Ti conserverò un luogo

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Giona mi dorme accanto. Attaccato, appiccicato. Caldo, vivo. Morbido, elastico. Respira tra le mie costole, soffia e mi attraversa. Io suono come un flauto di legno, un canto sottile che si perde nelle pianure del Nebraska. Ti conserverò un luogo, potrai correre come lupo!

Fuori la campagna è di fuoco giallo d’erba, verde cupo di Querce. Si muovono i Daucus.

Io pure respiro, ma non sono un fiore né un bambino.

Sul comodino Emma di Jane Austen.

In valigia un cerchietto a pois.

“Sei bella” – mi ha detto – prima di andar via.

Ho tutta la vita in gola.

 

 

 

Tutto finisce, quando finisce.

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L’ospedale è un altro pianeta.
Basta varcare la soglia per sentire mutare il paesaggio, il clima, la lingua.

In ospedale non è più né giorno né notte e non esiste né passato né futuro. Solo un presente semi incosciente illuminato a neon.

Tutti dotati di mascherina e tutti a distanza. Tranne i bambini piccoli come il mio che conservano il diritto delle narici a soffio libero e delle mani per esplorare.

Mentre sdraiato sul lettino sperimentava i primi aghi in vena, avevo solo gli occhi per dirgli che sarebbe passato presto.

Eravamo tutte mamme senza sorriso o smorfie di sgomento. Ad ogni incrocio di sguardi davamo vita ad un nuovo alfabeto senza suoni e con le sopracciglia e l’anima nelle pupille ci davamo quel che avevamo: coraggio, paura, forza, la condivisione di un’infinita, infinita stanchezza.

La pandemia in ospedale rende le madri più sole, nessuno può darci il cambio. Ho visto donne piangere per la paura di dover affrontare da sole il ricovero dei figli: avevano lo sguardo perso nell’incertezza e le braccia obbedienti alla solidità del lavoro quotidiano: carezzare, lavare, asciugare, pettinare i capelli.

Nelle sale del Pronto Soccorso appesi alla parete c’erano cani ed elefanti, orsetti e crocifissi. E mentre io supplicavo Dumbo di farci volare lontano da lì, mio figlio mi domandava cosa avessero fatto a Gesù.

In ospedale ci si “prende a cuore”. Ma in senso letterale. Sono annullate tutte le distanze sociali, culturali, economiche. Conta solo la relazione: quanto ci si interessa dei figli degli altri, quanto si permette agli altri di andare oltre la soglia della propria storia.
È un baratto di racconti, di parti difficili, di tagli cesari mai rimarginati, di notti senza sonno, di stanchezza disperata, di famiglie sfasciate, di mariti senza lavoro, di bimbi che danno tormento e preoccupazione e dolcezza e soddisfazione e “madunnuzza aiutami tu”.

Io sentivo che ogni cosa che stavo vivendo mi rimaneva appiccicata addosso, impigliata nella rete della preoccupazione. Una rete fitta, ma fatta a pezzi dal mio bambino, tagliata con la lama sottile del suo sorriso sereno che riappariva sempre, una volta finite somministrazioni e medicazioni.

Tutto finisce, quando finisce.

Sarà per questo che il suo passo restava leggero perfino nei corridoi della radiologia.

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Le luci ad accensione automatica nei bagni, i tasti illuminati dell’ecografo lo lasciavano a bocca aperta, e alla terza ecografia suggeriva lui stesso al medico cosa fare, muovendosi per la prima volta sui sentieri dell’esperienza.

L’ho tenuto in braccio, vegliato nella notte. Gli ho sussurrato all’orecchio che la “bua” passa un poco ogni giorno.
Lui mi ha tenuto stretta la mano, mi ha amata e cercata e mi ha fatto partecipe del suo sguardo nuovo e bello su tutte le cose.

Fuori dall’ingresso dell’ospedale, alla fine di questa nostra prima disavventura, c’era papà.
Dentro il suo abbraccio abbiamo continuato a guarire. Il suono ritrovato della sua voce, riparava i tessuti, leniva i bruciori. Io l’ho guardato con l’orgoglio di chi aveva saputo custodire un tesoro, lui come fossi una tigre che riemergeva dalla foresta, ferita ma salva, dopo un agguato.

Nella notte silenziosa di una città semideserta ci siamo avviati verso casa.

Ovunque gli oleandri erano in fiore.  IMG_20200405_115453

Un passero, il vento, un lupo, mio figlio.

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Djali im këndon!
Nella lingua di mia nonna e di mia madre vuol dire: “Mio figlio canta!”.

Djali im, il mio bambino, ieri ha cantato per la prima volta.
Lui ha 21 mesi e pochi giorni, pronuncia molte parole ma non articola frasi, eppure canta!

Lo ha fatto ieri, prima di andare al nido:  “…guri a te, guri a te!”. Parole storpiate su note perfette: la canzone del buon compleanno.

Era stupito e contento d’esservi riuscito, l’ho capito da come mi ha chiamata. Sì è messo dietro la porta del bagno, dentro il quale una mancata diagnosi spesso mi imprigiona e nasconde ai suoi occhi e mi ha fatta partecipe del suo successo: “Mamma! …guri a te! Mamma mamma …guri a te!”.

Sono uscita dal bagno con la faccia stravolta dal dolore, ma lui non si è preoccupato come quando mi vede star male, perché un lampo di gioia mi aveva acceso lo sguardo e i miei occhi erano in festa!

Djali im lo ha capito e si rimesso a cantare girando su stesso, senza mai togliermi gli occhi dagli occhi mentre insieme, così, giravamo il mondo!

Lo guardavo, e mi sentivo come se tutte le ferite del pianeta si potessero cicatrizzare, i bulbi fiorire all’istante, i deboli rinvigorire e risorgere i morti!

Ho trascorso la giornata attraversando il futuro per tutte le strade che riuscivo ad immaginare, così l’ho sognato con una chitarra tra le braccia, la pelle di sale, il sole nel cuore, nel corpo l’amore, che cantava in cerchio sul far del  tramonto di una spensierata estate, un po’ profeta e un po’ marinaio in tempesta, come il suo nome vuole.
E poi in auto, mentre guida solo rientrando a casa, con la radio accesa a storpiare intonato le parole di una famosa Hit.
E poi sotto la doccia, dopo una giornata di lavoro, avvolto dal vapore e da pensieri difficili da districare.
E poi guardando negli occhi il suo nuovo amore o il suo amore di sempre.
E poi mentre cucina l’arrosto la vigilia di Natale.
E poi ai suoi bambini per farli addormentare con Pale Blue Eyes dei Velvet Underground, mentre pensa o racconta che così faceva sua madre.

E’ stato come se prendendo la sua prima nota, lo avessi visto saltare sul trampolino della vita con un salto lento e altissimo, fino a vederlo scomparire dal mio sguardo, così come è giusto che accada. Mi sono emozionata, entusiasmata, spaventata ed innamorata di questo figlio ancora e ancora, stupendomi della sua esistenza, che ce lo avevo nel sangue questo figlio, nelle cellule, nei pensieri, tutto dentro la carne, tutto a riempire il cuore. Era tutto sotto le palpebre, nelle orecchie, infilato sotto le unghie, dentro ai seni, navigava nel midollo, nelle pieghe del cervello, nelle curve dell’intestino, nella radice di ogni capello, dentro le pupille gustative, nel nucleo più profondo della leucina-encefalina delle lacrime che ho pianto, temendo di non riuscire a trovarmi mai; era nelle corde vocali che ho aperto, spalancato come una finestra all’aria fresca del mattino mentre lo consegnavo, altro da me, alla Luce di un giorno di primavera!

Letteratura italiana, greca, latina, inglese e poi elucubrazioni teologiche e spirituali, ideologie, teorizzazioni.
Poi.
Poi mio figlio.
Distruttore implacabile di tutte le chimere.

Djali im këndon!
Mia nonna materna cantava sempre, forse per questo ho pensato in albanese ascoltando il primo canto di mio figlio. Cantava mentre cucinava, grattugiava il pane raffermo o puliva la verdura. Cantava in albanese, in dialetto, in italiano. Prendeva una parola della frase che le avevi appena detto e la trasformava in un canto! Cantava pregando il suo Dio, come Miriam nel deserto o il re Davide davanti l’Arca dell’Alleanza, cantava quando era triste e quando era contenta, e solo il cielo sa quanto lo abbia fatto per sopportare la nostalgia.

Quando mio figlio ha cantato io mi sono sentita… salva! Perché “Dove si canta nessuno viene derubato, i malvagi non hanno canti” (Johann Gottfried Seume).

Da quando è nato abbiamo la grazia di vivere dove arriva il canto degli uccelli: i gabbiani, i merli, le tortore, i passeri, le cinciallegre e qualche pettirosso. Passeggiamo tendendo l’orecchio: “Sshhh, ascolta!”. E lui ascolta, li cerca con gli occhi, ma non sempre riesco ad indicargli da dove arrivi quel canto. E mi pare sia proprio sensato così: da dove venga il canto che ci commuove ed emoziona nessuno davvero lo sa. E’ difatti un mistero, nonostante tecnicamente si possa ricostruire, analizzare, osservare. Un po’ mistero, un po’ miracolo, come il canto delle balene, come il sibilo del vento, come l’ululato dei lupi, come mio figlio.

(Foto di Ronan Donovan)

(Foto di Ronan Donovan)

La luna, il fuoco, una danza.

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Il mio letto è come un terrazzo. Da qui vedo il giardino e gli alberi e la luna calante. È grande e luminosa ed ha attorno un’aura splendente che in arabo si chiama “Hala”.

Accanto a me, a sinistra, dorme il mio bambino. È piccolo ancora. Non sa parlare, ma sa amare. Oggi mi ha amata con gli occhi ed una parola. Mentre ballavo i Guns N’ Roses nella sua camera e lui giocava a tuffarsi dal letto sui cuscini si è fermato e mi ha guardata, aveva gli occhi pieni di luce e sorridendo ha detto piano a se stesso: “…mamma!”.

Accanto a me, a destra, dorme il mio amore, il padre del mio bambino. Stasera ha acceso il fuoco per noi ed abbiamo cenato davanti al camino. Abbiamo parlato poco, ci siamo accarezzati molto e poi ancora.

È sabato, sono le 21.29 e noi siamo già a letto. E siamo sfiniti, a tratti impauriti, ma felici.

È davvero probabile che l’amore ci salverà tutti.

Il fiore della vita

Abbiamo piantato un mandorlo sulla placenta del nostro bambino.

Per sedici mesi l’abbiamo affidata al freddo e alla sua custodia, fino a quando non ci si è manifestato il momento opportuno.

Quando l’ostetrica che ha preparato e assistito la nascita di nostro figlio ha aperto l’involucro che la custodiva, pensavo ne sarei rimasta turbata, invece  la placenta era lì, bellissima e potente. Aveva ricominciato a sanguinare, del sangue vivo mio e del piccolo Giona, come durante la gravidanza e il parto. Dopo tutti questi mesi era ancora irrorata di forza vitale.

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Non ho faticato allora a credere a tutti i miti che ne raccontano il potere e il mistero, dai greci ai maori, fino ai giorni nostri.
Dal punto di vista della scienza, il patrimonio genetico più vicino a quello di mio figlio: perfino la medicina sembra poesia.

Ogni popolo ha la sua tradizione, per alcuni è dea, per altri drago, per altri immagine dell’albero della vita. La si usa per preparare medicamenti, la sì conserva in pozioni, la si mangia perfino, la si pianta in un luogo significativo, in ogni caso ha il compito di guarire e di proteggere.

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Il cordone ombelicale è detto “acchiappa sogni”, per questo è bene conoscere i propri desideri e dirli al cuore dopo averle dato sepoltura. Io l’ho fatto, stretta nell’abbraccio del padre di Giona. E svelare al cuore i desideri mi è parsa una grande protezione, l’inizio di una buona guarigione.

Sapevo di non volerla lasciare ai rifiuti sanitari dell’ospedale. L’avevo partorita al pari di Giona, mi apparteneva.

E proprio mentre Giona giocherellava l’abbiamo posta nella buca preparata con cura. Guardandola ho pensato: “Bene, una parte di me viene restituita alla terra”. Mi sono commossa perché sono viva ma morirò e vederne i segni è sapienza e benedizione.

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Con la terra morbida e fresca l’abbiamo ricoperta e poi piantato sopra la zolla di un mandorlo. Giona lo vedrà fiorire e portare frutto, perdere le foglie e rinascere di nuove gemme, così conterà le stagioni e i suoi anni, fino a quando non andrà per la sua strada.

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Scrivo perché credo che tutte e tutti possono recuperare questa ricchezza, perché anche il parto più medicalizzato e feroce porta con sè risorse infinite di bene che restano vive come il sangue della placenta.

Possiamo invertire il passo. Cambiare, recuperare, trasformare, ri-vivere.

La  sera Giona si è addormentato al seno. Mentre ciucciava con la mano mi accarezzava il petto, il viso, l’altro seno. Io sentivo il suo fiato addosso: “Se non è questo lo Spirito Santo” – ho pensato. Intanto dal mio corpo il sangue del mestruo e mi sono sentita viva e forte, selvatica, nonostante la stanchezza, le ferite, il sonno, la paura della vita.

Il corpo, la terra, le viscere, il sangue, l’amore.

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Quando l’embrione sta per cominciare la sua seconda settimana di vita, ha inizio il processo d’impianto che dura 3 o 4 giorni; si conclude generalmente entro il dodicesimo giorno. Sì forma il sacco amniotico, che funge da culla per l’embrione, mentre avviene la fuoriuscita del trofoblasto che si aggancia all’endometrio addentrandosi al suo interno e costituendo la Placenta, il mandala o fiore della vita.

Robin Lim, “Il chakra dimenticato. Il libro della placenta”.

La gioia viva

I pini hanno gli aghi
che pungono i piedi.
Il silenzio è una casa,
bella! Più di quel che credi.

Ci abita dentro il respiro di mamma,
Il latte, la notte, la luna, la nanna.
Ci abita il sole cocente del giorno
i baci, l’amore, l’andata e il ritorno.

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Fra gli alberi cresce la nostalgia
dalla mamma mi allontano
ma senza andar via.
Inseguo i grilli, le formiche veloci
Il vento leggero
le foglie
un sentiero!

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La luce fa tremule tutte le cose
la mamma e me
le piante odorose.

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Mi sporco e mi lavo
sono selvaggio
per crescere bene
ci vuole coraggio!

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La mamma lo dice:
papà bambino
giocava qui ed era felice!

E la gioia resta viva
perfino sulla pietra.
La cerco, la trovo
mi avvolge come un manto.
Guarda come è bello!
E restami qui accanto!

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Lo stretto necessario

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Per me questa foto è bellissima.

Perché noi siamo piccoli e tutto è grande.

Perché io mi prendo cura di te e tu mi guardi.

È bella questo foto, antica e vergine.

Un oleandro rosa, tutto l’amore, lo stretto necessario.

 

Per ogni luna crescente e calante

@nynkelocher

@nynkelocher

Provo a scrivere  questo post dal 7 luglio. Da quando sono entrata in bagno pensierosa e stanca e ne sono uscita in lacrime alla ricerca urgente del più importante degli abbracci.

Mi scorrevano fiumi di lacrime dagli occhi e un rivolo di sangue nuovo tra le gambe.

Il capoparto è la prima mestruazione che arriva dopo aver dato alla luce. E non ha una data per nessuna donna. Ad alcune arriva subito, per altre ci vuole qualche mese, per me ce ne sono voluti quindici. Circa 450 giorni bianchi come il latte del mio seno.

Avevo immaginato questo momento in ogni modo, raffigurandomi la fatica di ricominciare. Avevo paura e insieme desiderio di tornare ad avere un ritmo, di uscire da un tempo tutto dedicato, senza sbalzi, di ricominciare a rincorrere cime, trovando un varco d’uscita dalla mia  lunga faticosissima pianura.

Ho visto il sangue e sono scoppiata in un pianto di liberazione. Mi sentivo come se stessi tornando da un lungo viaggio, come se facessi io stessa ritorno a me stessa. Ero Itaca, Ulisse, Penelope e il mare.

È stato un ciclo lungo ed abbondante e senza dolore. L’indomani mattina mi sono svegliata con sangue dappertutto: sulle mutande, sul pigiama, sulle lenzuola, sul coprimaterasso e sul materasso. E quando sono tornata dal bagno ed ho ho trovato il mio uomo con una spugnetta che canticchiando cercava di smacchiare il possibile e mio figlio che saltava contento fra le lenzuola battezzate dal sangue nuovo, ho deciso che volevo fare una festa.

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Ho invitato le donne a me care, non tutte quelle che avrei voluto, ma alcune a mo’ di rappresentanza. Sono venute accompagnate ciascuna dal frutto del proprio sangue, non solo figli, ma amori, dolori, vita da raccontare e condividere. Le ho viste passaggiare nel nostro giardino e mangiare alla nostra tavola, erano bellissime ed ho provato una grande gioia a pensare che il mio sangue ci avesse riunite così. Ho ricevuto fiori, dolci soffici come nuvole, vino e molto amore.

Allora ho potuto attraversare la paura ed arrivare fino al “capo” di questo tratto di vita che è il diventare madre, fino a quel promontorio che sporge estendendosi sul mare e che è da sempre la fine e l’inizio dei viaggi epici. Il capoparto come il Capo di Buona Speranza, come Capo Horn, Nord, come Capo Passaro. Inizio e fine di un mondo. L’inizio di un tempo sacro e benedetto che non è per la procreazione e che ha un limite visibile, un confine sottile che annuncia nuove terre da esplorare. Chi sarò, come diventerò, quali potenze inespresse ci sono in me, quale forza ho da scoprire, che tipo di donna posso nuovamente diventare, cosa desidero davvero, verso dove e con chi voglio navigare.

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È benedetto il frutto del grembo di una donna, ma è benedetto soprattutto il grembo che compie gli stessi cicli, che funziona in modo eguale, ma che non fa mai una cosa simile. Una diversità moltiplicata per quanto lunga e larga si estende la vita di una donna e poi per le vite di tutte le donne, da Eva alla Madonna, sempre, per ogni luna crescente e calante, in ogni cielo, finché esiste il mondo.

Clorophilla, italian artist

Clorophilla, italian artist

Luglio per i secoli dei secoli

La Luna del 9 di luglio, A.D. 2019

La Luna del 9 di luglio, A.D. 2019

Cena finita,
raccolte le briciole.
Caldo, grilli e cicale.
La Luna è a metà,
aperta, mancante, lucente, bellissima.
Colmi i nostri pensieri.
I cani hanno mangiato,
le piante hanno bevuto,
siamo una comunità
e aspettiamo la notte.
Una tregua.
Rinunciamo al letto, a lenzuola in fiamme,
restiamo fuori,
due sdraio vicine.
Io col seno scoperto
per nutrire il più piccolo del micro cosmo che è la nostra casa:
Un sogno faticoso che non finisce di realizzarsi
aperto, mancante, lucente, bellissimo.
Io leggo, lui dorme.
La sua testa sul braccio,
un impasto di pelle e sudore:
Amore mio, sei il mio pane quotidiano,
ti mangio come fossi Gesù,
il Salvatore,
Figlio di Davide, pietà!
Dai vialetti del giardino
tu arrivi muto.
Hai rimesso a posto ogni cosa,
ricomposto il mondo perché possa ricominciare per noi un domani felice.
Ti siedi accanto,
sospiri.
Chiudi gli occhi, giri la testa, apri gli occhi, ci guardi.
Li richiudi, ti rigiri.
“Giulia…”
“Sì?”
“Io vi amo”.

Per i secoli dei secoli.
Amen.

Ora.

Il mondo, mio figlio.

Il mondo, mio figlio.

La tua nascita ha disintegrato ogni cosa. Tu sei il mio disordine che non posso rimettere a posto. Tutto è da ricollocare, rivalutare, risignificare ogni giorno, ogni momento. Del “prima” ho perduto il bagaglio. Non ho abiti di ricambio, rifugio, riparo.

Ho perduto la strada che conoscevo, le parole che avevo imparato, sono straniera nel corpo, ovunque.

Da un anno siamo fabbri, carpentieri, falegnami del nostro mondo nuovo. Io, tuo padre, tu. Accampati ai piedi delle nostre montagne interiori, tentiamo scalate, cerchiamo appigli su cui puntare i piedi, affidare il nostro peso e i nostri slanci.

Quel che ti serve lo imparo con te. Ti nutri dei miei errori ma per ogni sentiero ben preso aumenti il passo verso la strada che sarà la tua. Porterai addosso le cicatrici dei miei sbagli e farò cose che nutriranno la tua rabbia e il tuo desiderio di separarti da me. I miei sbagli, viatico per la tua indipendenza.

Torna a baciarmi, però.

Invento parole nuove, un vocabolario di tenerezza e sangue, con pagine bianche di silenzio, di sconforto senza sillabe, di stanchezza e paure da ammutolire il cuore.

Studio. Osservo. Ti guardo, ti amo.

Mi chiami, mi ami, mi ciucci, mi baci.

Sei il mio laboratorio di nuove alchimie. Quel che vivremo insieme sarà la nostra dimora, mai finita del tutto, mai posseduta davvero. Saremo nomadi, viaggeremo con bagaglio leggero, ti porterò ovunque mi sarà possibile, fino alla cima della torre di Babele, dove si moltiplicano lingue e differenze, dove nulla è assoluto, unico, rigido, onnipotente.

Non ci sarà anfratto del mondo che ti riparerà dalle fratture umane, dai crolli, dalla terra che trema sotto i piedi della tua vita, nessun nascondiglio in tutta la crosta terreste o la volta celeste.

Bisogna rompersi per sopravvivere, spezzarsi come fa il pane, come fece il Nazareno, diventare briciola, farsi trasportare dal vento su altre terre. Da lì ricominciare.

Dimmi quel che non so, portami dove non vedo. Tu conosci già quel che io farò fatica a comprendere.

Sono tua madre. La tua ricchezza, la tua povertà.

Io ti darò il mondo, tu me lo spiegherai daccapo, rinnovato, diverso.

Imparo sulla tua pelle ad essere madre. Fuori da ogni metafora. Siamo sfollati, fuori dai paragoni, dagli esempi, dalle comparazioni. Tutto è quel che è. Senza scampo né inganno né bugie.

Prendimi per mano ora, non quando io sarò anziana e tu un uomo. Prendimi per mano ora che io sono giovane e tu bambino. Prendimi per mano ora che non parli, ora che sei tutto istinto e fame, potenza e corpo. La strada la conosci tu. È la pienezza del tempo, adesso.

“Bisogna seguire il bambino, è lui il maestro” (Maria Montessori)