“La presunzione di essere niente” (Resoconto del quasi viaggio di un sasso di fiume verso il mare)

Il mare. Mare a perdita d’occhio. Si smarriscono, gli occhi: cercano punti di riferimento che le nuvole nascondono, che il vento confonde, che il sole sbiadisce. Il tempo inverte la rotta e lo spazio inghiotte il suo limite.

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Il mare gonfio di vento s’infrange sulle pietre, ora, di nuovo, ancora. Si rincorrono le onde, senza toccarsi mai, non si raggiungono, ma non si arrendono: ora, di nuovo, ancora. Su ciottoli levigati dalla tenacia di una rincorsa vana, ragazzini giocano ad acchiappar l’amore: una foto, un sorriso, le confidenze sussurrate ad ogni ritirarsi d’onda.

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Il silenzio s’impone ovunque. Lassù, dove emerge dalla terra la punta d’acciaio corten, ogni voce è catturata. Sulla strada che conduce all’altura il mare s’ingrandisce ad ogni curva, su, su, tra le ginestre d’oro, fino al 38° parallelo.

In piedi e a braccia allargate la croce di carne sfiora con le dita il sorgere del sole e il suo tramonto. Oriente e occidente s’incontrano dove lo sguardo dell’uomo contiene gli estremi. Non più dilaniati tra inconciliabili opposti, stiamo, muti, mentre tutto converge e abita lo spazio.

(38° Parallelo - Piramide, di M. Staccioli - 2010)

(38° Parallelo – Piramide, di M. Staccioli – 2010)

Né estremi a lacerare il mezzo né punti di mezzo a risucchiar futuro. La misura di ciascuno è la scoperta d’esser vivi.  Ad occhi aperti: la luce non abbaglia, il buio non spaventa. La parola si fa lieve e torna comunione, vicinanza, identità. Ovunque lo sguardo trova riposo. Nessuna lama ne trafigge il cuore.

Atelier del Mare, Castel di Tusa (ME)

Atelier del Mare, Castel di Tusa (ME)

La vita forse si ricompone, adagio?

Sulle rive di confine

(foto di  Hiroshi Sugimoto)

(foto di Hiroshi Sugimoto)

Vita mia,
non piangere, te ne prego. Non è tutto perduto. Tutto deve ancora cominciare. La notte crede di aver vinto, le tenebre assistono mute alla nostra discesa, lenta, nel ventre del mare, ma non è finita.

Io ho i tuoi occhi impressi ovunque nella mia carne e se pure i pescecani mi faranno a brandelli, tu resterai tutta intera con i tuoi occhi in ogni frammento di me. Lo so che t’avevo promesso un futuro migliore, giorni di pane e notti d’abbracci, al sicuro, Lo so. Ce l’ho messa tutta, te lo giuro amore mio. Sapevo di dover stare attento lungo la traversata, di dovermi guardare da tutti, perchè paura, fame e disperazione strappano dagli uomini il cuore, trasformando in nemici i fratelli. Ma il mare…dal mare non ci si può difendere: durante il giorno è luce accecante, che confonde la mente e brucia gli occhi e la notte è come un mostro nero con la bava alla bocca e le sue onde sono artigli da cui non si può fuggire.

Non stare in pena per me, qui sotto siamo in tanti, non patirò solitudine e disperazione, no. Della disperazione e della solitudine ho svuotato i serbatoi del mondo nei minuti che hanno preceduto la mia morte: le urla e il buio e la consapevolezza di essere arrivato troppo presto al capolinea del mio viaggio, senza di te. L’acqua fredda e il sale e l’angoscia del corpo che non sapeva cosa fare, le mani ad afferrare il mare; stringevo forte i pugni, amore, ma il mare scappava via ed io scivolavo, sempre più a fondo, in un silenzio senza appigli. Ero così stanco…ma pensavo a te, alle tue mani e al sorriso, alla prima volta che abbiam fatto l’amore, in fretta, prima che la guerra raggiungesse il nostro letto e rapisse la nostra giovinezza. Il pensiero di te mi ha reso lieve la morte, perchè la morte solo dell’amore ha paura.

Adesso cammino con le mani in tasca dentro al blu di questo cimitero fra Africa e resto del mondo e se alzo lo sguardo vedo uomini bianchi dalla faccia dura. Poveri uomini sazi, che mangiano tre volte al giorno, che non conoscono i rumori della guerra, che litigano seduti sulle poltrone degli studi televisivi. Il loro cuore è marcio ed emana cattivo odore, sono morti e puzzano più di 700 cadaveri corrosi dal sale. Poveri uomini bianchi, l’ignoranza ha rubato loro il mare e ogni volta che lo guarderanno uno dei nostri corpi salirà a galla per turbare la festa e le nostre facce senza naso e bocca, le nostre mani scure usciranno fuori dal ventre dei pesci a macchiar di sangue le loro tavole imbandite. Tu, invece, vita mia dolcissima, un giorno porterai i nostri bambini sulle rive di confine e dirai loro che in quel mare, fra le correnti e i fondali di corallo il loro papà li ha amati fino alla fine. Così il mare sarà per gli uomini e le donne dell’altra velenosa sponda segno di orrore e vergogna e per noi, invece, memoria di lotta e libertà.

Si credono forti e potenti, le loro donne hanno labbra morbide e capelli di seta, giocano con la vita e temono la morte come il peggiore dei mali. Come giocolieri fanno ruotare in aria le parole e confondono verità e menzogna, dignità e vergogna e non sanno nulla di noi. Non sanno che sulle tue labbra ruvide di sole e di deserto io ho trovato la forza di sfidare la morte, non sanno che nei grumi di polvere tra i tuoi capelli io mi sono ubriacato di vita e di speranza. Si consolano gli uni gli altri dicendo con occhi bassi e voce severa: “Cosa potevamo fare noi?”. Sono convinti che il loro buon Dio li assolverà, che non gli accadrà nulla. Ma non sanno che il loro Dio cammina qui con noi sui fondali del Mediterraneo e che il giudizio sarà senza misericordia per tutti coloro che non hanno avuto di noi misericordia.

Vita mia, luce dei miei occhi, che illuminerai per sempre il buio di questi abissi, la nostra, la mia morte non è la fine di tutto, io veglierò, insieme ai miei compagni di sventura assisterò al crollo del mondo antico, alla rovinosa frana della loro arroganza. Hanno seminato ignoranza, indifferenza e morte e il frutto che ne verrà sarà veleno ad ogni morso, cadranno così, a poco a poco. Quel giorno amore mio, te ne prego, apri il tuo cuore, salvali, abbi pietà.

Raggiungimi

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Foro Italico, Palermo

Tutto può accadere, il mare respira.

Palermo.

Ho visto la vita intera, sul mare di Palermo in un riflesso di sole.
Ora sono come un pescatore che tira in barca le reti. Tiro, sollevo, fatico, ma le reti non hanno fine. Ho le braccia stanche e le dita di sangue. Le reti sono fili di lama.
Quel riflesso sul mare della mia città mi aspettava, un’imboscata.
Ha atteso con la pazienza di un cacciatore ed ha esploso il suo colpo appena mi ha vista sotto tiro. Un minuto prima e mi avrebbe mancata, un attimo dopo e mi avrebbe soltanto ferita di striscio. Sarei scappata impaurita e la cicatrice al braccio si sarebbe amalgamata con le cellule fino a non ricordare più nulla.
La mira è stata perfetta. E non c’è cellula che possa inghiottire i segni di quell’esplosione.

Palermo di colpi ne ha sentiti fin troppi, eppure non è mai sazia. Gli scoppi di morte si perpetuano all’infinito, rimbalzano dall’asfalto ai cimiteri, dai cimiteri alle pagine dei giornali, dai giornali alle aule dei processi, come un’eco che non trova riposo.
Gli scoppi di vita non rimbalzano, invece, gli scoppi di vita entrano nel corpo e rimangono in circolo. Trasformano da dentro, giorno dopo giorno. Ci si prova a dimenticarli, si, ma invano. Non si può. Si vorrebbe affidarli al primo cumulo di spazzatura all’angolo di qualsiasi strada, è la paura di scoprirsi capaci di realizzazione, ma per quanto ci si agiti restano attaccati alla pelle.

Non c’è pensiero o sentimento, paura o sussulto del cuore che non sia intrecciato come filo di lana ad un altro, al luogo dove viviamo. Una maglia che non si può sfilare, che non può in alcun modo tornare ad attorcigliarsi come un gomitolo.
Uno scoppio di vita acceca la vista e la percezione della pienezza non è data dal comprendere o intuire cosa esattamente accadrà, ma dalla visione di una potenza possibile, qualunque sarà la sua declinazione.

L’acqua era di cristallo. Circondata di sabbia e di roccia color deserto. Qualche metro dietro le mie spalle il grigio dell’asfalto, in cielo un sole fuori stagione, inopportuno. Un insieme di opposti, un impasto impossibile, elementi differenti che pure hanno imparato a convivere in uno spazio condiviso.
Non si dimentica il disagio né la rabbia di dover abbracciare con lo sguardo, ogni giorno, la gloria e l’inferno, la bellezza e la vergogna.

La rassegnazione dura un momento. L’animo si ammala di sconfitta solo se resta incapace di viaggiare nel tempo:
lo splendore del passato, la miseria del presente, la speranza del futuro,
la miseria del passato, la speranza del presente, lo splendore del futuro,
la speranza del passato, lo splendore del presente, la miseria del futuro.
Quando s’innalzano case di pietra con fondamenta profonde in quello che fu, che oggi è o forse sarà domani, si resta prigionieri di un solo momento che si perpetua inesorabile nel tempo.

Il vento era leggero. L’acqua tremava appena e i cespugli selvaggi ondeggiavano lievi.
Palermo lotta contro i giganti. Anch’io. Non sempre dalla sua parte, ma sempre al suo fianco. Vince una volta su mille, eppure non si ritira. Vince quando la posta in gioco è bassa, a notte fonda, quando il popolo abituato alla vittoria dei giganti si è appisolato, accasciato su sacchi pieni di monete d’oro, facile bottino del più forte.

Cosa accade nella vita di uomo in un sol giorno? Dal mattino fino a sera, quante volte respinge l’assalto dei briganti, quante volte si ritrova i piedi immersi nel fango, quante volte è incoronato re, quante volte difende se stesso e sfida a duello i suoi fantasmi? Quante volte batte la ritirata e mangia il pane amaro del fallimento?

C’era silenzio. Ogni voce taceva a bocca aperta. Ovunque lo stupore delle cose, quando comprendono di poter accadere. Vedere con i propri occhi l’impossibile possibile, per un istante appena e la visione diviene esperienza e l’esperienza è la chiave che apre le porte d’ogni prigione.

Tutto può accadere. Il mare respira.

Ti scrivo ogni sera, da quasi vent’anni.

(foto di Alberto Tozzi)

(foto di Alberto Tozzi)

Ti scrivo ogni sera, da quasi vent’anni.
Nessuno lo sospetta, una donna non scrive.
Mi pensano intenta a filare la tela per Laerte, impegnata a far cose consone alla mia condizione di donna e di regina. Se solo qualcuno tra quanti mi circonda fosse veramente interessato a me, si sarebbe reso conto che per filare, sfilare e rifare mi bastano ormai poche ore al giorno, dopo tanti anni si diventa esperti nei movimenti sempre uguali a se stessi. Mi guardano con desiderio i Proci, ma nessuno realmente possiede occhi per me. Il loro sguardo è avido, nel mio corpo riflettono la propria immagine, una virilità dal sapore dolciastro di vino, unta come il grasso delle bestie che divorano con morsi ingordi.

Ti scrivo ogni sera, per nostalgia, per amore e per rabbia. La nostalgia dei tuoi occhi, l’amore per te, per la tua vita, per il tuo corpo e per la tua anima profonda come il mare sul quale ti aggiri vagabondo, la rabbia per la tua esistenza libera, per le avventure, per la possibilità di scegliere, per il pericolo sfidato a duello ogni giorno, per la tua barba incrostata di sale. A volte mi assale il terrore, quando non riesco a ricomporre, con la perfezione che vorrei, i tratti del tuo viso; ad ogni tramonto, con il sole, perdevo un po’ della nitidezza con la quale ho provato e provo a ricordarti, e se non ti ho perduto del tutto è stato perché ti ho visto rinascere e crescere ogni giorno sulla faccia di Telemaco. Se solo avessi più coraggio, se solo fossi io per prima libera dal ruolo al quale tutti mi condannano, sarei capace di elaborare un piano per liberarmi dai Proci che invadono la nostra casa e che mi rubano la vita. Certi giorni sento dentro di me la forza necessaria a compiere la strage: li abbatterei uno ad uno con la precisione di un arciere. Saresti fiero e invidioso per la lucidità con la quale ad ognuno strapperei il cuore dal petto, sempre che gli dei abbiano donato a queste belve un cuore di uomini! Si Ulisse, amore mio, li abbatterei tutti come alberi nella foresta e di rabbia e voglia di vivere me ne resterebbe a sufficienza per imbarcarmi alla ricerca di te.

Quando qualche forestiero si ferma ad Itaca in cerca di ristoro e racconta alcune delle tue gesta, lascio alla gioia libertà di invadermi il cuore di quella felicità che piove copiosa sulla speranza dei vivi in attesa, la felicità di avere notizie di te, vivo. Ma poi, quando credendo di non essere da me ascoltati raccontano dei tuoi amori, delle figlie di dei invaghite del tuo coraggio che ti trattengono fra le loro braccia e le loro gambe di giovani ninfe, la gioia lascia posto al furore della gelosia ed io vorrei liberarmi di te come dei Proci, abbatterti senza pietà e libera da ogni legame ricostruire la mia vita, una vita di poco amore e troppa attesa. Si, vorrei lasciare Itaca, il mio popolo e i doveri di regina e confondermi tra altri popoli e altre terre dove deporre le armi dell’attesa, dove l’ombra di un passato felice non mi avvolga di paura, dove l’ansia di un futuro incerto non mi costringa ad attendere albe, all’infinito; dove esiste solo il presente e la vita che possiedo davanti agli occhi, ogni giorno.

Voi, uomini, che sfidate la morte in combattimenti senza esclusione di colpi, che rischiate la vita per un insulto o un ideale o una vendetta, come se di vita ne aveste sempre in abbondanza, come se guardare la morte negli occhi fosse solo un modo per crescere in potenza e onore, fama e coraggio! Tra voi e il sangue non c’è il ritmo e l’armonia che noi donne conosciamo, voi con il vostro corpo che muta solo dall’esterno, voi  che decidete tutto e tutto distruggete, voi unica voce del potere. Le vostre ferite guariscono, i vostri tagli si rimarginano e le cicatrici sono i vostri trofei.

Ulisse mio amore e mia disgrazia, sono sicura che a tutti tu parli di me e giuri con profonda certezza che ad Itaca la tua sposa ti attende, fedele. Fai bene a giurare, Ulisse, sulla mia fedeltà, anche se ne ignori la fatica, tu…tu che neppure sospetti a quali ancore la mia fedeltà si aggrappa per resistere alle tempeste. Non al dovere Ulisse, né alla dignità di regina, non al pudore né al vincolo delle nozze, ma a me stessa Ulisse, a quello che di me vedo e scopro durante le ore infinite che trascorro nelle mie stanze, fingendo di tessere, appoggiata al telaio come fosse il timone di una nave. So viaggiare anch’io Ulisse, senza solcare nessun mare se non quello che dentro di me si agita mostrandomi terre sconosciute e paesaggi mai visti. Tu credi di sapere chi sono, ma ciò che io sono è come la sabbia che stringi nel pugno ad ogni naufragio dal quale gli dei ti risparmiano: granelli innumerevoli che scappano alla presa forte delle tue dita e che al sole luccicano, che le onde uniscono al loro passaggio e che il calore spacca, secca e separa. Io sono cose che tu non sai, possiedo volti che tu non hai mai visto.

In questi lunghi e feroci anni, la notte, dopo aver messo a letto Telemaco e atteso il russare ingordo di tutti i Proci, quando le ancelle hanno rassettato ogni cosa e gli anziani dell’isola appendono al chiodo le loro cetre, io rimango a vegliare su me stessa, a tessere la tela invisibile della mia anima, a combattere battaglie feroci con la vecchiaia che mi rapisce gli anni e la bellezza del corpo. In questo campo di battaglia io, Penelope, sono morta e tornata in vita mille volte, mutando i lineamenti di un’esistenza che per te è ormai solo un ricordo. Ulisse, uomo curioso e vagabondo, supplico gli dei che al tuo ritorno io sia per te terra ancora vergine, mistero capace di trattenerti, vicino e coinvolto. E se così non fosse, la fedeltà di cui ti sei vantato sarà quella che mi porterà lontano da te e da una vita che non può più essere mia. Tu navighi e giri il mondo, accechi i ciclopi ed espugni Troia, così cambi te stesso, così cambi me. Ed io…io vivo, vivo questo tempo di vuoto e di violenza, di povertà e dolore, Ulisse amore mio, nella speranza che la mia vita testarda possa mutare, come le onde la roccia, un giorno, anche te.

E poi spirisci

foto di Julien Mauve

foto di Julien Mauve

Ma cu si tu, occhi niuri,
funnu mistiriusu di biddizza.
Calamita ca mi scippa lu cori
di lu pettu, pi fallu scinniri
dintra lu pozzu ca si tu.

E poi, però, t’ammucci e ti nni vai
e sugnu sula, dijuna di li to paroli
ca mi danno forza e ciatu.

Ma cu si tu,
ca comu faru t’affacci
comu un mago addumi u mari di faiddi,
ca sugnu io lu mari sinza lustru di luna,
sinza stiddi.

E comu un ciuri di campu
a spiranza mi germogghia nta l’ossa
e poi spirisci.
E secca lu sangu nta li vini
e lu cori chiù un s’abbivira.

Ma cu si tu,
unna nta la riva
c’arrivi e m’arrifirschi di l’arsura
e t’arritiri
e un ti pozzu taliari
e ieccu li me mani e strinciu li pugna,
ma tu t’ammucci e un ti fai pigghiari.

Ci su i ciuri in funnu u mari

Palermo

– Io, mi chiamu Illuminata.
– Io mi chiamu, Luciu.
– E c’è u mari unni stai tu?
– Se! E ci su i pisci! E quannu c’è a luna china, cantanu.

– Lucio era un cummidianti! Quannu ci virìa ci iava sempri a vidillu. Ma pure l’orbi u virianu a Luciu! Era na festa.. Poi iu chiuria l’occhi e u sintia: “Illuminata, Illuminata, Illuminata, illuminata! Vuccuza ruci…occhi ri fata! Na canzuni d’amuri iu ti vulissi cantari, ma tu un mi senti ed io ti ti pozzu sulu taliari”. Lucio era innamuratu ra luna. Ma era lariu, era sciancatu, immurutu, aveva un brazzu sulu…e a luna unnu vuosi! Na notti si misi na varca e sinniu in mezzu u mari e un turnò, chiù.

– Chistu è u mari!
– Chi granni! Un finisci mai…
– Finisci unni finisci u cielu!
– Chi ciauru!
– Ci su i ciuri in funnu u mari… Si unu cari a mari, si vagna! U mari e comu l’acqua!-
– Cu è chiddu na varca?
– Luciu! E’ innamuratu ra luna e a voli iri a truvari.
– E picchì firrìa sempri intunnu?
– Avi un vrazzu sulu! Mischinu!
– Mischinu! E comu fa a rimari!

da Lucio di Franco Scaldati

Rivugghiu d’acqua

M’assettu nta la rina a taliari l’unni di lu mari:
rivugghiu d’acqua che cu lu ventu fa all’ammuri.
Mi grapissi lu pettu pi ghiccarici lu cori
dintra sta raggia d’acqua e sali.
Cori marturiato comu lu mari
di ventu arriminatu,
fatti ammuttari
fatti annacari comu un nutrico
fatti ncuietari mezzu la spuma.
E poi, quannu scura,
quannu u lustru n’abbanduna
torna dintra lu me pettu,
ammucciati dintra li me carni
e r’accussi u duluri
firriannu intunnu un t’attrova
e ni lassa n’anticchia respirari
l’aria nostra, di ventu, di sali.

Mediterraneo

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Mediterraneo