Una felicità a perdere

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(Foto di Laura Makabresku)

 

Oggi ho visto una scena bellissima.
L’ho vista in piazza, una fra le tante piazzette popolari che alla periferia di Palermo sanno radunare ancora la vita di quartiere nella luce dei meriggi d’estate.
Ho visto una bambina bionda di circa dieci anni. Bionda e coi capelli lunghi, coi capelli lunghi e con guance color di rame e mare.

Stava accanto ad un motorino e sul sellino c’era un neonato che lei teneva stretto per non farlo cadere. Si guardava attorno, come aspettasse qualcuno e voltandosi, da una parte e dall’altra, i suoi capelli lunghi sfioravano il piccolo, come una carezza.

E’ stata una scena tanto bella e potente che mi è letteralmente mancato il fiato. Non vi ho visto nessun riferimento simbolico alla maternità, la bambina non imitava gestualità adulte, era, anzi, un po’ smarrita, tutta protesa verso l’arrivo di chi avrebbe potuto liberarla da quel ruolo di custodia sproporzionato alla sua età.

Ma era bella, elegante, potente in quanto alla variabile di possibilità contenute nella sua infanzia e fragile rispetto alla realtà. Erano indifesi entrambi, ma fortissimi, erano piccoli, ma riempivano lo spazio con una  presenza in grado di modificare, appunto, i sentimenti, le emozioni e i pensieri dei passanti.

Sembrava di poter toccare con mano tutta la vita che è possibile avvicinare.
A guardarli proprio così appariva la vita: come un eccesso incontenibile, una felicità a perdere.

 

“La presunzione di essere niente” (Resoconto del quasi viaggio di un sasso di fiume verso il mare)

Il mare. Mare a perdita d’occhio. Si smarriscono, gli occhi: cercano punti di riferimento che le nuvole nascondono, che il vento confonde, che il sole sbiadisce. Il tempo inverte la rotta e lo spazio inghiotte il suo limite.

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Il mare gonfio di vento s’infrange sulle pietre, ora, di nuovo, ancora. Si rincorrono le onde, senza toccarsi mai, non si raggiungono, ma non si arrendono: ora, di nuovo, ancora. Su ciottoli levigati dalla tenacia di una rincorsa vana, ragazzini giocano ad acchiappar l’amore: una foto, un sorriso, le confidenze sussurrate ad ogni ritirarsi d’onda.

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Il silenzio s’impone ovunque. Lassù, dove emerge dalla terra la punta d’acciaio corten, ogni voce è catturata. Sulla strada che conduce all’altura il mare s’ingrandisce ad ogni curva, su, su, tra le ginestre d’oro, fino al 38° parallelo.

In piedi e a braccia allargate la croce di carne sfiora con le dita il sorgere del sole e il suo tramonto. Oriente e occidente s’incontrano dove lo sguardo dell’uomo contiene gli estremi. Non più dilaniati tra inconciliabili opposti, stiamo, muti, mentre tutto converge e abita lo spazio.

(38° Parallelo - Piramide, di M. Staccioli - 2010)

(38° Parallelo – Piramide, di M. Staccioli – 2010)

Né estremi a lacerare il mezzo né punti di mezzo a risucchiar futuro. La misura di ciascuno è la scoperta d’esser vivi.  Ad occhi aperti: la luce non abbaglia, il buio non spaventa. La parola si fa lieve e torna comunione, vicinanza, identità. Ovunque lo sguardo trova riposo. Nessuna lama ne trafigge il cuore.

Atelier del Mare, Castel di Tusa (ME)

Atelier del Mare, Castel di Tusa (ME)

La vita forse si ricompone, adagio?