O a Palermo o all’inferno!

Incredibile e vero. E’ passato già un anno dalla pubblicazione su Eufemia di “O a Palermo o all’inferno”. E’ bello ricordarlo non solo per la gioia delle 7000 visualizzazioni in meno di 48 ore da ogni parte del mondo o per le infinite condivisioni sui social, cose che fanno molto piacere, ovviamente, ma sopratutto per la rete di relazioni che da questo post hanno preso vita. Ho ricevuto centinaia di messaggi privati, tanti commenti da parte di chi si è sentito coinvolto nel racconto, segno che per la mia generazione, travolta e sconvolta dalle vicende del mondo, la ricerca dell’identità, la necessità di fuggire, lo struggimento della nostalgia per un futuro negato, la voglia di tornare, il desiderio di crescere e vivere e fare, la rabbia e la resa sono aspetti che ci accomunano, pur nella singolarità di ogni storia. Nessuna certezza che tornare a Palermo sia stata la scelta giusta e la valigia è ancora a portata di mano, non si sa mai… Ma Palermo mi chiamava, ed ho risposto.

O a Palermo o all’inferno!.

Crepare di maggio

Giovanni Falcone

Giovanni Falcone

23 maggio 1992 – 23 maggio 2015

“…crepare di maggio, ci vuole tanto troppo coraggio…” (F.D)

A Giovanni

Maledetti noi
mostri a due teste,
con una bocca annunciamo la pace
e con l’altra succhiamo avidi il sangue dei poveri.

Maledetti  noi
demoni a due facce
su di una, lacrime di vetro
e sull’altra il ghigno feroce dei forti.
Vuoto è il torace, deserto
custode del nulla.

Beati  gli esseri umani
di parole lievi e mani operose,
beate le labbra dei muti,
con gli occhi consolano
e offrono il corpo alla fame dei deboli.

Beati i ribelli
di gambe veloci,
beato è chi esagera!
Beati coloro che vanno dove non devono
e voltano le spalle al buon senso.
Beati coloro che infrangono gli argini.

Beata la terra bagnata dal sangue dei giusti
come gambe di donna nel giorno del parto.
Beato l’urlo della madre,
il dolore che spoglia i violenti,
esposti allo sguardo del mondo
lavate la vostra vergogna con scuse di fango.

Finita è l’attesa,
dal salvatore è giunta la morte.
A mani nude scaviamo la polvere,
cerchiamo con occhi ciechi di pianto
la vita che sgorga dal buio.

 

 

Raggiungimi

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Foro Italico, Palermo

Tutto può accadere, il mare respira.

Palermo.

Ho visto la vita intera, sul mare di Palermo in un riflesso di sole.
Ora sono come un pescatore che tira in barca le reti. Tiro, sollevo, fatico, ma le reti non hanno fine. Ho le braccia stanche e le dita di sangue. Le reti sono fili di lama.
Quel riflesso sul mare della mia città mi aspettava, un’imboscata.
Ha atteso con la pazienza di un cacciatore ed ha esploso il suo colpo appena mi ha vista sotto tiro. Un minuto prima e mi avrebbe mancata, un attimo dopo e mi avrebbe soltanto ferita di striscio. Sarei scappata impaurita e la cicatrice al braccio si sarebbe amalgamata con le cellule fino a non ricordare più nulla.
La mira è stata perfetta. E non c’è cellula che possa inghiottire i segni di quell’esplosione.

Palermo di colpi ne ha sentiti fin troppi, eppure non è mai sazia. Gli scoppi di morte si perpetuano all’infinito, rimbalzano dall’asfalto ai cimiteri, dai cimiteri alle pagine dei giornali, dai giornali alle aule dei processi, come un’eco che non trova riposo.
Gli scoppi di vita non rimbalzano, invece, gli scoppi di vita entrano nel corpo e rimangono in circolo. Trasformano da dentro, giorno dopo giorno. Ci si prova a dimenticarli, si, ma invano. Non si può. Si vorrebbe affidarli al primo cumulo di spazzatura all’angolo di qualsiasi strada, è la paura di scoprirsi capaci di realizzazione, ma per quanto ci si agiti restano attaccati alla pelle.

Non c’è pensiero o sentimento, paura o sussulto del cuore che non sia intrecciato come filo di lana ad un altro, al luogo dove viviamo. Una maglia che non si può sfilare, che non può in alcun modo tornare ad attorcigliarsi come un gomitolo.
Uno scoppio di vita acceca la vista e la percezione della pienezza non è data dal comprendere o intuire cosa esattamente accadrà, ma dalla visione di una potenza possibile, qualunque sarà la sua declinazione.

L’acqua era di cristallo. Circondata di sabbia e di roccia color deserto. Qualche metro dietro le mie spalle il grigio dell’asfalto, in cielo un sole fuori stagione, inopportuno. Un insieme di opposti, un impasto impossibile, elementi differenti che pure hanno imparato a convivere in uno spazio condiviso.
Non si dimentica il disagio né la rabbia di dover abbracciare con lo sguardo, ogni giorno, la gloria e l’inferno, la bellezza e la vergogna.

La rassegnazione dura un momento. L’animo si ammala di sconfitta solo se resta incapace di viaggiare nel tempo:
lo splendore del passato, la miseria del presente, la speranza del futuro,
la miseria del passato, la speranza del presente, lo splendore del futuro,
la speranza del passato, lo splendore del presente, la miseria del futuro.
Quando s’innalzano case di pietra con fondamenta profonde in quello che fu, che oggi è o forse sarà domani, si resta prigionieri di un solo momento che si perpetua inesorabile nel tempo.

Il vento era leggero. L’acqua tremava appena e i cespugli selvaggi ondeggiavano lievi.
Palermo lotta contro i giganti. Anch’io. Non sempre dalla sua parte, ma sempre al suo fianco. Vince una volta su mille, eppure non si ritira. Vince quando la posta in gioco è bassa, a notte fonda, quando il popolo abituato alla vittoria dei giganti si è appisolato, accasciato su sacchi pieni di monete d’oro, facile bottino del più forte.

Cosa accade nella vita di uomo in un sol giorno? Dal mattino fino a sera, quante volte respinge l’assalto dei briganti, quante volte si ritrova i piedi immersi nel fango, quante volte è incoronato re, quante volte difende se stesso e sfida a duello i suoi fantasmi? Quante volte batte la ritirata e mangia il pane amaro del fallimento?

C’era silenzio. Ogni voce taceva a bocca aperta. Ovunque lo stupore delle cose, quando comprendono di poter accadere. Vedere con i propri occhi l’impossibile possibile, per un istante appena e la visione diviene esperienza e l’esperienza è la chiave che apre le porte d’ogni prigione.

Tutto può accadere. Il mare respira.

Sol(Alt)itudine

(Palermo, città)

(Palermo, città)

 

Di notte, a Palermo.

(foto di Lucia e Giulia Lo Porto)

(foto di Lucia e Giulia Lo Porto)

S’addummisciu lu celu
e lu scuru mi trasiu nta l’ossa.
Lu cori, lu me cori si voli manciari!
Pi saziarisi di tia, ca dintra di mia t’ammucci.
Ti truvau a tenebra, amori miu,
ma io scappo e curru
e t’addifiennu e ieccu vuci,
ca lu scuru si scanta
di li peri nudi
ca currunu nta la notti
,
si scanta di l’occhi mei
d’amuri addumati,
si scanta di mia ca cantu,
di li balati ca luciunu di luna,
di i statui vistuti di biancu,
di la storia,
ca ferita a morti un chiui l’occhi
e s’attacca a li mura
e risisti.

Si è addormentato il cielo
e il buio mi entra nelle ossa.
Il cuore, il mio cuore vuole divorare!
Per saziarsi di te, che dentro di me ti nascondi.
Ti hanno trovato le tenebre, amore mio, ma io scappo e corro
e ti difendo e grido,
perchè le tenebre si spaventano
dei piedi nudi che corrono nella notte,
temono i miei occhi vivi d’amore,
si spaventano di me che canto,
della strada che brilla di luna.
delle statue vestite di bianco.
della storia che ferita a morte
non chiude gli occhi,
ma si attacca alle mura
e resiste.

Non l’ho fatto apposta

Foto di Alexandre Chamelat

Foto di Alexandre Chamelat

L’estate che sta  per nascondersi alle nostre spalle mi pare sia durata appena un momento. Un tempo piccolo ma profondissimo, tanto da contenere il mio epico ritorno a Palermo, il diffondersi raccapricciante dell’Isis, la follia omicida dei bombardamenti su Gaza, la morte di Robin Williams e perfino qualche briciola di vita quotidiana: giornate al mare, sere sul dondolo ad ascoltare i grilli, molti gelati e le risa degli amici.

Ma oggi, beh, oggi è il 1° settembre. Il giorno mitologico nel quale mia madre spariva da casa per venire divorata, fino al prossimo giugno, dal mostro dai mille volti: la scuola.
Da un po’ di tempo, questo mostro poliedrico divora anche me. Quest’anno a Palermo, però. E non è affatto un particolare di poca importanza. Ovviamente precaria, ovviamente incarico su due scuole. Più o meno il rituale del 1° settembre mi è familiare, ma ogni anno, devo dire, mi riserva sempre nuove sorprese. Quest’anno poi si tratta di scuole superiori e anche questo particolare non è di poca importanza.

Arrivo puntuale. Entro, mi dirigo al banco del collaboratore scolastico. Lo trovo circondato da cinque uomini dei quali non riesco a capire la funzione e lo riconosco per la sua posizione centrale, di comando, e perchè, ogni tanto, si sporge a controllare coloro che varcano la soglia: “Salve, io sono una nuova docente”. Lui, da seduto, mi guarda, dalla testa ai piedi, lentamente (siamo a Palermo appunto) e mi dice: “Mi fa veramente piacere, signorina”. Non posso rendere l’accento né la mimica facciale, ma vi assicuro: uno spettacolo! Mi indica il luogo nel quale si terrà il tanto famigerato Collegio dei docenti, ma non sto molto attenta alle sue indicazioni, so che mi basterà seguire il flusso migrante degli uomini (pochi) e delle donne (tante) e il rumore, allegro e scoppiettante, delle chiacchiere. Mi guardo attorno, davvero la scuola è lo specchio della società. E la società palermitana è, infatti, tutta degnamente rappresentata. Sono ancora in piedi che si baciano, si abbracciano e si guardano in cagnesco. A differenza di Roma, qui si è abbronzati tutti, belli e brutti, ricchi e poveri. A Palermo ci si abbronza con l’aria, lucida e calda anche nei luoghi più lontani dal mare. Si accosta un collega, giovane: “Sei una nuova collega?” (la domanda più gettonata della giornata), vorrei rispondere: “No, sono la commessa del supermercato, volevo vedere se è vero che gli insegnanti non fanno nulla tutto il giorno”. Invece sorrido e rispondo di si. “Insegni religione, dunque? – mi dice – Avrai di che riflettere”. Ma che vuol dire? Forse nota nel mio sguardo una punta di smarrimento e aggiunge: “No, è che ca su tutti vestiti alla moda, ma la testa ce l’hannu vacanti”. Ah. Acquisisco l’informazione. Il Collegio comincia, procede e finisce nel brusio totale e costante. Cerco di ascoltare le parole della preside e allo stesso tempo non rinuncio al mio vizio di rubare qua e là spezzoni di dialoghi, nutrimento prezioso per le mie storie.  Non posso voltarmi in continuazione e allora ascolto, tanto avrò un intero anno per abbinare le voci ai volti corrispondenti. Non resto delusa. Scopro che il collega dietro di me ha fatto un lungo viaggio in macchina, in Spagna, ma ci tiene a sottolineare che non accadrà mai più perchè gli è venuta la gastrite e pure le emorroidi, per la cronaca. C’è chi racconta dei figli, chi dei nipoti, chi si lamenta di guai che gli hanno rovinato l’estate, chi è traumatizzato dal pensiero che dovrà ricominciare a svegliarsi presto. C’è chi sparla i colleghi, chi si sottopone, sereno e rassegnato, al terzo grado della vicina di sedia.
A Collegio finito, faccio un giro delle aule: la scuola senza i ragazzi sembra un enorme mostro che dorme. Quando arriveranno sarà tutto più chiassoso e meno spaventoso, spero.

Guardo l’ora, scappo. Devo raggiungere l’altra scuola, almeno per conoscere gli impegni della settimana. Chi arriva a Collegio terminato con la scusa di essere stato nell’altra scuola ha poche speranze di risultare simpatico al primo impatto. Qui sarà tutto in salita. E infatti, su suggerimento della segretaria, raggiungo l’ufficio della vice-preside e la trovo al suo tavolo circondata da un gruppo di fedelissimi. Busso, entro, interrompo, mi presento. Questa volta li deludo per ben due volte: la prima perchè erano sicuri di indovinare la mia età: “Non hai più di 28 anni!”, e io invece affermo con convinzione di averne 34; la seconda perchè non si aspettavano che una giovane o presunta tale, alta quasi un 1,80 mt con tre piercing all’orecchio potesse insegnare religione. Mi guardano talmente seri dopo la mia risposta che a me viene da dire: “Si, sono una prof.ssa di Religione, ma…non l’ho fatto apposta”.

Alle 12.30 riprendo la via di casa. Spossata dal caldo, dalle valanga di parole ascoltate, da tutti quei volti che non conosco e  che nascondono storie di cui non so ancora nulla, alcune delle quali, in un modo o in un altro entreranno a far parte della mia. Li guardo i miei nuovi colleghi e mi chiedo a quali di loro, di sinistra, forse, dovrò dimostrare di non essere bigotta e ottusa, a quali cattolicissimi prenderà un colpo quando sapranno che non porto al polso il bracciale di p. Pio e che non so nulla sulle apparizioni della madonna, chi mi fermerà tra i corridoi chiedendomi con aria minacciosa e disperata cose come: “Ma se Dio c’è, perchè il male?”; chi sarà disposto ad ascoltarmi, con chi potrò collaborare, chi sarò capace di avvicinare davvero. Non ho potuto fare a meno di notare, negli uuffici, quei crocifissi messi all’angolo, adornati con fiori di plastica tra la croce e la parete o con secchi rami d’ulivo risalenti a chissà quale pasqua e mi chiedo se saprò dire una parola, una sola parola vera, sensata, umana su di lui. Poi mi informo con la segretaria dai capelli ossigenati riguardo alla firma del contratto:
– “Aaaancora! Presto è!”.
– “Ma…veramente a Roma ho firmato nelle prime settimane di settembre…”.
– “N’ca picchì signorina lei a Roma era?”.
– “Si”.
– “E a lei cu ciu fici fari di tornare a Palermo!”.
– “Ma…Non l’ho fatto apposta”.
Si ricomincia, insomma, a vivere in equilibrio disinvolto su superfici verticali.

In attesa di verità e giustizia

Riproponiamo, a quasi un anno di distanza, questo articolo. Oggi, proprio oggi. Per ricordare Paolo e gli agenti della scorta. Dall’anno scorso poco è cambiato…Se non il fatto che “Eufemia” è tornata a Palermo, ma senza guarire dalla sua nostalgia. Palermo ti riempie di nostalgia di sé anche e sopratutto se ci vivi dentro.

In attesa di verità e giustizia.

La morte, non uccide i vivi.

n

“…Quella volta che la morte
gli è passata proprio accanto…
Lo ha guardato di traverso
e se ne è andata zoppicando…”  (F.De Gregori)