O a Palermo o all’inferno!

Da quando ho deciso di tornare a vivere a Palermo ho l’impressione che tutto a Roma mi rivolga lo sguardo. La città mi guarda, mi guardano le strade, i platani, i gatti di Torre Argentina. Mi guardano i turisti, i conducenti dei bus, i gabbiani, il Tevere, il Cupolone. Mi guardano senza fiatare. Non dicono nulla. Uno sguardo muto e intenso. Uno sguardo al quale non si può rispondere se non con occhi muti e intensi.
“A Palermo?” – mi ha chiesto un’amica, al telefono, con un tono interrogativo simile a quello che avrebbe avuto se gli avessi detto che ero in partenza per combattere la guerra santa in  Pakistan.
– “Si, a Palermo”, ho risposto io.
– “Ma l’insegnamento lì te lo danno?”
– “No”.
– “E quindi lasci uno stipendio sicuro, a Roma, per tornare a Palermo…”
– “Ehm…Si”.
– “A Palermo?”.
– “Si, ti ho detto, a Palermo”.
– “Che immagino sia la stessa Palermo dove siamo cresciute e dalla quale sono scappata”.
– “Si, è la stessa”.
– “E tu ci torni dopo tre anni di vita a Roma dove hai un lavoro sicuro senza garanzia di un qualsivoglia stipendio…”
– “Esatto”.
– “Aaaaaah… (silenzio). Ma perchè????????”.
– “Non lo so esattamente. Ma devo farlo, anzi no non devo, voglio farlo…So che è giusto così, so che voglio provare a vivere con le cose che Roma ha donato a me, di me”.

Roma, tre anni fa sono arrivata da te con degli obiettivi da raggiungere, una manciata di desideri e qualche dubbio. Adesso ti lascio con molti obiettivi mancati, desideri inediti e una valanga di dubbi. Quello che ero te lo sei rosicchiato poco a poco, quasi senza che io potessi accorgermene per poter lottare con te ed evitare che accadesse. Hai estirpato con pazienza quasi tutte le cose che pensavo di sapere e che credevo di dover/voler essere. Son partita da casa tanto pigra da non voler fare neppure un bollettino alla posta, adesso torno a Palermo in grado di far ripartire la caldaia, smacchiare i vestiti, cucinare, sterminare le formiche, entrare e uscire dall’ospedale, litigare con i vigili urbani, farmi le punture da sola, dire la mia ai consigli di classe, leggere un contratto, tenere a bada 400 ragazzini a settimana, asciugare le prime lacrime di un cuore spezzato, compilare il modulo per le ferie, usare un registro elettronico, capire come si entra e si esce dal raccordo anulare; so organizzare una rassegna stampa e so come si gestisce la diretta di una trasmissione radio, so fare la scaletta di un programma e so che non bisogna credere a tutto quello che viene detto nei corridoi della Rai. E, alcune volte, so perfino fare queste cose quasi contemporaneamente.
Mai avrei immaginato quale vita mi stavi preparando mentre abbattevi ciò che conoscevo, Roma città piena di segreti. Mai avrei immaginato di saper resistere alla vita con tale costanza, mai avrei creduto di saper condividere il pane del mio lavoro con la solitudine di cene piene di inverno.
Roma, mi hai insegnato a saziarmi delle briciole, raccolte con pazienza nei lunghi tragitti in tram. Racimolare i frammenti della vita degli altri e poi rovistarci dentro alla ricerca di un’esistenza che tutti ci accomuna. Ho mille tramonti di cui ringraziarti, infiniti passi donati, generosi e furiosi, alle tue strade.
Roma, che mi hai nutrito di Pasolini e temporali, di strade innevate a festa e di notti calde in attesa di vacanza.
Roma, che mi hai insegnato a parlare e che generosa e severa mi hai fatto recuperare con fretta violenta il necessario per vivere.
Roma, che hai mischiato la mia carne e il mio sangue con la carne e il sangue di tutti. Roma benedetta, che mi hai insegnato la bellezza di essere normale, di camminare sconusciuta e sola dentro all’ammasso intricato del mondo:

Stupenda e misera città, 
che m’hai insegnato ciò che allegri e feroci 
gli uomini imparano bambini,

le piccole cose in cui la grandezza 
della vita in pace si scopre, come 
andare duri e pronti nella ressa

delle strade, rivolgersi a un altro uomo 
senza tremare, non vergognarsi 
di guardare il denaro contato

con pigre dita dal fattorino 
che suda contro le facciate in corsa 
in un colore eterno d’estate;

a difendermi, a offendere, ad avere 
il mondo davanti agli occhi e non 
soltanto in cuore, a capire

che pochi conoscono le passioni 
in cui io sono vissuto:
che non mi sono fraterni, eppure sono

fratelli proprio nell’avere 
passioni di uomini 
che allegri, inconsci, interi

vivono di esperienze 
ignote a me. Stupenda e misera 
città che mi hai fatto fare

esperienza di quella vita 
ignota: fino a farmi scoprire 
ciò che, in ognuno, era il mondo. (P. Pasolini)

Roma, adesso devo andar via, proprio adesso che ho imparato a vivere insieme a te la lunga lotta del trascorrere quotidiano del tempo. Torno a casa, ma non torno a ciò che ho lasciato. Di quanto ho lasciato non esiste più nulla se non il mare e l’affetto di una famiglia che non è solo legame di sangue, ma radici pazienti e profonde che ci intrecciano gli uni gli altri. Lo so che Palermo è una città feroce. Ma so che posso reggere il suo sguardo adesso. Lo so che Palermo non avrà riguardo per me e che non mi riserverà nessun trattamento di favore per essere tornata. Rimmarrà così com’è, bellissima e violenta e quando incassando i suoi colpi  mi accascerò con un filo di sangue che esce dalla bocca, lei mi dirà seria e con voce ferma: “Io non ti avevo promesso niente”.
WP_20140530_044Palermo che non prometti niente, io torno da te lo stesso. Posso, adesso, che ho imparato a sopportare l’assenza del compimento. Voglio, adesso, che non sei una resa, ma una scelta. Posso, adesso, ora che ho imparato a non aver paura dei miei squilibri ora che sorridendo apro la porta ad una strana e folle forza che diventa parole da scrivere e disegni tra le dita, idee e progetti da rischiare, ora che la vittoria la vedo nella possibilità di esistere e non soltanto nella capacità di realizzare, anzi, ora che la vittoria non è più un traguardo da tagliare.
Palermo Palermo, è inutile che mi guardi così. Io lo so. Lo so che queste cose che ho imparato sono solo una piccola parte dell’equipaggio necessario a vivere dentro al tuo assedio. Ma io torno lo stesso.
Torno sapendo che ti maledirò e ti amerò, e ti urlerò dietro la tua crudeltà e rimarrò muta davanti a te. Ma se non torno, adesso, i semi che Roma mi ha piantato dentro non marciranno e non ci sarà frutto. E non provare a vivere secondo quanto si intuisce vero è l’unica morte che oggi temo.
Bixio: Generale, finalmente siamo giunti nella tanto desiderata città di Palermo.
Garibaldi: Nino, domani a Palermo.
Bixio: Riusciremo ad entrare in questa città, generale?
Garbaldi: Nino, o a Palermo o all’inferno! (M. Cuticchio).

Siedo invisibile e solo

… Io siedo invisibile e solo
tra monti e foreste: la sera
non freme d’un grido, d’un volo.

Io siedo invisibile e fosco;
ma un cantico di capinera
si leva dal tacito bosco.

E il cantico all’ombre segrete
per dove invisibile io siedo,
con voce di flauto ripete,
Io ti vedo!

da “Nella macchia” di G. Pascoli

 

Un timido e veloce batter d’ali

 (Foto di Oli Scarff)

(Foto di Oli Scarff)

C’era una volta, in mezzo al mare, al centro della pancia del mondo, una terra triangolare. Una terra antica e incantata. Questo triangolo di roccia e sabbia, terra fertile e pianure proveniva dal fondo del mare. Dagli abissi vedeva luccicare sulla superficie una luce irresistibile, splendente, come un richiamo di voci magiche, come uno scintillare di vita esagerata. Il triangolo non riuscì a resistere e con grande sforzo e intenso dolore si staccò dal resto della terra nel fondo del mare e con stupore e timore e incontenibile felicità si affacciò in superficie.
Sale, sole, vento, nuvole e pioggia, estate e inverno! Il triangolo si copri di piante e di verde, di fiori colorati, di frutti spinosi e succosi, di animali veloci. Oh, la sua gioia era così grande che la faceva tremar tutta, sentiva il fuoco dell’esistenza scuoterla da cima a fondo.
Un giorno assistette, incredula, al morire quotidiano del sole. Come credere vero e possibile quell’abbraccio di vita e morte?! Come poteva l’inabissarsi della luce, dar vita a tanta bellezza? Il sole calava, giù e ancora giù, sulla linea di confine del mare e tutto era avvolto dal silenzio. Era così commossa la terra triangolare che pianse lacrime di fuoco e le sue lacrime vennero in superficie formando un cratere, potente e di inusuale bellezza.
In tutto il mondo si sparse la fama di questo abisso di mare venuto alla luce e gli uomini fecero a gara tra loro per potervi abitare. La terra sorrideva nel vedere sulla sua pelle quell’avvicendarsi di volti diversi, lingue dai mille suoni, culture multiformi. La gente che cominciò ad abitarla aveva tante facce, frutto felice di fantasiosi innesti. La terra era così bella che tutti gli abitanti non poterono che divenir poeti e narratori, artisti, cavalieri ed eroi.
Ma la bellezza della terra triangolare cominciò a far gola anche al terribile drago che si nascondeva fra le crepe delle sue rocce. Il drago depose ovunque le sue uova e riempì quella terra, devastandola. Fece alleanze di morte con gli altri draghi della superficie terrestre portando morte e distruzione. Seminò fuoco e fiamme che germogliarono voraci nel cuore di molti abitanti. Il respiro dei draghi provocava fumi tossici che avvelenavano i frutti succosi della terra. Molti dei visi felici d’incontri meticci divennero tristi e il triangolo di terra si sentiva risucchiare nelle profondità buie del mare. Molti uomini e donne lottarono coraggiosi contro il drago e i suoi alleati e morirono bruciati e soli al crepitar furioso delle loro fiamme.
Ciò che il drago non sapeva, però, era proprio che la cenere di quegli uomini e di quelle donne ricadeva sulla terra rendendola fertile e leggera. E così, chi tra gli abitanti non abbondonò la speranza di sconfiggere il drago, si accorse del fecondo e spontaneo germogliare di quelle ceneri. In silenzio e con molta fatica mischiarono ad esse il sudore del loro lavoro e la terra si ricoprì di nuovi fiori. I draghi totalmente inebriati della loro potenza non abbassavano neppure lo sguardo su quei piccoli lavoratori, sulle loro zappe e sul loro sudore, così impegnati com’erano a guardarsi gli uni gli altri per sfidarsi e dimostrare la supremazia della loro forza.
Gli uomini e le donne continuarono a lavorare, notte e giorno, i fiori cominciarono a crescere, a moltiplicarsi e a rivestire il triangolo di terra come di un abito da sposa. Al veder tanto candore delle piccole e silenziose creature chiamate Farfalle, cominciarono a migrare verso quella terra di sole e di sale. Con le loro piccole ali colorate affrontorono viaggi lunghi e pericolosi per potersi nutrire di quei fiori di cenere e sudore. Arrivarono a milioni. Volavano basse e silenziose, si moltiplicarono dando alla terra un fremito continuo di metamorfosi. Volavano basse, si, e i draghi alti e possenti non si accorsero della loro presenza, fino a quando divennero così tante le Farfalle da circondare completamente i draghi fino al ventre. Con il loro timido e veloce batter d’ali provocarono un intenso solletico ai piedi e alla pancia dei draghi, così intenso e così continuo che i draghi non riuscirono a resistere. Solleticati in ogni dove da quelle ali d’aria persero l’equilibrio e rovinarono giù, chi fra le crepe infuocate della terra chi nel fondo del mare profondo. Cadderò tutti e non ne sopravvisse neppure uno!
Il triangolo di terra si sentì riemergergere, respirò forte e si abbandonò a insperati sorrisi. Le Farfalle restarono per sempre sulla sua pelle e il profumo dei fiori si diffuse su tutto quel mare d’intenso blu al centro della pancia del mondo.

Spasimo

Spasimo, spasimare, spasimante. Parola appesa a radici lontane: Stendo, stiro, strappo. Radice europea a doppia punta. Biforcazione che trattiene di un solo ceppo due significati: dolore e desiderio. Essere in preda a spasimi, a dolori molto forti e acuti, e, insieme, desiderare ardentemente/preso dagli spasimi d’amore.

31 dicembre, ultimo giorno dell’anno, gocce che scendono giù lentamente, dopo fiumi d’acqua veloce. Palermo, tutta grigia e bagnata. Sono entrata in macchina, decisa a ritagliarmi tra i drappi festosi delle vacanze uno scampolo di solitudine, un residuo d’intimità, prima di rimpizzare la valigia con i pezzi trasportabili della mia vita e rimettermi in viaggio sulla rotta di un futuro dallo sguardo precario e dai lineamenti incerti.

Palermo senza traffico è privilegio di fine anno. Il Cassaro scorre sotto le ruote della macchina e i palazzi di corso Vittorio strisciano lentamente sul viso mentre procedo in avanti a 30 all’ora. Ai Quattro Canti, i turisti sono pesci surgelati avvolti in plastica impermeabile blu e avanzano, con gli occhi in su, pronti ad abboccare agli sguardi severi delle statue nere di smog. Agli angoli le carrozze immobili sulla schiena di vecchi cavalli dai cappelli rosa e plaid scozzesi sotto il culo di cocchieri senza scuola e parole, abili nel farsi comprendere da facce straniere, a forza di sguardi e mani volteggianti nell’aria. Sembrano personaggi di un film drammatico, cominciato a Palermo secoli fa e ancora lontano dalla fine del Primo Tempo. Da Porta Felice il mare annuncia nera la sua presenza. L’orizzonte si riposa dagli sguardi che sempre lo cercano avidi di spazi, dietro un cumulo di nuvole grigioblu. Eppure è immobile il mare e alla Cala le barche a vela sembrano tutte poggiate sopra la mensola di vetro di un grande appartamento. Scendo, un attimo. Mi volto verso Santa Maria della Catena che sta lì, staccata dalla terra grazie ai suoi gradini di pietra e con le spalle al mare, ha l’aria di chi sa d’essere al sicuro da tutto, con quella fierezza spavalda che solo l’esperienza sa dare, dopo aver affrontato la paura innumerevoli volte.

Sono diretta dove non mi reco da tempo. Tanto tempo. Tempo sufficiente a confondere le traverse e far perdere la strada. Posteggio la macchina a Piazza Marina, lancio uno sguardo complice al Ficus dalle mille braccia a tener stretta la terra, mi fermo davanti a Palazzo Steri. La piazza è un cantiere di polvere e sacchetti di spazzatura in cerca di patria, mi scivola dietro le spalle e mi lascio inghiottire dalle viscere di viicoli sottili. Per le strade soltanto camerieri, davanti a porte di locali, a fumar sigarette, una pausa nel ritmo frenetico della preparazione per la notte dal conto alla rovescia. Cesserà il silenzio e sarà guerra di petardi e scorrere di spumante in vena.

Molte vie del centro storico hanno la faccia nuova, pulita e si affacciano sulle balate antiche con l’orgoglio di una lenta e sudata resurrezione. Dai balconi aperti si sente il brusio di opere in corso. Pentole sul fuoco e litri di capuliato in cui gettare numerosi e piccoli salvaggenti di grano duro. Giro angoli, scopro strade. Da una traversa arriva il grido deciso di una madre: “Salvatoreeee, unni si, disgraziatu, arricampati dintra!”. Le donne in certe strade di Palermo hanno voci potenti di tuono.

L’ho ritrovata. Entro. Trattengo il respiro. Non c’è nessuno. Mi sento come il burattino dentro al ventre della balena. S. Maria dello Spasimo, in ricordo della “Madonna che soffre dinanzi al Cristo in croce”.

WP_001699Chiesa commissionata e mai portata a termine. Senza fine, come il dolore della Madre davanti al figlio che muore. Pietre. Una sull’altra a toccare il cielo. La testa si piega all’indietro a cercare il confine tra le mura e le nuvole. Gigante antico in rovina sopra la carne viva e fragile della mia presenza. Carezzo con la mano la linea immaginata sul muro. Percorro l’intero perimetro, lentamente, cercando di ritrovare il canto dei monaci, le musiche degli attori, il lamento degli ammalati, la rassegnazione dei poveri, l’odore del grano. Convento, teatro, lazzaretto, ricovero, magazzino. Identità cangiante, mai definita, mai definitiva. Abbandonata, amata, celebrata, dimenticata. Spasimo, dolore e desiderio. Mi fermo, al centro, alzo le braccia, distendo le dita delle mani per toccare idealmente gli archi sventrati che mi sovrastrano per decine di metri. “Dove sono, dove sei?”, balbetto con voce sommessa, senza un tu definito a cui rivolgermi: io, lui, Dio, la città, la vita.

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Desiderio e dolore di terra, radici di parole antiche ed esperienza di uomini, ieri e oggi e per sempre. Spasima la mia città, che cerco senza trovare, che desidero senza toccare, che scelgo, senza restare.

WP_001694Santa Maria dello Spasimo. Alluvioni e terremoti a sommergere e distruggere le pietre, sommersa nella città cieca fino alla resurrezione sulle labbra dei palermitani, il loro stupore sotto strati spessi di ruggine, in mezzo al niente di una città tutta da rifare, ieri e oggi e per sempre.

Palermo, finestre murate, balconi forti di ferro, pavimento d’aria per cadere nel vuoto di rivoluzioni addensate nei grumi di sangue dei tuoi martiri. Palermo che costruisci le case ai cani nelle strade povere e ti nutri di polvere antica nel tempo che passa senza azione, appoggiata ai muri.

SPASIMO

Se avessi avuto, io, un cuore di cane

Foto di © Vincenza Tomasello

Foto di © Vincenza Tomasello

30 dicembre 2013 ore 7.15. Come ogni mattina ho acceso il pc e aperto le pagine dei quotidiani. Schumacher è in coma, la Russia muore di rabbia e si illude di punire i tiranni bruciando di fuoco i figli innocenti; la terra trema a Napoli, l’Etna esplode di forza sotteranea, di magma incontenibile; 151 bambini muoiono, ad Aleppo.

Tutto è lì davanti ai miei occhi, tutto è lì, troppo distante dalle mie mani. Clicco, leggo, scorro le parole, le pubblicità accendono di luci lo schermo – “Guarda noi, pensa a noi!” – sembrano dirmi. E poi, poche righe, in un angolo, senza spessore. E i miei occhi ci si schiantano, contro: “Morto per freddo un senza tetto a Palermo”. Per freddo? A Palermo? –  Mi chiedo, d’istinto –  La domanda rimbomba, eco nello spazio vuoto tra il mio corpo e il vecchio pigiama di pail ormai troppo grande, per me.

Mi inoltro tra quelle parole senza enfasi di notizia, briciole di cronaca locale che cadono giù dalla bocca affamata e vorace del mondo. Guardo la foto di quella montagna, cima irragiungibile, di coperte e cartoni. Guardo. Sembrano tutte uguali queste catene montuose agli angoli delle strade: stracci, sacchetti, cani e cartoni; senza segnaletiche per indovinare identità, la storia di chi ci vive, sotto. Questa volta, però, le coperte sono  paesaggio familiare. Io le ho viste, con gli occhi miei, non da dietro uno schermo, ma in diretta, dall’obiettivo dei miei passi frettolosi, distratti. Sono passata, io, da lì. La sera prima. Ed era tutto come nella foto. E ancora, nella foto, il cane sta lì, così, seduto ai piedi di quella catena montuosa di lana e carne, fermo, serio, come un soldato. Io sono passata, da lì.
E il passo ha rallentato, di poco. Solo il tempo per cercare gli occhi della persona accanto a me, scambiare con lui uno sguardo, triste, cercare conforto nei suoi occhi belli e poi…e poi andare, oltre.

E ora, ora cerco in modo frettoloso e disordinato, dentro di me, motivi credibili di assoluzione, mettendo tutto l’animo in disordine. Non trovo niente. Niente di credibile, nessun avvocato che mi difenda, niente che valga la vita di un uomo.

Forse era già morto. Era tutto così immobile dentro ai tornanti di quelle montagne. Forse. Ma i passi non si fermano davanti alla morte? Si. Non i miei, però. Forse era ancora vivo. E ancora lo sarebbe se avessi saputo interpretare l’indugiare dei muscoli, il frenare delle ossa dentro ai miei piedi. Se avessi ascoltato il mio corpo! Se avessi dato ascolto a quel velo che mi ha scurito gli occhi di una tristezza sapiente, umana, istintiva! Sarebbe ancora vivo. Forse.

E continuo, in modo concitato, con il fiato spezzato e gesti veloci, a cercare ragioni, scuse, perdono: Cosa potevo fare! E’ pericoloso, spesso, avvicinarsi a questa gente! Posso mica fermarmi davanti ad ogni povero? Posso mica fermarmi davanti ad ogni povero….Posso mica fermarmi…posso…ogni povero…io…non posso…ogni….non posso….ogni povero.

“Secondo una prima ricognizione sul corpo il cadavere appartiene ad un uomo di una sessantina d’anni”. Spedizione di esperti sul territorio di carne d’un uomo solo. Adesso, che sei morto, ci raduniamo attorno a te. Avvoltoi coraggiosi su corpi senza vita, uomini spaventati da barriere di cartone.

Se avessi avuto, io, un cuore di cane…

Libertà va cercando…

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Or ti piaccia gradir la sua venuta: 
libertà va cercando, ch’è sì cara, 
come sa chi per lei vita rifiuta.                                        

Tu ‘l sai, ché non ti fu per lei amara 
in Utica la morte, ove lasciasti 
la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara.

Dante Alighieri, Purgatorio Canto I, 72-75

Angels

Roma, Ponte Sant'Angelo

Roma, Ponte Sant’Angelo

Palermo, Piazza San Domenico

Palermo, Piazza San Domenico

Presenza, silenzio. Omaggio ad Agnese Borsellino.

Ciao Agnese. Scrivere, riflettere, adesso, condividere a poche ore dalla tua morte, è l’idea peggiore che potessi avere. Di parole ne verrano, moltissime, alcune, la maggior parte, sincere e tanto tanto più autorevoli delle mie, alcune di circostanza, di quelle che da viva hai cercato di farti scivolare addosso rendendoti imperbeabile con la vernice lucida e trasparente del silenzio e della discrezione.

La notizia della tua morte ha destato in me profondo senso di solitudine misto a quel sollievo che accompagna l’animo quando le cose si rimettono a posto. Adesso accanto all’uomo che hai amato in vita e che questa vita ha strappato via da te e dai tuoi figli, sei nuovamente a casa. L’ingiustizia, l’assenza violenta di chi amiamo, è ciò che rende l’uomo clandestino in vita, rifugiato, senza patria .

Io non ho nessuna autorità nè competenza per scriverti. L’unica cosa che mi accomuna a te è il sangue. Sangue misto il nostro. Sangue mescolato tra popoli, si sa. Sangue versato. Il sangue nostro, mischiato a quello appiccicato alla strada, quello che macchia l’asfalto e resta lì. Fino a quando non costruiscono una lapide a perpetuo oblio. Sangue misto di vittime e di mafia. Che la prima antimafia noi siciliani la viviamo tra cervello e coscienza, lì dove si annidono le uova velenose di una cultura malata.

Agnese, quando hanno ucciso Paolo io avevo 12 anni. L’indomani mi aspettava un viaggio in macchina verso la casa al mare, le vacanze, i giochi. Mi sono preparata per quel viaggio come si preparano i bambini, ma sono arrivata alla meta del viaggio lasciando a casa l’infanzia, lì davanti alle immagini di Via d’Amelio. Quando è morto Paolo io non lo sapevo chi fosse il giudice Borsellino. Avevo conosciuto da poco Giovanni Falcone, lo avevo conosciuto attraverso le lamiere contorte della sua auto e polvere di tritolo e autostrada. Paolo Borsellino è entrato nella mia storia quel 19 luglio, quando un boato ci portò in balcone e una colonna di fumo non troppo lontana tese i lineamenti sul volto dei grandi. Aspettammo davanti alla televisione la notizia che già le nostre orecchie e i nostri occhi avevano compreso, ma non accetato. Davanti a quella diretta surreale, smarrimento. Io cosa fosse successo fino in fondo non lo avevo capito. Quello che potevo capire, però, erano gli occhi rossi di papà e quella frase a bassa voce uscita da labbra immobili per il dolore: “matri mia, ma in guerra semu!“. L’immagine di lui ai miei occhi il forte per eccellenza, così costernato, addolorato, impaurito mi fecero diventare grande in fretta, capii che da una vicenda come quella non poteva difendermi nessuno, neppure lui. Di mafia potevo morire anche io, potevamo morire tutti.

Di quei giorni non riesco a scordare il silenzio. I miei stavano in silenzio. Arrivata al mare mi sembrò che anche la spiaggia stesse in silenzio. Si leggevano i giornali. E si stava in silenzio. Al ritorno dalle vacanze, quando i miei uscivano da casa io piangevo, di nascosto. Avevo paura che scoppiasse una bomba, avevo paura che sarebbero morti, che non avrebbero fatto ritorno. Fatti a pezzi, dalla mafia. Quando uscivo con mamma per fare la spesa passavo accanto ai carri armati inviati dallo Stato, e guardando quei giovani soldati con i fucili in mano, sicura io, con tutto il rispetto per lo Stato, non mi sentivo per niente.

Tante volte ho pensato a te e ai tuoi figli. Tante volte, crescendo, davanti ai miei occhi quella colonna di fumo e quel silenzio sono tornati a trovarmi. No io non ho niente in comune con te e con la tua famiglia, non vanto nessuna lotta alla mafia, nessuno impegno civile pubblico. Io neppure vivo più a Palermo! Sono andata via per cercare lavoro, per provare a trovare me stessa. Ma da Palermo ti puoi allontanare geograficamente non certo interiormente. Palermo abita le persone non sono le persone ad abitare Palermo.

La solitudine, la rabbia che ha abitato la vostra vita io come faccio ad immaginarla, io che ne so? Cosa ne so di quanto difficili da allora sono stati i vostri giorni, come sono passati i compleanni dei ragazzi, i vostri anniversari, le cene di Natale. Io che ne so. Cosa può essere stata la tua vita dopo quel boato e quella colonna di fumo nero non lo so, non possiamo saperlo e non dobbiamo fare finta di poterlo comprendere. Perchè la finta comprensione del dolore è assai più feroce dell’indifferenza.

Io oggi voglio solo ringraziarti per esserci stata. Ringraziati per la capacità di comprendere quando tacere e quando parlare, ti voglio ringraziare per aver cresciuto i tuoi figli, per esserti sottratta al gioco ambiguo di certa stampa, delle celebrazioni di massa. Ringraziarti per le domeniche pomeriggio passate a combattere solitudine e nostalgia, rabbia e dolore. E ti chiedo scusa, scusa per chi tace la verità sulla morte di tuo marito, ti chiedo scusa per tutte le volte che penso Palermo, i palermitani, la Sicilia, il Sud come luoghi dell’inevitabile, luoghi di una cultura perversa e irreversibile, luoghi malati di un cancro inguaribile. Ti chiedo scusa per quando davanti a questo mostro fatto di economia iniqua, politica corrotta, società sfaldata, mi siedo pensando che quello che sono e quello che voglio non è abbastanza forte per sostenere la battaglia.

Nella lettera che hai scritto a Paolo per il ventesimo anniversario della sua morte ricordi le sue parole ai giovani, parole di lotta, di speranza, di fedeltà. Ricordi che la fine imminente lucidamente attesa non gli ha impedito di compiere fino alla fine il suo dovere, dovere che era per lui una sola cosa con il suo volere, a dimostrazione che la morte è davvero fatto marginale nella storia degli uomini realmente viventi. In quella stessa lettera dici di esserti sentita madre di molti, di coloro che si sanno riuniti da Nord a Sud nel ricordo di Paolo. Io ti prometto Agnese di non deporre le armi. Di cercare dentro ad ogni cosa che farò e che sarò la forza, la voglia di rimanere fedele al bene e alla giustizia.

Riposa in pace. Sostenuta insieme al tuo Paolo, prima di tutto dall’amore dei tuoi figli e poi anche dal nostro, così debole e zoppo, piccolo e impaurito. Adesso che da dove ti trovi conosci la verità e riconosci il senso del tuo patire, sostienici in questa vita, con il tuo silenzio, con la tua presenza.

Ciao Agnese.

Giulia                                                                                                               http://www.youtube.com/watch?v=daJG-BiNPZI