Stralunata

Patti e Jackson Smith

Patti e Jackson Smith

La sera, perfino la sera quando senti che stai per morire di stanchezza, spettinata e in pigiama, stralunata e tramortita. Perfino quando hai dolori e pensi: “Fottiti malattia del cazzo…però aspe’ non mi ammazzare per favore”, perfino quando non riesci a scrivere per mesi, a pensare per settimane, a parlare per giornate intere e perfino quando il bagno è social e la solitudine bandita, perfino allora stare con il tuo bambino può essere Rock and Roll.

Io l’ho capito oggi, quando ho visto la foto di Patti Smith con il piccolo Jackson e gliel’ho subito inviata alla mia amica Valentina la foto, ma le ho solo saputo dire: Vale, Vale, Vale!!

Stasera invece, mentre veglio sul mio bambino che dorme in macchina, che pare di pasta di mandorla per quanto è bello, proprio qui in un parcheggio del supermercato al tramonto, capisco.

Patti e Fred avevano comprato una barca per vivere sul mare e pescare i gamberetti. Poi Patti ha scoperto d’essere incinta. E allora la barca l’hanno messa in giardino e ci andavano a leggere e a prendere il thè.

Perché bisogna essere morbidi, avere sogni morbidi, flessibili, rimodellabili. E avere un’officina nel cuore e cercare la poesia come fosse pepita d’oro, con l’amore per setaccio, l’amore e il desiderio, desiderio ovunque: dentro, fuori,sulla pelle, sul cuore, in testa, sui genitali, sulle mani, nello stomaco, in mezzo ai piedi.

Lo devo dire a Valentina.

 

It takes a year (Il primo compleanno!)

Non c’è stato né mai ci sarà un anno simile a questo. Il primo della tua vita e il primo della mia maternità.

Alla fine dei nove mesi e un giorno eravamo pronti, ma acerbi. Dovevamo maturare insieme, al calore dei nostri corpi, bagnati da lacrime nuove, riparati all’ombra di tuo padre.

Siamo cresciuti intrecciati, impastati, mescolati, diversi ma uniti. E mentre tu cambiavi lineamenti ed espressioni, pur rimanendo identico a tua nonna e suo figlio, mutavo anch’io, lasciando ovunque brandelli di vecchia pelle, asciugandomi nel corpo, aderendo alle ossa,
sottile e forte,
stremata e forte,
debole e forte,
forte.

Il mio seno è stato la tua casa, il solo rifugio che ti riparasse dal freddo, dal pianto, dalla fame, dalle ingiustizie che da subito non sono riuscita ad evitarti, dalle malelingue, dalla tristezza, dalla prepotenza di un mondo che ci chiedeva d’esser presenti, disponibili subito, sorridenti, autonomi, efficienti.
Ma noi siamo rimasti a navigare lenti nel nostro mare di sangue nuovo e vita fresca, a fiumi: tra le gambe il tuo parto, la mia ferita che non può guarire, quella porta oramai attraversata, tu nato, io nata.
E stretti stretti ancora, pure nell’attesa più inattesa, il freddo e il tremore simile alla morte e il terrore allo stomaco, il cuore svuotato, il seno riempito: il latte.

È arrivato con una potenza inaudita, sembrava sgorgare dalle viscere della terra, il mio petto come un vulcano. Da allora abbiamo trascorso ore uno attaccata all’altra, di giorno, di notte, di giorno, di notte, sempre. Dormivi sul petto come un uccellino e sotto le coperte ci siamo scambiati sguardi che rimarranno nostri e segreti per sempre. Le notti in cui piangevi senza sosta ti spogliavo, nudo, mi spogliavo, nuda, pelle sulla pelle: “Mamma è qui, mamma non se ne va”.
Te lo ripetevo con convinzione profonda, naturale, istintiva e mi sentivo crescere le radici. Così sono diventata un albero che neppure il più funesto degli uragani può sradicare lontano da te.

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Ho pensato continuamente: muoio di stanchezza, di sonno, di smarrimento, di solitudine, muoio d’amore, di felicità, di tenerezza.
E sono morta, infatti, mille volte. E poi risorta, mille volte.

Ti abbiamo visto crescere come un prodigio, ti si è accesa la vita negli occhi, nei gesti, nelle gambe, nei passi ed allora ho capito: per te tuo padre ed io non siamo stati che una scintilla.

Ami l’acqua, l’aria, la luce.

E chiami a te quel che desideri. Anche se sei ancora muto, il tuo corpo è tutto parlante, è un alfabeto di cellule che si moltiplicano, di connessioni che si accendono veloci ogni secondo.

Dal chicco di riso sulla tavola alla nave che vediamo entrare in porto, ogni cosa è un grido di stupore, un indice puntato, il desiderio di un nome come Adamo nell’Eden.

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La notte tocchi me e poi tuo padre, me e poi tuo padre, come la bacchetta di un metronomo che scandisce il tempo e il buio. E ancora oggi, a dodici mesi compiuti, ti svegli dopo appena una manciata di sonno lasciandomi digiuna di riposo, una poltiglia d’amore e stanchezza. Senza aprire gli occhi mi cerchi con la mano, mi accarezzi, mi colpisci, mi respiri, il tuo fiato sul naso, sugli occhi e sulla bocca risana tutte le piaghe del cuore.

Per nove mesi mi hai condotta dentro il buio più nero delle mie paure, hai illuminato tutto perché potessi vederne il fondo. Nascendo mi hai fatta animale, mi dimenavo in acqua nella morsa della vita che viene, l’istinto delle viscere, le grida. Mi hai aperta come un seme la zolla, come un terremoto la terra, ero polvere, natura, seme, sangue, muscoli, tendini, ossa, senza pensiero, senza divinità, senza tormento, quasi morta, tutta viva: dove il corpo è intero non c’è paura.

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Hai riempito di te ogni anfratto, angolo, spazio, buco: te sulla bocca, sul seno, negli occhi, sulla pelle, sulle braccia, sulla pancia.

Quando corri lontano ti giri, mi cerchi, mi guardi, mi ami, mi raggiungi.

Guardi tuo padre quando mi abbraccia, mi bacia, mi cura, mi sorride, mi cerca, mi trova e impari da lui i gesti degli uomini forti, pieni di grazia.

Appena nato ti portava sul palmo, adesso sulle sue spalle stai come un agnello. Mentre parla o si muove lo osservi senza perdere una sillaba, memorizzando ogni gesto. Nel presente lui è già la tua memoria. Papà ti conduce dove il mondo si svela, fra le sue leggi, tra la terra e il mare, tra gli atomi e la carne, ti inizia ai suoi misteri, ti rende curioso, coraggioso, attento e quando ti pettina con la sua spazzola sei felice come… un bambino!

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Un anno.

Ho amore per te ed ho paura per te.
Tu sei piccolo e il cuore dell’uomo è un abisso.

“Devo insegnargli a volare – mi dico – devo insegnargli a nuotare, devo insegnargli a perdere”.
Ma ti guardo assorto nei tuoi pensieri e capisco che hai già il tuo mondo interiore, il giardino segreto da seminare, i luoghi nei quali io non avrò accesso, dove ti vedrò entrare da solo, senza seguirti, senza capirti.
E allora insegnami a volare,
insegnami a nuotare,
insegnami a perdere.

Quando rientro da scuola gridi e con le mani alzate corri per casa: è il rituale della tua gioia.Quando canto mi guardi senza batter ciglio, con la bocca socchiusa e gli occhi lucenti.Che il mio canto possa restarti nelle orecchie, il mio amore negli occhi, i baci nelle mani e nel corpo tutti i “Ti amo” sussurrati da tuo padre, spargili ovunque, come un contadino che semina grano e sii paziente per coloro che non sapranno riconoscerne il valore.

Un anno.

Dopo averti dato alla luce, ancora in vasca, la mia ostetrica mi teneva stretta stretta la mano, mentre l’ostetrica dell’ospedale cominciava a lavarmi con gesti sicuri, veloci, sapienti. Non dimenticherò mai di aver compreso in quel momento la forza che può dare far comunità e farla tra donne. Benedico il cielo per ogni mano che mi ha aiutata, per ogni voce che mi ha consolata, per ogni donna che mi ha guardata e amata, per ogni madre che mi ha sostenuta e per la mia che mi ha generata. Oggi è anche la loro festa.

Sei figlio mio, nostro, loro. Figlio di chi ti ha accolto, sorriso, atteso, curato.

Il tuo cuore sia in pace.

Buon compleanno!

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(Tutte le foto presenti nel post sono di Carlo Columba)

 

 

 

 

 

…Ma invece dopo la nascita capisco il contrario (ovvero…”Nutro mia figlia”)

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Nutro mia figlia è un testo bellissimo.
Uno di quei testi che leggere è come viaggiare. Un viaggio a velocità folle tra le viscere, il sangue, il corpo, l’utero, lo sguardo, il latte di una madre.
E’ come uno scrigno, dal quale ciascuno può estrarre la sua moneta d’oro e sentirsi il re o la regina del più fantastico dei regni: il proprio corpo!
Di seguito trovate un “frammento” del testo e il link attraverso il quale potrete leggere il brano per intero (prendete fiato prima!).
Da, qui, invece, accedete all’intero progetto dal quale il brano è estrapolato. Lo ridico, è bellissimo!

 

Nascita terremoto e tempesta 
nascita non ce la faccio
madonnuzza incastonata sul muro alla mia sinistra
coraggiosa compagna santa e madre madre e santa
ti cerco a tentoni nel cuore alla mia sinistra
mi afferro a questo nostro cuore come ad un albero
e chiedo aiuto alle donne vive nel mio cuore
impasto i loro nomi fra lingua e palato
dietro gli occhi trovo la parola antica
aiuto
ho paura
non mi lasciate
fatemi vita
fatemi spazio e silenzio
fatemi luce
Continua…

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Corpo a corpo

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Allatto da quattro mesi e quindici giorni.
Allatto di giorno e di notte, col fresco e col caldo, col sorriso e nel pianto, se sto bene o se sto male.

All’inizio il mio bimbo non sapeva ciucciare. Ma ha imparato, mentre piangevamo insieme, lui di fame, io di un amore che non volevo perdere.
Ha imparato, aprendo la bocca grande che sembrava un uccellino. Bocca grande ed occhi chiusi.
E così dal 4 aprile non faccio altro che questo: allattare.

A volte mio figlio si attacca al seno perché è stanco o ha sonno o ha desiderio di stare con la sua mamma. Così ho compreso che la fame non riguarda solo le viscere.
E, poi, un’altra cosa ho capito allattando: che il dualismo non esiste. Bene, male, giusto, sbagliato, bello, brutto…Noi umani siamo tutti immischiati con tutto. E, infatti, allattare è bellissimo ed è terribile. Bellissimo come il più tenero dei sentimenti, la più selvaggia sensazione d’esser viva, il più sano degli istinti. Terribile come una stanchezza feroce, come i pianti di disperazione per il sonno che corrode il cervello e che fa dire ogni mattino: io non ce la faccio più.
Tutto mischiato, come il corpo del mio bambino su di me e l’odore acre del sudore e quello dolciastro del latte, il profumo della sua pelle nuova e quello pungente della pipì. Mischiato, come i rigurgiti sul materasso e la cacca fuori dal pannolino alle quattro del mattino. Come la gioia mischiata alla stanchezza e lo stupore allo sconforto.

Allatto da quattro mesi e quindici giorni. Il peso del mio bambino è più che raddoppiato ed io lo guardo e so che le sue cosce sono il mio latte, lo sono i suoi piedi e le sue mani, prima ferme e ora frenetiche, che mi carezzano il seno o lo afferrano per tenerlo in bocca stretto lasciandomi sulla pelle con le unghiette affilate dei cuccioli i segni della più intima e antica delle relazioni. Il mio latte sono i suoi occhi e il suo sorriso, quando si stacca un attimo per guardarmi e un rivolo di latte dalla bocca cola sulla guancia a zig zag.

Non appena la fame è saziata sul capezzolo ci poggia la faccia e dorme e affonda il naso dentro al seno. Quando posso lo lascio dormire così e dormo anche io e poi tra le mani gli trovo i miei capelli o le briciole del pane mangiato tenendolo addosso. A volte respiriamo all’unisono a volte a me manca il respiro perché il mio corpo è tutto nuovo e mi ci perdo dentro cercando una nuova strada. Quando è lui ad aver paura io faccio respiri profondi e lunghi e lui va su e giù sulla mia pancia e si placa. Ed io con lui.

Succhia il mio latte e succhia la mia malinconia, insieme al parmigiano che divoro, insieme ai miei desideri, alle paure, le ferite, le medicine, i ricordi. Fa un pasto completo di me. E il suo corpo mischia lui a me e a suo padre, ancora, anche fuori dall’utero, in una combinazione sconosciuta che la vita intera non basterà a scoprire.

La notte  dorme se gli alito addosso, come il bue e l’asinello, dormiamo poco e corpo a corpo. Cerca il seno, si attacca, dorme, si stacca, scalcia, lo riprende, si sveglia, mangia, piange, si gira, mi graffia, sorride, mi cerca, ri-dorme, ri-mangia, mi guarda.

Allatto da quattro mesi e quindici giorni e ho capito che anche per l’allattamento come per la gravidanza esiste un racconto edulcorato a misura di commercio, che ci vuole ordinate, composte e riservate, profumate di colonia, sorridenti e pettinate.

Perché spettinate e sudate coi seni all’aria, le occhiaie stanche, gli occhi lucidi e ogni imperfezione alla luce non corrispondiamo a nessun immaginario.

Che l’allattamento possa essere un’esperienza feroce lo s’impara sul campo. Ed è difficile accettare che sia così. Eppure, questo campo di vita e di battaglia, solcato da notti insonni e nuove solitudini è il solo posto dove desidero dimorare.

Lì cresce l’amore che il mio bimbo ha portato e cresce mio figlio. Lì cresco io, cresce la persona che non smette di venire alla luce nonostante lo strazio della stanchezza. Perché si può dire di essere stanche fino a vomitare senza contraddire la felicità. Si può dire che è difficile e che si soffre a vedersi diverse da come ci si era immaginate, ma che quel che si scopre è pulito come acqua di fonte.

Ogni mamma fa le sue scelte su come allattare e nutrire il suo bambino ed ogni scelta ha in se stessa tutto l’amore necessario perché il bimbo possa crescere sano e felice.

Io ho fatto la mia di scelta, e so che sono libera di trasformarla in qualunque momento senza che nessun giudizio o consiglio debba  dilaniare il cuore. Ma intanto, per trovare la forza che mi serve ogni notte quando lui mangia ed io vorrei solo dormire, lo bacio sulla testa, sulle guance, sulla bocca e prego sussurrando: Il tuo corpo non se ne dimentichi mai, resti benedetto per sempre da questi baci, da questo amore, da questa fatica. Il mio latte ti renda forte e il tuo corpo sia colmo di grazia e di ogni tenerezza. La vita sia abbondante in ogni tuo gesto come lo è il latte nel mio seno e sentiti libero d’esser debole, come mi sento io notte dopo notte, e la tua vita che cresce mi riempia di  tanto tanto coraggio. Così sia.

Questa è la mia esperienza, fino ad oggi: quattro mesi e quindici giorni.

Adesso, la vita.

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Non ho smesso di scrivere solo perché non ho più un minuto di tempo per me e se ce l’ho, dormo. Ho smesso anche perché sento di non avere al momento nulla da dire  come prima.

Mio figlio mi ha resa muta.

Adesso la vita si svolge sul piano del sentire e dell’agire, sopratutto: di minuto in minuto percepire cosa bisogna fare e farlo.
Ci vuole forza fisica, è una prova di resistenza. Forza e nervi flessibili, così come richiede la vita che cresce.

È un allenamento spietato, spesso dolce, fatto di latte che fuoriesce dal seno e macchia le magliette, fatto di occhiaie e lacrime sotto la doccia, fatto di smarrimento e di momenti imperfetti e felici.
I vestiti di prima non vanno, servono scollature buone a nutrire ovunque e a qualsiasi ora e sorrido di quelli che per farmi un complimento mi dicono d’esser magra “come prima”, perché in me non vi è neppure una fibra uguale a prima.

Io non ho la forma che avevo e neppure sento di corrispondere alla forma di mamma. Ognuna è madre a modo suo, credo, con la propria felicità indicibile e la propria ferita da rimarginare.

Esiste un’idea di maternità a cui si fa riferimento che con la realtà dell’esperienza c’entra poco. È costruita. Ma la maternità non è una costruzione, un prodotto che può esser progettato a tavolino, è corpo che s’impone, è una gioia incisa nella carne anche quando sembra che tutto vada a scatafascio. È un sentiero obbligato che si percorre, però, a modo proprio dove ci si può incontrare con altre donne se si è disposte a rivedersi in esperienze simili e a non ritrovarsi ma ad accogliere storie diverse. Dovremmo esser capaci di creare una rete sociale di solidarietà e mutuo aiuto, capaci anche di immaginare e costruire un mondo diverso. Noi possiamo. Messe a nudo davanti a noi stesse e dopo un faccia a faccia tanto intenso con la vita e con la morte, noi possiamo, se abbiamo la pazienza e l’audacia di abitare tutto quel che proviamo e non diventare le madri che gli altri si aspettano o che l’immaginario comune impone.

C’è troppa meraviglia nello sguardo dei nostri bimbi nello scoprire il mondo, per non tentare almeno di viverlo in modo nuovo.

Per questo sento che le mie parole sono e vogliono essere differenti. Cercano di dar voce al desiderio che ho di far emergere la trasformazione e di comprenderla man mano che ininterrotta continua ad accadere. Tutto è più scarno, breve, forte, vero.

E in questo laboratorio esistenziale anche “Eufemia”, inevitabilmente, è alle prese con la sua metamorfosi.

L’ultima attesa

IMG_20180206_130054All’ottavo mese di gravidanza è così che mi sento: un po’ mare e un po’ montagna. Gonfia di liquido primordiale e terra emersa dal nulla.

Più si avvicina il tempo del parto, più la sensazione è quella di inoltrarsi in una stanza segreta, dove la luce filtra appena, ma dove il buio non è tenebroso, solo sconosciuto. Il silenzio diventa una necessità, la lentezza una condizione di fatto, presente e vera al di là della volontà. Il fiato si accorcia e servono respiri decisi e profondi, il cuore diviene un setaccio: passano solo le relazioni buone, quelle di poche parole e molta, strabordante com-passione.

L’attesa si fa concreta, è di carne. Quella che si muove dentro sempre più impetuosa e crea una serie di onde che trasformano la pancia in mare.

Le idee, le teorie, perfino la propria immaginazione si sgretola. E’ una diversità costante che si fa vita quotidiana. Quello che vorresti non può essere, quello che è s’impara a volerlo, in prospettiva, nell’attesa di capire, vedere, toccare, sentire.

L’ottavo mese è stanchezza, soddisfazione e timore. La strada fatta, pesa. Alle spalle giacciono ferite a morte molte paure attraversate e sconfitte. Davanti però c’è la più difficile da vivere che non corrisponde a nessuna esperienza fatta e le abilità, le forze, le competenze per superarla bisogna credere di possederle, iscritte nel corpo, anche se non le si è mai viste. E’ una professione di fede, senza mistificazioni, nelle proprie viscere, costruita granello dopo granello nelle trasformazioni accettate, nei numerosi piccoli e grandi malesseri portati nella carne ogni santo giorno, nella pazienza delle notti ad occhi aperti e corpo dolente, senza che la felicità si allontanasse di un passo dal cuore. E’ l’affidamento di tutta intera la propria esistenza al figlio che è e che verrà, piccolo, ma capace di trovare la luce per il suo istinto vergine alla vita.

Ci si nutre di testimonianze, della sapienza di donne che quella porta l’hanno attraversata, le si scruta ed ascolta con la devozione dei discepoli, ma si sente dentro la certezza che questa esperienza che si ripete da sempre non è assimilabile, quanto già avvenuto non posso farlo diventar “mio”, perché la mia esperienza sarà diversa dalla loro pur essendo lo stesso miracoloso e concretissimo avvenimento.

E ci si nutre della presenza femminile di coloro che non hanno partorito, portatrici però di una sapienza diversa, accogliente, indispensabile, capace di ascolto e della curiosità che costringe alla riflessione, alla presa di consapevolezza nel e del momento.

L’ottavo mese è di solitudine, ma ogni abbraccio è necessario. Sono necessarie le mani del padre sul ventre, lo sguardo attento di uomo ai mutamenti del corpo e dell’animo, scorgere negli occhi amati l’attesa, accettare che sia diversa, ma sentirla autentica, audace.

Tutto il mondo e tutta la vita e perfino tutte le contraddizioni e la morte, tutto si invoca come necessario, perché non c’è parzialità che possa essere tollerata né autoinganno né autodifesa. E non si riesce a dare un nome corrispondente ad uno “schema” a nessuna divinità, perché di Dio si vuole tutto, lo si vuole maschio e femmina, potente e debole, presente e nascosto.

All’ottavo mese si comprende che ogni cosa è oramai trasformata, non importa quel che accadrà o in quale modo succederà, già ora si è altri, il maggior grado possibile di vicinanza a se stessi mai raggiunto e le madri, i padri, le sorelle e i fratelli si amano di amore più forte e la loro presenza rende coraggiosa e possibile l’ultima attesa.

La strada sconosciuta

(Foto di Carlo Columba)

(Foto di Carlo Columba)

Una volta un mio professore di Sacra Scrittura mi disse che diventando adulti prima e anziani poi il tempo comincia a trascorrere più lentamente perché s’impara a vivere, a fare il proprio mestiere, a relazionarsi alle persone, a difendersi e a dare quel che si vuole. E così che tutto rallenta e viene da questo la necessità di non smettere di leggere, interessarsi e fare cose nuove.
Nel mezzo (e un po’) del cammino della mia vita non so ancora dire se avesse o no ragione. Certo è vero, a stare al mondo piano piano s’impara e anche ad avere a che fare con se stessi piano piano s’impara. Di questo sono stata convinta fino a qualche mese fa, quando cioè è cominciata la mia gravidanza.

Da allora la strada è ignota e il cammino è incerto. Mi dicono che diventare genitori è ufficialmente diventar grandi, ma io mi sento come se fossi tornata al punto di partenza, come se tutto fosse da rimparare, daccapo. E quel che si è e quel che si ha non serve ad agire bene, serve semmai ad imparare bene, se non ci si lascia travolgere dalle paure e dalle mille voci che si scatenano alla notizia che un nuovo uomo sta per venire al mondo. Come se quello che sto vivendo potesse essere vissuto sulle orme di miliardi di esseri umani venuti prima. Non è così. Ogni volta è l’unica volta. Questo è quel che capisco.

Le esperienze è bello ascoltarle, per trovare differenze e per sentire parlare le donne, ciascuna con il proprio mistero, presente da sempre e a prescindere dalla gravidanza, per la verità. Perché alcune donne generano, ma il mistero non sboccia e altre, invece, non generano, ma il mistero le avvolge come una scia luminosa.

La gravidanza è una strada sconosciuta. E non c’è passo che si compia che lasci prevedere il prossimo. Non sai chi c’è dentro di te, come sarà e non sai come sarai tu, quale esito avrà la trasformazione che contando le settimane e affrontando i malesseri ti porterà alle doglie del parto, quando di trasformazione ne comincerà un’altra e poi, ancora, una differente non appena sarà il tempo della cura.

A volte è come rimanere sospesi nel vuoto, in attesa che il tuo corpo faccia quello che la tua volontà non può decidere né nessuna forma di controllo determinare. E bisogna nutrire la fiducia che lo farà, nonostante la paura porti a temere che così, forse, non accadrà?

Non è vero che le mamme devono essere forti, ma è vero che lo sono. Perché se moltissime cose io ancora non le so, so che non c’è modello o senso del dovere a cui sono chiamata ad obbedire.

Forse la gravidanza, oltre ai timori più ancestrali e alla gioia più viscerale, può essere anche questo, allora: un processo di liberazione. Ma esiste strada di liberazione che sia un sentiero battuto, facile da attraversare? Semmai il cammino da compiere è a ritroso, verso un’istintività quasi animale, perché è lì che devo arrivare dove tutto è cominciato, ma lo devo fare a modo mio, anzi no, eccolo il cambiamento: devo farlo a modo nostro.

MAdRI

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MAdRi è un laboratorio creativo sulla maternità. Anzi no, MAdRI è un laboratorio creativo sulla nascita. Anzi no, MAdRi è un laboratorio creativo sulla nascita, sulla maternità e sul valore dell’esperienza.
Ieri pomeriggio MadRI si è svolto a Palermo, presso la sede di Di.A.Ri.A (http://www.diariapalermo.org/), un’associazione d’Arte, Ricerca e Azione in collaborazione con il “Piccolo teatro patafisico” (http://www.piccoloteatropatafisico.it/)
Il laboratorio è stato condotto da Gina Bruno, una giovane donna, molto dolce e molto brava che fin dai primi minuti è riuscita a placare il tumulto degli ultimi dubbi che mi portavo dentro riguardo alla mia presenza lì.

Attorno alla maternità ruotano una costellazione di luoghi comuni, falsi miti, stereotipi e aspettative in parte deluse e in parte, poi, ampiamente superate. La verità è che l’esperienza ad essa legata è un esperienza senza eguali, che non si ripropone simile a se stessa qualora la si vivesse più di una volta, che somiglia a quelle di altre donne solo in piccoli pezzettini di storia e che è strettamente legata a tutta la vita della donna che si trova a farne esperienza, a partire dalla sua propria nascita.
E’ strano trovarsi a riflettere tanto intensamente su un evento che per ciascuno di noi è privo di memoria personale. Tutti veniamo a contatto con la nostra nascita soltanto attraverso una memoria mediata, quella dei genitori, di nonne, di zii o sorelle e fratelli maggiori. Eppure quel che MAdRI permette di scoprire è che gli eventi della propria nascita si portano impressi nel corpo in modo indelebile, una chiave interpretativa per comprendere chi siamo e di cosa è fatto il nostro mondo interiore.

La cosa bella è che non è apparentemente accaduto nulla di particolare per riuscire a capire tutto questo, se non il farci narratrici delle nostre storie. Gina è stata molto brava a creare un’atmosfera serena e di grande libertà, poi, ciascuna con la propria esperienza si è messa prima in ascolto e poi in gioco per condividere con le altre la storia di nascita e maternità. Abbiamo lavorato con le mani, abbiamo scritto, abbiamo cantato, abbiamo raccontato. Le esperienze di parto completamente positive sono poche, ed è bello ascoltarle: sono armoniche, fanno bene al cuore. Poi ci sono quelle che “nonostante tutto è stato una bella esperienza” e poi ci sono quelle drammatiche, da capire, elaborare, accettare. Per tutte esiste però una costante: l’ospedalizzazione della gravidanza lascia dietro di sé piccole o grandi ferite tutte da rimarginare. Certo, l’ospedale ha salvato e salva molte vite, non è questo il punto. Semmai quel che chiedono le donne è che gli ambienti, le condizioni, il personale, la degenza siano adatti ad uno degli eventi più straordinari e delicati della loro vita.

A me ha fatto impressione ascoltare le storie delle donne presenti: i loro racconti e le loro lacrime mi risuonavano nella pancia e nel cuore e mi è parso insostenibile il pensiero che quelle piccole grandi ferite date dal venire “assistite”  senza essere spesso realmente guardate, dalla solitudine, dalle luci sparate in faccia, da una posizione innaturale, dalla difficoltà di restare a contatto con il proprio corpo in mezzo a confusione, rumori, tensioni, fossero da moltiplicare per un numero veramente enorme di donne.
E’ stato molto emozionante sentire tutta la fatica nelle loro parole che uscivano a volte fluide e abbondanti come le acque che si rompono al tempo opportuno, a volte lente e sofferte come contrazioni dolorose. Ed è stato emozionante sentire che anche per me era così, lo stesso seppur diverso, ma ugualmente intenso.
La vita e la morte in atto nello stesso momento che rendono il corpo estremo e potente,
i sogni e le aspettative che si incontrano con la realtà e che sono costretti a mutare, spesso bruscamente, per stare a passo con la vita che certe volte capita proprio come vuole, senza riguardo per nessuno.

Le donne possiedono davvero una straordinaria capacità di fare rete, di creare attorno a se stesse e alle altre una sorta di protezione dentro alla quale l’altra può esprimersi con tutta la forza della propria originalità. Ma è una capacità che va riconquistata con piccole ed audaci azioni coraggiose. Si dovrebbe di nuovo uscire dalle proprie case, come in passato, per ritrovare spazi comuni di condivisione delle esperienze, di trasmissione di quella sapienza che il corpo possiede e sa donare, luoghi nei quali si possa mettere in campo la propria vita per quanto sofferta e bizzarra che sia, luoghi nei quali si possa esistere senza l’angoscia di cosa non si può o non si deve essere.

Se potete portare MAdRI nelle vostre città, fatelo. E’ un’esperienza forte e delicata grazie alla quale vengono alla luce molte e fondamentali cose, si gode del conforto che viene dalla comprensione e dall’ascolto e ci si spinge a sognare quel che il corpo sa e desidera molto oltre i modelli che portiamo addosso. MAdRI è come un viaggio, che ha assoluta e piena legittimità d’essere compiuto.