: trasfigurata dalle parole, salvata dalla narrazione, redenta dal racconto. Ogni vita dovrebbe passare dalle parole per essere compresa, come una rivelazione di sé a se stessi, prima di tutto. E non è certo il parlarsi addosso o l’imporsi, la violenza di chi non vede oltre la propria vicenda, perchè il racconto è sempre condivisione, la privazione di qualcosa. Le parole sono azione coraggiosa, il rischio dell’affidarsi e lasciarsi custodire da qualcuno. Quando una vita diventa storia e la storia è raccontata con le parole giuste ci si commuove, si sa. Il racconto non è  cronoca nera. Forse per questo certe notizie ci turbano, per la violenza delle cose accadute, certo, ma anche per l’assenza di narrazione, per la ricerca morbosa di particolari che si impongono sulla vita, che si sostituiscono alla trama, che inghiottono tutto. La trama è il filo che costituisce la parte trasversale del tessuto ed è un intreccio che non può essere sciolto se non si vuole rinunciare al tessuto, tutto intero. E se la musica trasfigura gli occhi e le parole trasformano le vite, chissà cosa accadrebbe se musica e parole fossero alla portata di tutti.

Penso a quando, tra amici si dice: “Ci sentiamo più tardi, devo raccontarti una cosa!”. Non fare la cronoca di un momento della giornata, ma raccontare, riuscire a far entrare l’altro nella trama della propria vita, dare spessore ai personaggi, permettere di vivere e condividere quello che si è vissuto. Per questo non si può raccontare tutto a tutti.

Un buon narratore però, deve saper usare la punteggiatura. Perchè le pause e i silenzi fanno la storia tanto quanto le parole. Senza il silenzio non c’è attesa e senza attesa nessun desiderio.

Le vite più dure sono quelle senza parole. E i drammi più grandi quelli nei quali la comunicazione si interrompe e muore. Niente ci fa soffrire quanto l’attendere da chi amiamo parole che non arrivano, niente come non saper dire le parole che pure sappiamo di possedere. I personaggi dei racconti non sono certo interscambiabili. Senza questo o quel personaggio la storia prende una direzione differente, la trama si infittisce o si allarga e spesso si è costretti ad un finale imprevisto.

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Roma, Ponte Sant'Angelo

Roma, Ponte Sant’Angelo

Palermo, Piazza San Domenico

Palermo, Piazza San Domenico

“Roma è avida di passi” (Resoconto dei miei primi due anni a Roma)

Una valigia per due mesi. Sembrava dover essere un soggiorno breve e intenso. Corsi per il Dottorato, piccola esperienza in Rai. Dopo, ancora Sud. Per terminare la mia tesi, velocemente e bene. Come avevo sempre fatto. Oggi 30 aprile festeggio il mio secondo anno di vita a Roma. Quei due mesi si sono dilatati, la valigia è diventata stanza in affitto in una, due, tre case differenti. La tesi è ricoperta da centimetri di polvere. In Rai mi hanno aperto un numero di matricola (evento definito giustamente “miracoloso”), ma, di fatto, senza che sia colpa di nessuno, la mia matricola si è atrofizzata dentro a qualche archivio di viale Mazzini. Le hanno sicuramente detto di mettersi in un angolo, al sicuro dalla crisi economica, in attesa di essere richiamata in servizio. Povera! Soffrirà di malinconia, non certo di solitudine. Però un lavoro ce l’ho e pure uno stipendio. Giuro. Precario, ovviamente. Il fatto è che proprio non riesco a farmelo piacere. Il lavoro dico, non lo stipendio, ovviamente.

Due anni. Due anni come due minuti dentro ad un frullatore. Tutto spezzato e trasformato. Tutto diverso. Tra la prima valigia e lo stipendio di oggi ci stanno ventidue mesi e molte cose. Tra la prima valigia e il mio presente c’è una città, una città affollata di gente, di eventi, di robe da piazza, di viicoli stretti, di palazzi, di chiese e monumenti, di manifestazioni, di politica e potere, di spaghetti cacio e pepe, di librerie, di tramonti mozzafiato, di cupolone, di fiorai, di derby, di turisti in canottiera e di bus affolati. Roma. Le persone, le cose, le parole, gli incontri. Ad uno sguardo di insieme, distante, distratto sembra confusione, traffico, caos. Ma a guardare con più attenzione Roma è gente venuta a portare qualcosa nella mia vita: una parola, una possibilità. Gente venuta ad aprire porte chiuse da tempo, o che si accosta, con andatura determinata e costante per dirmi qualcosa di me che ancora non so.

Roma ti deruba di forza. Roma è avida di passi. Accade allora di sentire la stanchezza e di non avere voglia di ributtarsi nella mischia. Pensi: Ma dove vado? Ma cosa sto facendo? Ti pare che il tuo volto si confonda con quello degli altri e che nessuno lo riconosca come unico. E, mentre stai seduto sul gradino del marciapiede ed osservi le ginocchia del mondo che ti passa accanto, alzi lo sguardo, pensi di intravedere “qualcuno” tra la folla e ti assale una malinconia che rende quel luogo insopportabile e la fatica per restarci dentro, inutile. Il luogo da dove vieni si trasforma. I ricordi delle cose “normali” diventano sacri e anche il pensiero di un pranzo in famiglia assume i contorni di un racconto mitologico fatto di eroi, di divinità, di vittorie.

La distanza da casa e l’incertezza del futuro, la vita che cambia e non capisci, i desideri che si trasformano e non riconosci, i compromessi che ti rincorrono, la nostalgia di ciò che desideri diventare, le novità che ti sorprendono, le persone che ti travolgono, tutto ti scava dentro uno spazio. Uno spazio inatteso, non previsto, di cui ti accorgi solo dopo, quando già esiste. E ci guardi dentro e ne vedi la profondità e ti chiedi cosa mai potrai metterci lì dentro, come riuscire a riempirlo. Già. Cosa? Capita di pensare, allora, dopo questi due anni per le strade di Roma, che quello per cui sei arrivata fin qui è diventato altro e che bisogna cambiare programma. Capita di pensare che si, magari la tesi di dottorato la finirai pure ma tocca reinventarsi la vita. E anche se ti rabbrividisce il freddo e l’umidità che arriva da quel vuoto che la città con la sua vita ti ha scavato dentro, speri di poter trovare, da qualche parte, pensieri nuovi, speranze durature, sogni diversi o, forse, sogni rinnovati, cambiati di abito, tirati a lucido. Che la vita è bizzarra, dicono. E i sogni vanno tenuti allennati, ben oleati, con la revisione fatta, con il tagliando in regola. Pronti a ripartire, in qualsiasi momento. Perchè Roma non è solo “guerra”, la tua crociata per conquistare e difenderti la vita. Roma è già vittoria. È la pagina che si gira, è l’attesa di sapere come finirà la storia. “…A me pure piace girare per le strade di Roma… soprattutto in estate.. di sera… verso le sette e mezza, otto… e sentire il rumore delle posate che vengono disposte sulla tavola… e pensare alle famiglie che si stanno preparando a cenare… e sentirmi leggero….

Tramonto romano 1° Maggio 2011

Tramonto romano 1° Maggio 2011

Tremando d’intelletto e passione

Brochure Convegno Roma 2013