Come una silenziosa primavera

Fiori di pesco. Foto di Carlo Columba https://www.instagram.com/carlocolumbafineart/?hl=it

Fiori di pesco.
Foto di Carlo Columba
https://www.instagram.com/carlocolumbafineart/?hl=it

Viaggeremo con un camper dall’Alaska a New York,
fino all’ultimo metro del sogno.

Vedremo le balene, il Montana, i coccodrilli della Florida
i cavalli pazzi del Kentucky vicino al Ranch di Sam Shepard.
Cercheremo Patti in un café italiano della Grande Mela,
il cappelaio matto di Central Park.

Saremo sudici e felici.
Nostro figlio non andrà a scuola.
Sarà nomade. La terra nelle scarpe.
Le unghia nere di colori ad olio sui notes della lista della spesa.

Porteremo in giro per il mondo la paura di invecchiare,
una borsa frigo con le mie fiale e
gli incubi notturni si sgretoleranno sotto i piedi del gigante “Presente”.
Rinasceremo e moriremo ogni giorno, come una silenziosa primavera.

Avremo la leggerezza di chi ha fallito tutti gli obiettivi,
mancato ogni profezia.
Avremo punti di riferimento nella stratosfera, in angoli di universo
che nessun calcolo potrà ipotizzare.
Saremo i pastori di un solo agnello, con la speranza
di vederlo andar via, saltellando..

Leggeremo libri, ci scambieremo baci, morsi alle fragole, pesche nel vino e
massaggi di labbra e di mani ai piedi gonfi di passi.
Andremo in cerca di eremiti e poeti, ragazze madri e galeotti
comporremo elegie con la vita che avremo mietuto, gialla come il grano di giugno.

Festeggeremo come un “rito perenne”, il giorno in cui ci siamo guardati,
il concepimento del piccolo profeta, il parto che mi ha dato occhi di animale selvatico.
Non ci saranno compleanni, la linea del tempo avrà abbandonato la tangente,
Bohémien chissà dove.
Non tornerà mai più.

Guarderemo di tanto in tanto le nostre tristezze, per poi riporle con cura e integre
in preziose scatole intarsiate a mano.
Porteremo al collo, ai polsi e alle caviglie gli affetti più cari.
Tintinneranno ad ogni nostro passo di danze gitane, ad ogni braccio teso al saluto.

Noi finiremo.

Il nostro giardino sarà felice per sempre.

Sai che cosa sembra?

(Addaura, Palermo)

“Ora camminavano sotto braccio.
L’uomo portava la bicicletta con la mano sinistra e lei, la donna, era nell’altra sua mano, camminava dentro di lui, non sulla strada. […]
«Sai,» egli le disse, «che cosa sembra?»,
«Che cosa?» disse Berta.
«Che io abbia un incantesimo in te».
«E io in te. Non l’ho anch’io in te?».
«Questa è la nostra cosa».
«C’è altro fra noi?»,
«Pure sembra che ci sia altro».
«Che altro?»,
«Che io debba vederti quando sono al limite».
«Come, al limite?»
«Quando ho voglia di perdermi»”.

Elio Vittorini, Uomini e no, 1945.

Groviglio d’intenti

mani

Quante cose per le mani
in questo inspiegabile groviglio d’intenti…

Non volermi male.

Certe volte l’importante è vedersi più belli,
quanto basta per sentire che il mondo è vicino.
E non è perfetto.

– C. Consoli, Non volermi male.

Non c’è pace senza pietà

Aleppo, 20 settembre 2012. Foto di Manu Brabo Al povero stendi la tua mano, perché sia perfetta la tua benedizione. La tua generosità si estenda a ogni vivente e al morto non negare la tua grazia. Non evitare coloro che piangono e con gli afflitti mostrati afflitto. Non indugiare a visitare un malato, perché per questo sarai amato. In tutte le tue opere ricordati della tua fine e non cadrai mai nel peccato (Siracide 7,32-36).

In seguito Gesù si recò in una città chiamata Nain e facevano la strada con lui i discepoli e grande folla. Quando fu vicino alla porta della città, ecco che veniva portato al sepolcro un morto, figlio unico di madre vedova; e molta gente della città era con lei. Vedendola, il Signore ne ebbe compassione e le disse: «Non piangere!». E accostatosi toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Giovinetto, dico a te, alzati!». Il morto si levò a sedere e incominciò a parlare. Ed egli lo diede alla madre. Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi e Dio ha visitato il suo popolo». La fama di questi fatti si diffuse in tutta la Giudea e per tutta la regione (Lc 7,11-17).

Al povero stendi la tua mano (Sir 7,32). Il verbo ἐκτείνω, scelto dall’autore di Siracide, è il verbo utilizzato per indicare il movimento della mano stesa, tesa a raggiungere chi sta di fronte. Il Siracide invita a non evitare il contatto, a non restare “dietro” coloro che piangono, ma a porsi di fronte per portare insieme il peso dell’afflizione. La prima preoccupazione non è quella di trovare una soluzione, ma quella di condividere una condizione, di accorciare il perimetro della solitudine attorno a chi soffre. Avere pietà vuol dire sconfiggere la pigrizia, il testo di Siracide usa proprio ὀκνέω, il verbo dell’indugio causato da preoccupazione o prudenza, dalla pigrizia e dal timore per se stessi, il rallentare del passo frenato dalla paura. A questo verbo si contrappone ἐπισκοπέω “fare visita”, usato nella Scrittura per indicare Dio che visita il suo popolo. É il farsi presente del Signore. Gli evangelisti lo pongono in bocca alla gente che segue Gesù e che vede e riconosce nel suo dire/agire la vicinanza di Dio: «Un grande profeta è sorto tra noi e Dio ha visitato il suo popolo» (cfr. Lc 7,16). Gesù stesso al cap. 25 del vangelo secondo Matteo lo utilizza per coloro che visitano i carcerati e sfamano gli affamati senza neppure immaginare di stare facendo qualcosa per Dio: «Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (cfr. Mt 25, 37-40). La pietà, infatti, nasconde la presenza del Signore, la custodisce senza pretendere che venga svelata, essa si fonda in prima istanza sul riconoscimento dell’uomo nell’uomo, nel poter scorgere in chi sta di fronte “un altro come se stesso” (cfr. Calogero Peri, L’uomo è un altro come se stesso, Salvatore Sciascia, Caltanissetta-Roma 2002).

Nel testo del vangelo Gesù non solo si ferma davanti al dolore, ma si fa raggiungere da esso. La donna, segnata da doppio lutto, piange nel figlio la perdita della concretezza dell’amore. I suoi due termini relazionali, il marito e il figlio le sono stati sottratti dalla morte e lei piange il vuoto irrimediabile dell’assenza. Tra il vuoto e la donna, però, ecco che si frappone la potenza insita nell’incontro, una potenza rigeneratrice che non sta soltanto nel fatto di ritrovarsi insieme nello stesso luogo quanto nel mettere in atto l’esserci per l’altro. Gesù καὶ ἰδὼν αὐτὴν “vedendo lei” – dice il testo – ὁ κύριος ἐσπλαγχνίσθη ἐπ’ αὐτῇ (cfr. Lc 7,13). La vista dell’altro provoca in Gesù qualcosa, un movimento delle viscere. Il pianto della donna arriva al, meglio, nel corpo di Gesù. Non è una commozione del cuore o una presa di coscienza razionale della difficoltà dell’altro. Questi elementi devono pure esserci, ma ciò che spinge all’azione è il corpo nel quale l’altro si fa presenza. E il corpo non dimentica. Rielabora, risignifica, ma non dimentica. Il movimento delle viscere, sottolinea l’evangelista, è “su di lei”, quasi ad indicare plasticamente un piegarsi di Gesù sul dolore della donna: “non piangere”, le dice.

Il brano continua raccontando di Gesù che “tocca” la bara del figlio. Nei vangeli Gesù stende la mano per toccare e guarire, per afferrare, per raggiungere, per creare contatto. Gesù, durante gli anni della sua predicazione, tocca continuamente e chiunque, soprattutto gli intoccabili secondo la società ebraica del tempo (lebbrosi, prostitute, peccatori), lo fa con la mano tesa, sopratutto, ma anche con la bocca, perfino con la saliva (cfr. Mc 7, 31-37) oltre che con lo sguardo. Tocca e si fa toccare. In questo brano Gesù tocca la bara del figlio della donna e gli parla, e il ragazzo si solleva e comincia a parlare a sua volta. È importante questo particolare: la parola è la forma principale della comunicazione e, dunque, della relazione. Gesù restituisce alla madre il figlio vivo e parlante. Dona lui a lei, viene ristabilita la potenzialità dell’avere qualcuno “di fronte”.

La pietà, allora, si configura come movimento delle viscere che ci fa capaci di vedere l’altro e, soprattutto, di vederci nell’altro, di scoprire in chi ci sta di fronte qualcosa che ci appartiene, come realtà in atto o come intuizione e possibilità. Ma può accadere che la pietà non nasca spontaneamente, anche in questo senso si può scorgere la sua esigenza di reciprocità. Non è soltanto la capacità di “accorgersi”, la pietà sta anche nel bisogno che diventa invocazione, grido, nel desiderio quasi disperato d’esser visti, nella solitudine divenuta oramai insopportabile che si trasforma in consapevole richiesta d’aiuto: “Guardami Signore, volgi i tuoi occhi verso di me, accorgiti che esisto, renditi conto della situazione in cui mi trovo e agisci! Fa qualcosa per me”, sembrano dire i salmi: Pietà di me, Signore: vengo meno;risanami, Signore: tremano le mie ossa (Sal 6,3); Abbi pietà di me, Signore, vedi la mia miseria, opera dei miei nemici, tu che mi strappi dalle soglie della morte (Sal 9,14); Volgiti a me e abbi misericordia, perché sono solo ed infelice (Sal 24,16); Ascolta, Signore, la mia voce. Io grido: abbi pietà di me! Rispondimi. (Sal 26,7). Chiedere pietà è domanda di una presenza attiva, quasi un richiamare l’altro alla propria identità di custode (cfr. Gn 4,9), è una dilatazione dell’essere che diventa senza dis-perdersi: “esserci per”. È la verbalizzazione di una speranza, l’esigenza gridata di un bisogno.

Ciò che sconvolge nei conflitti di cui siamo oggi spettatori più che testimoni è proprio l’assenza di pietà, la negazione del riconoscimento reciproco, sostituito dalla ferocia, dalla perversione delle fedi, dalla putrefazione delle ideologie. Forse uno dei mille motivi per cui questo avviene risiede nel fatto che per poter riconoscere se stessi negli altri bisogna prima avere occhi capaci di posarsi con pietà su se stessi. Avere pietà di se stessi è la capacità di guardare con speranza alle personali zone d’ombra, è toccare la propria piaga, è rendersi conto, è decidersi per la cura, sempre. Anche davanti allo sgomento provocato dalla consapevolezza di aver mancato il bersaglio della nostra vita. Può succedere, e bisogna imparare a fare i conti con tutte le gradazioni del fallimento e del dolore, così come del successo e della gioia.

Mi pare importante, infine, fare una distinzione tra il termine “conflitto” e il termine “guerra”. Il conflitto è l’urtare di una cosa con un’altra, l’inevitabile scontro fra ciò che fuori e dentro di noi si trova in contrapposizione e ha come fine intrinseco ed esito finale lo stabilirsi di nuovi equilibri; la guerra, invece, possiede come fine intrinseco la vittoria, la supremazia da raggiungere attraverso l’eliminazione dell’altro, a qualsiasi prezzo. La guerra è l’opposto della pietà. La pace, allora, può essere forse costruita attraverso l’esercizio della pietà come grido che avviene in noi stessi e che ci rende abili a percepire e intendere il grido dell’altro. La pietà è rimedio alla paura provata nei confronti di ciò che siamo, di ciò che abbiamo fatto o anche nei confronti di ciò che c’hanno fatto e che muta il nostro sguardo trasformando l’altro in nemico, in colui che ha potere d’aggiungere dolore a dolore. In una delle pagine più belle scritte da Paolo Dall’Oglio (http://www.popoli.info/EasyNe2/Idee/Abbattere_i_muri.aspx), egli utilizza parole schiette e dure, ma molto vere e drammaticamente attuali: «È ora d’inoltrarsi in spazi di empatia inesplorati. Opposti fondamentalismi ci costringono ad abbattere il muro d’odio: etnico, nazionale, dogmatico, misogino, omofobico, schifato delle povertà indecenti, odio di se stessi in nome della natura, della norma, dell’ordine sacro e maschio». La pietà, invece, ristabilisce l’equilibrio, ricuce lo strappo relazionale e restituisce ciascuno di noi, vivo e parlante, nelle mani del fratello.

Vicino, lontano

(foto di Walter Chappell)

(foto di Walter Chappell)

Soffiava quel vento maledetto, così forte da rendere impossibile sentire la propria voce, così come la voce di lei. E sentire la voce di lei era l’unica cosa che desiderava, davvero, in quel momento, un momento maledetto come il vento.

Ma lei non parlava. Nonostante le sue labbra fossero socchiuse, come in procinto di dire. Sembrava che le parole fossero lì, tutte in fila, pronte a venir fuori. E così lui le fissava le labbra, per non perder d’occhio lo sgorgare possibile di una sorgente.

Gli occhi di lui, come una riva, linea di confine tra terra e acqua salata. Lacrime in equilibrio, per paura che superassero il confine e che gli accadesse di sparire sotto un salire d’acqua irrefrenabile.

La guardava, senza batter ciglio, per non perderla di vista neppure un istante. La guardava così, come aveva fatto per anni, vicino abbastanza per imparare ogni particolare e ripeterlo a memoria giorno e notte, al risveglio, la sera, per strada, al lavoro. Vicino abbastanza, ma troppo distante per sentire sotto il palmo della mano il calore della pelle, per sentire sotto le dita lo spessore dei nei, le onde della labbra, la seta dei capelli, le ossa sporgenti, la linea curva del naso, la morbidezza del seno. Non abbastanza vicino per amarla, non sufficientemente lontano per scordarla.

Si ricordò di quando la vide sorridere la prima volta. Credeva di perder il senno. E si era guardato attorno, sconvolto dal procedere disinvolto del mondo. Si chiedeva smarrito e commosso come fosse possibile che la vita di tutti continuasse senza incantarsi davanti al quel distendersi della bocca così dolce…come non piantare i piedi davanti a quell’illuminarsi reciproco di occhi e labbra, come non restare lì a raccogliere luce e calore come un mendicante affamato? Avrebbe voluto fermare la gente, afferarla per il braccio e costringerla a condividere il momento: “Ehi dove andate? Ma..ma restate qui, venite con me..non vedete come è bella quando sorride?”. Era accaduto poche volte che gli sorridesse così, eppure, ogni volta gli pareva di poter aggiungere millenni ai suoi giorni di uomo.

Certo, si ricordava, pure, di quando piangeva…della lama affillata che gli tagliava le ossa: una pugnalata per ogni sua lacrima. Si ricordava di come l’universo intero patisse il sussulto dei suoi singhiozzi. Le montagne sembravano schiacciare la terra, il cielo tremava, non era possibile riuscire a fare un passo senza vacillare. Tutto perdeva la sua forma, la realtà sbiadiva i contorni lasciandolo privo di appigli. E quando stava male poi…le capitava spesso. Sopratutto ultimamente. Diventava così pallida, e tossiva. Nei momenti peggiori si accasciava, in ginocchio, come se portasse su di sè il peso del mondo.  Teneva stretto il ventre, un abbraccio intensissimo con il proprio corpo. Mangiava poco e troppo spesso, con le ginocchia piantate a terra, si sporgeva in avanti e vomitava cibo misto a sangue. Neppure lo guardava in quei momenti, lei. Eppure lui restava lì non se ne andava, mai. Restava lì sopportando eroicamente di non riuscire ad intervenire per darle sollievo. Restava lì, e quando lei sfinita, in ginocchio, rialzava di poco la testa, lui sentiva il sapore della morte, nel vederla così, stremata e bellissima, con un rivolo di sangue che le colava ancora dalla bocca e i suoi capelli scuri e lucenti impastati con i resti di quel cibo che non era per lei nè forza nè nutrimento.
Non smetteva di soffiare, il vento balordo. Il pensiero che quelle labbra socchiuse potessero finalmente partorire parole che il vento gli avrebbe portato via, lo prostrava profondamente. Posò i suoi occhi stanchi per l’attesa sulle mani di lei. Mani scure e belle. Magre ormai, ma espressive e potenti. Si ricordò, inevitabilmente, di quella volta che, quasi per errore, riuscirono a toccarsi. Fu un attimo, ma s’impresse in lui con una tale potenza…con una forza quasi violenta.

Camminavano insieme, uno accanto all’altra, come sempre. Avevano ormai imparato a procedere con ritmo costante, vicini, vicinissimi, ma lontani abbastanza per evitare il contatto. Ad un certo punto, però, il cammino si fece impervio, la strada dissestata, i sassi aumentarono improvvisamente, sembravano venire fuori dal nulla, una moltiplicazione feroce d’inciampi. Persero il ritmo del loro procedere paralleli e l’equilibrio di lui vacillò. Per evitare di rovinare a terra e batter la testa sui sassi, le afferrò la mano. Lui strinse, lei strinse. E lui non cadde sui sassi. Ma attraverso quella stretta di mani sentì lei in modo così forte dentro di sè che non potè frenare l’istinto di mollare la presa. Gli parve che i sassi gli avrebbero potuto nuocere meno di quella presenza di lei in lui così intensa.

Non gli accadde di toccarsi mai più. E adesso che lei lo stava lasciando, lui avrebbe voluto con tutta la sua anima, il suo corpo, la sua mente e le forze tornare a quel momento. Avrebbe voluto camminare sui sassi e riperdere l’equilibrio, rompere il ritmo del procedere parallelo e afferare di lei non solo la mano, ma il corpo, tutto: i fianchi, le braccia, le gambe, tutto. La pelle, il sangue, le ossa: tutto. Avrebbe voluto sentire fra le mani il pulsare dei suoi organi interni, stringere il suo intestino e il fegato e il cuore. Avrebbe voluto sporcarsi con il corpo di lei, avrebbe voluto sentire fra le dita i grumi del sangue da mischiare al suo in un esplodere incontenibile e furioso di rosso vivo. Avrebbe voluto sentirla addosso per sempre, perdere il proprio odore a favore del suo, mandare in frantumi i confini costruiti a difesa della propria solitudine e sentirsi invaso dalla presenza di lei. Avrebbe voluto. E ora che la vita lo stava lasciando non poteva che guardarla, nè troppo lontano nè troppo vicino e fissare quelle labbra socchiuse e immaginare, nonostante quel vento maledetto, un’ultima volta, il suono delle parole che la sua vita aveva tentato di pronunciare infinite volte.