Con dita piccine

La fine dell’anno, il compleanno di Patti Smith, noi tre che partiamo per la campagna. Oramai è un rituale. Una celebrazione del passaggio, silente, ma forte.

Patti Smith

Patti Smith

Sono un tipo da incipit. Con i finali ho fatto sempre fatica e, per molto tempo, la mia resistenza estrema ad ogni trasformazione è stata eroica.

Ma le cose cambiano comunque, a volte finiscono, altre si trasformano e non c’è nulla che possiamo fare per evitarlo.

Per questo andiamo in campagna, perché in campagna s’impara che la trasformazione è necessaria alla vita, che i semi devono marcire sotto terra, le foglie cadere, gli uccelli mangiare i frutti. Andiamo per tacere e per osservare.

Giona e il pianeta terra.

Giona e il pianeta terra.

A volte penso a Patti e alle persone che ha perso: i genitori, un giovane fratello, Robert e molti altri amici nel pieno degli anni, suo marito Fred, che un attimo prima era con lei a prendere il tè, dentro la barca nel giardino di casa, che non avrebbe visto mai il mare, e un attimo dopo era cibo per i vermi.

Il lutto è la peggiore delle mancanze. Non si esaurisce mai, un boccone al giorno per sempre, anche se il tempo ne cambia il sapore e attenua l’amarezza.

Quest’anno ho imparato che il nostro modo di reagire alle cose, di accettarle, di affrontarle è davvero il solo potere che possediamo. Sembra una banalità ed è una consapevolezza che non consola quando si è nel vortice del dolore. Ma aiuta a restare saldi. A darsi il tempo, anche. A non lasciarsi portar via.

Saranno giorni di vento dal Sahara, un capodanno con temperature sopra la media, un vento che scopre e lascia dinanzi alla tragedia climatica del mondo.

A volte mi sento incastrata tra impotenza e ingiustizia.

Non potremo fare altro che aver cura del nostro bambino, lo innamoreremo degli Iris selvatici, del boschetto di querce davanti casa, dei campanacci delle vacche.

La luce della campagna.

La luce della campagna.

Guarderò Carlo muoversi tra gli alberi e cercare semi come i progenitori, mi sembrerà bellissimo e rinnoverò il senso del privilegio.

Carlo e il pianeta terra.

Carlo e il pianeta terra.

Svegliandomi al mattino, cercherò il silenzio fuori dalla finestra, l’odore delle pigne e dei licheni sulla terra. Penserò alla mia famiglia benedicendoli uno ad uno, invocherò lo spirito della forza e della sapienza. Le briciole della colazione saranno la mia Eucarestia, Giona le raccoglierà con le sue dita piccine e per ognuna che porterà alla bocca sussurrerò il mio amen.

Io che mi sveglio, fotografata da Giona.

Io che mi sveglio, fotografata da Giona.

Patti ha realizzato molti dei suoi desideri. Ha lasciato che si trasformassero nel tempo ed ha avuto una incredibile tenacia nell’attesa. Il suo compleanno mi rende felice, i suoi capelli bianchi mi danno coraggio. Al mattino lei si sveglia e trascrive i suoi sogni sul taccuino. Ed io le sono grata per ogni risveglio in cui ha dato credito a se stessa.

Noi proviamo a cominciare così, in una casa antica, con una doccia scomoda, senza TV e con una connessione scarsa. Domani andremo a dormire presto, tutti e tre in un letto e ci risveglieremo al nuovo anno facendo i conti con tutte le debolezze della sera prima.

Ma è bello pensare che l’anno sarà “nuovo”. Non sappiamo nulla di cosa accadrà, ma il desiderio non è un sentire inerme. Dovremmo dargli credito.

Patti e il pianeta terra.

Patti e l’oceano, vicino alla sua casa sul mare, comprata quasi distrutta, e risanata piano, piano, piano.

 

 

 

 

Niente

Oceano Atlantico, Portogallo.

Oceano Atlantico, Portogallo.

Questo è il racconto della mia malattia. Fino al 2016, anno in cui è stato pubblicato sul sito “Abbiamo le prove”, sito fondato da Violetta Bellocchio.

Oggi, a distanza di anni, lo ripubblico qui su Eufemia, mentre la malattia alza il tiro ed io provo a non ritirarmi sconfitta.

Nel frattempo, però, qualcosa di straordinario è accaduto. Ho dato alla luce un bambino.

Niente

Avevo ventiquattro anni e mi facevano male le ginocchia. Mi hanno detto di non pensarci e di anni ne ho fatti venticinque. Il dolore alle ginocchia non è passato, però, e il mio colon ha cominciato ad infiammarsi come le viscere di un vulcano.

Il primo medico che mi ha visitata, mi ha detto che non avevo niente. Niente. Proprio così ha detto. Lo ha fatto mentre mi porgeva la mano per congedarmi. Non ricordo più che faccia avesse. Non ci giurerei sul fatto che avesse davvero una faccia, infatti.  

Poi, una sera, questo Niente, mi ha fatta alzare dal letto, mi ha portata in bagno e mi ha fatta svenire sul pavimento freddo di ceramica bianca. 

In ospedale un medico ha affondato la sua mano al centro del mio intestino e io mi sono sollevata dalla barella urlando e piangendo. Sarebbe stato il primo di molti salti.

Mi hanno messa in lista per una colonscopia e mi hanno dimessa. Senza troppe spiegazioni.

Dopo qualche settimana per un intero pomeriggio ho bevuto due litri d’acqua con una polverina gialla dal gusto viscido e dolce. Ne bevevo un bicchiere ogni due pagine del libro che stavo studiando per il prossimo esame, a ritmo costante. Ho trascorso l’intera notte in bagno. Non avevo mai notato come fosse insopportabile la luce dei bagni, bianca, amplificata dagli specchi, violenta quasi. Al mattino presto mentre mi preparavo per andare in ospedale mi sono accorta dell’arrivo delle mestruazioni. Quando l’ho riferito all’infermiera che mi spiegava di dovermi spogliare completamente, mi ha detto: “Sei proprio sfortunata figlia mia”. Mi ha dato un cespuglio di cotone idrofilo da mettere in mezzo alle gambe e mi ha chiesto di seguirla. 

La colonscopia prevede la possibilità di aver somministrato un anestetico, perché avere un tubo con telecamera che ti attraversa l’intestino può far male. Ma a me non lo hanno fatto. Ero giovane, sembravo forte, hanno detto. Mentre sentivo il sangue gocciolare dal mio corpo giovane e forte, stringevo i pugni per sopportare il dolore del tubo che mi ispezionava. Un dolore inutile, perché nel colon non c’era Niente. Per scrupolo il gastroenterologo mi ha mandata in ginecologia, per una ecografia pelvica. Ho messo gli slip, un assorbente vero e mi sono rivestita senza riuscire a recuperare del tutto la posizione eretta. In ginecologia non mi hanno rivolto la parola, solo indicato il lettino su cui sdraiarmi, il modo in cui posizionare le gambe. E mentre io cercavo ancora di capire cosa realmente mi stesse accadendo, il ginecologo senza preavviso ha inserito la sonda dell’ecografo in vagina. Ho sobbalzato anche qui per il dolore, ricordo di aver pensato: sono morta! Ma non ero morta. Ero giovane, forte e non avevo niente, in fondo. Mi hanno ricoverata per qualche giorno, per  le mie ovaie ingrossate. Poi sono tornata a casa con una confezione di estrogeni sotto braccio e nessuna diagnosi.

Di anni ne ho intanto compiuti ventisei. Mi facevano male le ginocchia, il colon, e pure le dita delle mani. Mi hanno detto di andare da un immunoreumatologo. Ho prenotato in ospedale prima, poi  privatamente. Mi ha fatto le ecografie alle articolazioni e un prelievo per la ricerca di anticorpi. Ma non è venuto fuori Niente. A quel punto mi ha posto la domanda che sarebbe diventata il cruccio della mia giovinezza. Me l’ha fatta mentre scriveva su un foglio con penna stilografica il resoconto della visita effetuata. Io gli vedevo i riccioli bianchi e radi sulla sua testa di primario, parlava con voce sottile, con le labbra incurvate a metà tra un sorriso e uno sdegno indelebile, mi ha chiesto: “Ma lei è un tipo nervoso? Potrebbe essere un problema psicologico. Tipicamente femminile”. Avrei voluto interrogarlo approfonditamente sul significato di “problema psicologico tipicamente femminile”, invece ho preso i fogli, pagato 180 euro e sono andata via. 

A ventisette anni le mie mani in inverno hanno cominciato a diventar gonfie e viola, a ventotto è arrivato il dolore ai polsi e ai gomiti. A ventotto e mezzo camminavo spesso con le stampelle. Sono partita per un centro specializzato nella Milano delle grandi guarigioni, la terra promessa per gli abitanti del Sud, dove gli ospedali hanno le mura diroccate e si affittano in nero le sdraio per l’assistenza clandestina ai malati ricoverati. In questa clinica con il parco annesso e i pavimenti lucidi mi hanno trattenuta per cinque giorni e mi hanno sottoposta ad ogni tipo di esame. In immunoreumatologia non c’era posto, però, e mi hanno ricoverata in cardiologia. Lì ogni infermiere e ogni parente in visita mi guardava esclamando: “Oh povera, così giovane!”. Non ho ritenuto opportuno informarli di non essere cardiopatica, in fondo quella pena per me mi sembrava legittima. Ho condiviso la stanza con un’anziana signora che se le faceva addosso ogni giorno e che non diceva una parola. Io ho apprezzato il suo mutismo, speculare al mio, e ho impiegato il tempo leggendo, ascoltando musica e sognando di uscire di lì con una diagnosi ed una terapia. Una diagnosi e una terapia, “ma che razza di sogni hai”, ho detto a me stessa, un po’ ridendo, un po’ piangendo. Dopo cinque giorni e quattro notti mi hanno diagnosticato una patologia autoimmune che si chiama “Connetivite indifferenziata” e stavano perfino per somministrarmi una terapia, ma il colpo di scena degli anticorpi negativi ha fatto crollare tutto. Il risultato delle analisi non rispondeva per intero ai parametri necessari per poter procedere con i farmaci. Dunque, hanno rinnegato la diagnosi e mi hanno detto che non avevo Niente. Ho fatto le valigie, un giro al parco e sono tornata a casa.

Al san Camillo di Roma, un medico gentile dall’aria distaccata, dopo avermi sottoposta all’ennesima trafila di esami, mi ha prescritto un “farmaco biologico”, che però di biologico e sano non ha nulla, tanto che si può ritirare solo nella farmacia dell’ospedale dopo aver firmato un mazzetto di deliberatorie con le quali si declina l’ospedale da ogni responsabilità. Mi hanno insegnato ad iniettarmi questo annunciato siero magico nella coscia e mi hanno rispedita a casa, anche loro, con una borsa frigo fucsia per conservare a zero gradi la speranza della mia guarigione. Dopo la seconda puntura però i miei occhi non riuscivano a stare aperti per il prurito e il mio corpo si è riempito di bolle rosa confetto. Avevo avuto una reazione allergica alla speranza. 

Ora di anni ne ho trentasei. Ho eseguito altre due colonscopie, una gastro, tre risonanze magnetiche, infinite ecografie, molte radiografie, un elettromiografia, due capillaroscopie, molteplici e ripetute analisi di laboratorio. Facendo la spola da uno specialista all’altro, un giorno ho comprato un quaderno, ho diviso le pagine in due colonne. Su una ho scritto: “Le cose che ho perdute” e nell’altra, invece, “Le cose che ho imparato”.

Cose perdute:

La fiducia nei medici

La possibilità di gestire il mio tempo sulla base di ciò che voglio e non a seconda di come mi sento.

La sensazione di essere in forma e poter affrontare la giornata.

Vivere da sola in una città diversa dalla mia.

Lavorare a tempo pieno.

Andare in bicicletta.

Correre.

Saltare.

Dormire notti tranquille.

Mangiare quello che voglio.

Fare sport.

Viaggiare da sola.

Condividere il bagno con altre persone.

Fare progetti a lunga scadenza.

La convinzione che possa esserci una soluzione per ogni cosa.

La possibilità di improvvisare.

Cose imparate

Il dolore fisico costringe ad un silenzio che non può essere raccontato.

La necessità di avere un mondo interiore complesso e articolato, per rifugiarvisi nei momenti di solitudine.

Non irrigidire i muscoli durante le fitte, perché così gli spasmi durano meno.

Soffrire conduce o alla pietà verso gli esseri viventi o alla durezza del cuore. Meglio scegliere la prima.

Controllare di aver messo le pillole in borsa prima di chiudere la porta di casa.

Le cose normali come mangiare, andare in bagno, camminare, fare le scale sono bellissime cose da fare.

Non andare alle visite mediche coi capelli puliti, ben vestita e truccata, perché altrimenti non ci credono che stai soffrendo.

Fortificare la fiducia in quello che il proprio corpo dice, anche se il resto del mondo ti contraddice.

Se sei donna tireranno sempre in ballo il fattore psicologico. Impara a conoscerti e sii forte.

I medici maschi, anche i più illuminati, sostanzialmente non capiscono un cazzo del ciclo mestruale.

Io non sono la mia malattia. Io ho una malattia.

Quando ti senti male e pensi che muori, molto probabilmente non muori. Sii paziente e aspetta. Dopo un po’ andrà meglio.

Il dolore che diminuisce è come una resurrezione.

Non devi dimostrare niente a nessuno, non giustificarti per le cose che non riesci a fare più bene.

Non cominciare a fare l’amore se qualcosa ti fa troppo male o se ti senti molto stanca.

Se ti viene da piangere, piangi. Ma sola o davanti a qualcuno che ti vuol bene. Non in ospedale o davanti ai medici, altrimenti pensano che hai un problema psicologico tipicamente femminile. 

Se qualcuno ti ama chiedigli aiuto, digli che hai paura e che sei stanca da non poterne più.

Alla fine l’elenco delle cose imparate è visibilmente più lungo dell’elenco delle cose perdute. Ma  quello che è veramente difficile è accettare che sia la malattia a dettare la necessità di ogni cambiamento, a rivoltarti il corpo a sbaragliare il cuore, a dettar legge nella tua vita. Quello che è veramente difficile è accettare lo scarto tra quanto con fatica ti sei preparata a fare, a vivere e quello che il tuo corpo è realmente in grado di affrontare. Quello che è veramente difficile da accettare è che la malattia sia quasi invisibile, perché è così che sono le malattie autoimmuni: invisibili , conosciute poco e da pochi.  

A breve farò altri controlli, un altro giro di giostra. La malattia cambia con me e trasforma le preoccupazioni, le paure e le aspettative. Oggi, a 36 anni, la mia paura più grande e di non poter dare alla luce un bambino, di non poterlo accudire, di non poter giocare con lui, partecipare attivamente alla sua crescita. Ho paura che le difficoltà abbiano la meglio sull’amore e la morte sulla vita. Ma questo non glielo dico ai medici. Non lo dico a nessuno. In fondo sono ancora giovane, forte e non ho niente. 

 

Nella luce del mondo

Luna dei monti Iblei. Foto di @carlocolumbafineart

Luna dei monti Iblei. Foto di @carlocolumbafineart

Le notti di luna piena non riesco a dormire. È così da quando portavo mio figlio in grembo.

Da allora ad oggi ho vissuto questo cambiamento come una fatica, stanchezza aggiunta a stanchezza.

Solo con l’ultima luna ho capito che il problema non era non dormire, ma non poter restare sveglia. Avere un ritmo di vita che non mi permette di offrire una notte allo studio o alla scrittura o a un libro letto d’un fiato, al disegno a star raggomitolata a pensare davanti al camino.

Non so ancora come, ma so che qualcosa cambierà.

E questo basta perché sia capodanno.

Ma io ho anche aggiunto una casa di campagna e l’ultimo libro di Patti Smith.

Foto di @carlocolumbafineart

Foto di @carlocolumbafineart

Leggo di lei mentre mio figlio gira intorno al tavolo con la bicicletta, fuori fa buio presto, la stufa a legna è accesa e Carlo inforna le mele.

Così viaggio dai monti Iblei alla California, osservo le sue visioni e sogno di mangiare tacos di pesce insieme a lei in un locale di Santa Cruz.

Ma io non voglio essere lei. Vorrei solo essere me, come Patti sa essere se stessa.

Per questo sono felice di aver capito il senso delle notti bianche di luna il giorno del suo compleanno.

Felice di sperimentare che nel mio corpo è ancora vivo un richiamo ancestrale antico quanto il mondo.

Stamattina ho guardato il mio amore sotto i mandorli spogli, mi sembrava di scorgere i desideri del suo cuore, tutti illuminati dal sole.

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Ci sono luoghi in cui la parte più vera di noi prende il sopravvento.

Anche Patti ha il suo ed una casa a Rockaway beach. L’ha acquistata che stava appena in piedi, oggi è il suo rifugio. Fino a quando non ha potuto ristrutturarla dopo ogni tempesta correva a contare i danni. Ne trovava sempre, ma la casa è rimasta su quel tanto che serviva ad alimentare il suo sogno, la sua intenzione, la sua necessità.

Casa di Patti Smith a Rockaway beach.

Casa di Patti Smith a Rockaway beach.

Chissà quando abbiamo cominciato a credere alla narrazione che distingue il desiderio dalla necessità, la realtà dal sogno. Come se, poi, anche quello che non si può realizzare, non valesse la pena sognarlo comunque. Fin nei particolari.

Stamattina una foglia di quercia è caduta proprio mentre passava il mio bambino. Lui si è fermato, l’ha guardata fino a quando non ha toccato terra, poi si è voltato, mi ha sorriso un attimo ed ha proseguito.

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Sì guarda intorno con sguardo maturo ed è pronto a cogliere ogni segnale. Sembra più un animaletto selvatico che un bambino.

Anche lui sta imparando che il giorno del compleanno di Patti è un giorno in cui star lieti, una festa di famiglia.

Auguri ragazza mia, benedico ciascuno di questi tuoi settantaquattro anni nella luce del mondo.

Patti Smith ❤️

Il giorno del viaggio

Sam Shepard

Sam Shepard

Il ventisette di luglio è il giorno del viaggio.

Chiudo gli occhi e sono in America. L’America degli spazi sconfinati, dei cavali pazzi al galoppo, dei cieli stellati. Del silenzio. Del vento.

Con gli occhi l’America io non  l’ho mai vista. Ma ho letto Sam Shepard.

Ed ho letto Patti Smith che racconta Sam Shepard.

Ed ho visto i suoi film.

E tra un bacio al sapore di caffè e pause di silenzio sulle strade d’Europa, ne ho parlato all’uomo che amo, che ha il Kentucky selvaggio nel cuore e che si commuove per le storie ruvide d’amore e per gli alberi secolari.

Ho pianto per la morte di Shepard.

Rubo il tempo alle cose urgenti, traduco righe dei suoi testi, dall’inglese, mentre cantano le cicale di luglio e mio figlio dorme sudato e perfetto su lenzuola rosse, piene di pieghe. Un’azione inutile, tempo sottratto al dovere, che mi redime, parola dopo parola.

Sam Shepard è morto piano piano per anni, una malattia lo ha lasciato lucido e consapevole fino alla fine ed ha scritto, finché ha potuto.

Finché ha potuto si faceva portare dai figli sotto al portico di casa sua, per restare immerso nel nulla fin dove l’occhio riesce a vedere.

Non ha riempito nessun vuoto. Lo ha descritto piuttosto. E lo ha abitato come un eremita, perfino ad Hollywood.

Il ventisette di luglio è il mio viaggio nel vuoto. È la mia pratica ascetica. È il mio desiderio pazzo di spazio inabitato.

“Se hai dimenticato la brama, sei pazza”.

P.s. Guardate qui https://youtu.be/GQHs6MoJyZY

Semi tra le pietre

Viaggiamo nel tempo, ogni volta.

L'Etna

L’Etna

E torniamo diversi, più noi stessi e inadatti al mondo.

Ho cucinato torte di grano saraceno in un vecchio forno senza regolazione, Giona ha imparato a lanciare pigne oltre i muretti a secco, lavare i piatti, sedersi sul vasino, camminare tra le spine. Tu hai percorso la campagna in cerca di semi, uomo primitivo, visionario e profeta.

Foto di Carlo Columba

Foto di Carlo Columba

Siamo rimasti la sera seduti fuori, coi maglioni larghi e la kefiah al collo a farci punzecchiare dai moscerini, immobili come asceti, immersi nell’aria, nel silenzio e nel desiderio che gira come macina da mulino e dà sapore al nostro pane quotidiano.

Ci siam lavati poco, vestiti a caso, dormito mischiando calzini alle lenzuola e pigiami improvvisati ad un sogno ininterrotto, perseveranti come grilli nelle notti d’estate.

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Abbiamo attraversato l’isola per asciugare lacrime, abbracciare i vivi, seppellire i morti, portare il nostro amore agli amati ed osservare il dolore che non avvisa né risparmia. Siamo tornati alla campagna come si torna nelle tane, ci siamo leccati le ferite e baciati alla luce della luna che Giona scova sempre, di notte o di giorno, tra le fronde, i tetti, le nuvole: “Mamma ho trovato la luna e una stella!”.

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Giona impara che ci si bacia spesso e per tutto, dappertutto. Mi chiama mamma, Giulia, gioia.

Amore, amore, amore, cambiamo ancora! Con intatto timore. Mescoliamo ogni cosa, di nuovo, costruiamo futuri meticci e cresciamo un figlio animale selvatico, indomito che impari a spezzare recinti  di filo spinato coi denti.

Figlio selvatico

Chiamiamo per nome ogni dolore. Dimmi che mi ami con immutata e commossa meraviglia. Scambiamoci promesse feconde tra Acanti bruciati dal sole che affidano fiduciosi i semi alle pietre.

Foto di Carlo Columba

Foto di Carlo Columba

In campagna le cinciallegre saltellano tra i rami dei cipressi.

Hai nostalgia, tu, dei canti di uccelli numerosi sul pino grande.

Hai la vita dietro le spalle, il futuro fra i rami più alti degli alberi.

Giona è uno scoiattolo.

Foto di Carlo Columba

Foto di Carlo Columba

Siamo tornati, con bagagli di oracoli, miele e mandorle tostate.

Nostro figlio ha piccole radici sotto i suoi piedi.

 

 

 

Ti conserverò un luogo

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Giona mi dorme accanto. Attaccato, appiccicato. Caldo, vivo. Morbido, elastico. Respira tra le mie costole, soffia e mi attraversa. Io suono come un flauto di legno, un canto sottile che si perde nelle pianure del Nebraska. Ti conserverò un luogo, potrai correre come lupo!

Fuori la campagna è di fuoco giallo d’erba, verde cupo di Querce. Si muovono i Daucus.

Io pure respiro, ma non sono un fiore né un bambino.

Sul comodino Emma di Jane Austen.

In valigia un cerchietto a pois.

“Sei bella” – mi ha detto – prima di andar via.

Ho tutta la vita in gola.

 

 

 

Tutto finisce, quando finisce.

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L’ospedale è un altro pianeta.
Basta varcare la soglia per sentire mutare il paesaggio, il clima, la lingua.

In ospedale non è più né giorno né notte e non esiste né passato né futuro. Solo un presente semi incosciente illuminato a neon.

Tutti dotati di mascherina e tutti a distanza. Tranne i bambini piccoli come il mio che conservano il diritto delle narici a soffio libero e delle mani per esplorare.

Mentre sdraiato sul lettino sperimentava i primi aghi in vena, avevo solo gli occhi per dirgli che sarebbe passato presto.

Eravamo tutte mamme senza sorriso o smorfie di sgomento. Ad ogni incrocio di sguardi davamo vita ad un nuovo alfabeto senza suoni e con le sopracciglia e l’anima nelle pupille ci davamo quel che avevamo: coraggio, paura, forza, la condivisione di un’infinita, infinita stanchezza.

La pandemia in ospedale rende le madri più sole, nessuno può darci il cambio. Ho visto donne piangere per la paura di dover affrontare da sole il ricovero dei figli: avevano lo sguardo perso nell’incertezza e le braccia obbedienti alla solidità del lavoro quotidiano: carezzare, lavare, asciugare, pettinare i capelli.

Nelle sale del Pronto Soccorso appesi alla parete c’erano cani ed elefanti, orsetti e crocifissi. E mentre io supplicavo Dumbo di farci volare lontano da lì, mio figlio mi domandava cosa avessero fatto a Gesù.

In ospedale ci si “prende a cuore”. Ma in senso letterale. Sono annullate tutte le distanze sociali, culturali, economiche. Conta solo la relazione: quanto ci si interessa dei figli degli altri, quanto si permette agli altri di andare oltre la soglia della propria storia.
È un baratto di racconti, di parti difficili, di tagli cesari mai rimarginati, di notti senza sonno, di stanchezza disperata, di famiglie sfasciate, di mariti senza lavoro, di bimbi che danno tormento e preoccupazione e dolcezza e soddisfazione e “madunnuzza aiutami tu”.

Io sentivo che ogni cosa che stavo vivendo mi rimaneva appiccicata addosso, impigliata nella rete della preoccupazione. Una rete fitta, ma fatta a pezzi dal mio bambino, tagliata con la lama sottile del suo sorriso sereno che riappariva sempre, una volta finite somministrazioni e medicazioni.

Tutto finisce, quando finisce.

Sarà per questo che il suo passo restava leggero perfino nei corridoi della radiologia.

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Le luci ad accensione automatica nei bagni, i tasti illuminati dell’ecografo lo lasciavano a bocca aperta, e alla terza ecografia suggeriva lui stesso al medico cosa fare, muovendosi per la prima volta sui sentieri dell’esperienza.

L’ho tenuto in braccio, vegliato nella notte. Gli ho sussurrato all’orecchio che la “bua” passa un poco ogni giorno.
Lui mi ha tenuto stretta la mano, mi ha amata e cercata e mi ha fatto partecipe del suo sguardo nuovo e bello su tutte le cose.

Fuori dall’ingresso dell’ospedale, alla fine di questa nostra prima disavventura, c’era papà.
Dentro il suo abbraccio abbiamo continuato a guarire. Il suono ritrovato della sua voce, riparava i tessuti, leniva i bruciori. Io l’ho guardato con l’orgoglio di chi aveva saputo custodire un tesoro, lui come fossi una tigre che riemergeva dalla foresta, ferita ma salva, dopo un agguato.

Nella notte silenziosa di una città semideserta ci siamo avviati verso casa.

Ovunque gli oleandri erano in fiore.  IMG_20200405_115453

Come una silenziosa primavera

Fiori di pesco. Foto di Carlo Columba https://www.instagram.com/carlocolumbafineart/?hl=it

Fiori di pesco.
Foto di Carlo Columba
https://www.instagram.com/carlocolumbafineart/?hl=it

Viaggeremo con un camper dall’Alaska a New York,
fino all’ultimo metro del sogno.

Vedremo le balene, il Montana, i coccodrilli della Florida
i cavalli pazzi del Kentucky vicino al Ranch di Sam Shepard.
Cercheremo Patti in un café italiano della Grande Mela,
il cappelaio matto di Central Park.

Saremo sudici e felici.
Nostro figlio non andrà a scuola.
Sarà nomade. La terra nelle scarpe.
Le unghia nere di colori ad olio sui notes della lista della spesa.

Porteremo in giro per il mondo la paura di invecchiare,
una borsa frigo con le mie fiale e
gli incubi notturni si sgretoleranno sotto i piedi del gigante “Presente”.
Rinasceremo e moriremo ogni giorno, come una silenziosa primavera.

Avremo la leggerezza di chi ha fallito tutti gli obiettivi,
mancato ogni profezia.
Avremo punti di riferimento nella stratosfera, in angoli di universo
che nessun calcolo potrà ipotizzare.
Saremo i pastori di un solo agnello, con la speranza
di vederlo andar via, saltellando..

Leggeremo libri, ci scambieremo baci, morsi alle fragole, pesche nel vino e
massaggi di labbra e di mani ai piedi gonfi di passi.
Andremo in cerca di eremiti e poeti, ragazze madri e galeotti
comporremo elegie con la vita che avremo mietuto, gialla come il grano di giugno.

Festeggeremo come un “rito perenne”, il giorno in cui ci siamo guardati,
il concepimento del piccolo profeta, il parto che mi ha dato occhi di animale selvatico.
Non ci saranno compleanni, la linea del tempo avrà abbandonato la tangente,
Bohémien chissà dove.
Non tornerà mai più.

Guarderemo di tanto in tanto le nostre tristezze, per poi riporle con cura e integre
in preziose scatole intarsiate a mano.
Porteremo al collo, ai polsi e alle caviglie gli affetti più cari.
Tintinneranno ad ogni nostro passo di danze gitane, ad ogni braccio teso al saluto.

Noi finiremo.

Il nostro giardino sarà felice per sempre.

Un passero, il vento, un lupo, mio figlio.

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Djali im këndon!
Nella lingua di mia nonna e di mia madre vuol dire: “Mio figlio canta!”.

Djali im, il mio bambino, ieri ha cantato per la prima volta.
Lui ha 21 mesi e pochi giorni, pronuncia molte parole ma non articola frasi, eppure canta!

Lo ha fatto ieri, prima di andare al nido:  “…guri a te, guri a te!”. Parole storpiate su note perfette: la canzone del buon compleanno.

Era stupito e contento d’esservi riuscito, l’ho capito da come mi ha chiamata. Sì è messo dietro la porta del bagno, dentro il quale una mancata diagnosi spesso mi imprigiona e nasconde ai suoi occhi e mi ha fatta partecipe del suo successo: “Mamma! …guri a te! Mamma mamma …guri a te!”.

Sono uscita dal bagno con la faccia stravolta dal dolore, ma lui non si è preoccupato come quando mi vede star male, perché un lampo di gioia mi aveva acceso lo sguardo e i miei occhi erano in festa!

Djali im lo ha capito e si rimesso a cantare girando su stesso, senza mai togliermi gli occhi dagli occhi mentre insieme, così, giravamo il mondo!

Lo guardavo, e mi sentivo come se tutte le ferite del pianeta si potessero cicatrizzare, i bulbi fiorire all’istante, i deboli rinvigorire e risorgere i morti!

Ho trascorso la giornata attraversando il futuro per tutte le strade che riuscivo ad immaginare, così l’ho sognato con una chitarra tra le braccia, la pelle di sale, il sole nel cuore, nel corpo l’amore, che cantava in cerchio sul far del  tramonto di una spensierata estate, un po’ profeta e un po’ marinaio in tempesta, come il suo nome vuole.
E poi in auto, mentre guida solo rientrando a casa, con la radio accesa a storpiare intonato le parole di una famosa Hit.
E poi sotto la doccia, dopo una giornata di lavoro, avvolto dal vapore e da pensieri difficili da districare.
E poi guardando negli occhi il suo nuovo amore o il suo amore di sempre.
E poi mentre cucina l’arrosto la vigilia di Natale.
E poi ai suoi bambini per farli addormentare con Pale Blue Eyes dei Velvet Underground, mentre pensa o racconta che così faceva sua madre.

E’ stato come se prendendo la sua prima nota, lo avessi visto saltare sul trampolino della vita con un salto lento e altissimo, fino a vederlo scomparire dal mio sguardo, così come è giusto che accada. Mi sono emozionata, entusiasmata, spaventata ed innamorata di questo figlio ancora e ancora, stupendomi della sua esistenza, che ce lo avevo nel sangue questo figlio, nelle cellule, nei pensieri, tutto dentro la carne, tutto a riempire il cuore. Era tutto sotto le palpebre, nelle orecchie, infilato sotto le unghie, dentro ai seni, navigava nel midollo, nelle pieghe del cervello, nelle curve dell’intestino, nella radice di ogni capello, dentro le pupille gustative, nel nucleo più profondo della leucina-encefalina delle lacrime che ho pianto, temendo di non riuscire a trovarmi mai; era nelle corde vocali che ho aperto, spalancato come una finestra all’aria fresca del mattino mentre lo consegnavo, altro da me, alla Luce di un giorno di primavera!

Letteratura italiana, greca, latina, inglese e poi elucubrazioni teologiche e spirituali, ideologie, teorizzazioni.
Poi.
Poi mio figlio.
Distruttore implacabile di tutte le chimere.

Djali im këndon!
Mia nonna materna cantava sempre, forse per questo ho pensato in albanese ascoltando il primo canto di mio figlio. Cantava mentre cucinava, grattugiava il pane raffermo o puliva la verdura. Cantava in albanese, in dialetto, in italiano. Prendeva una parola della frase che le avevi appena detto e la trasformava in un canto! Cantava pregando il suo Dio, come Miriam nel deserto o il re Davide davanti l’Arca dell’Alleanza, cantava quando era triste e quando era contenta, e solo il cielo sa quanto lo abbia fatto per sopportare la nostalgia.

Quando mio figlio ha cantato io mi sono sentita… salva! Perché “Dove si canta nessuno viene derubato, i malvagi non hanno canti” (Johann Gottfried Seume).

Da quando è nato abbiamo la grazia di vivere dove arriva il canto degli uccelli: i gabbiani, i merli, le tortore, i passeri, le cinciallegre e qualche pettirosso. Passeggiamo tendendo l’orecchio: “Sshhh, ascolta!”. E lui ascolta, li cerca con gli occhi, ma non sempre riesco ad indicargli da dove arrivi quel canto. E mi pare sia proprio sensato così: da dove venga il canto che ci commuove ed emoziona nessuno davvero lo sa. E’ difatti un mistero, nonostante tecnicamente si possa ricostruire, analizzare, osservare. Un po’ mistero, un po’ miracolo, come il canto delle balene, come il sibilo del vento, come l’ululato dei lupi, come mio figlio.

(Foto di Ronan Donovan)

(Foto di Ronan Donovan)

Non ti spaventare mai.

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Patti Smith gira il mondo, dal Giappone alla Francia, dall’Inghilterra alla Tunisia. Cerca le tombe degli scrittori, dei poeti, delle grandi voci femminili dell’arte e della letteratura. Pulisce le lapidi, toglie la polvere e le incrostazioni che la pioggia lascia sulle foto, mette fiori freschi, scatta con la Polaroid un ricordo e scrive versi di gratitudine.

Al cimitero, in questo 2019 che si chiude, io ci sono stata due volte. Ad aprile ho seppellito mia nonna e a dicembre la madre del mio amore.

Di mia nonna so dire poco. Non l’ho ancora pianta la sua morte. Ma so che lei aspetta con pazienza le mie lacrime e il mio addio. Sa che sono infinitamente stanca e provata e che non posso piangere, che mi servono acqua e sale per restare a galla. E, ne sono certa, è sicura che a galla ci riuscirò a stare.
Patti sarebbe affascinata dall’infanzia di mia nonna, vissuta tra le strade di un piccolo paese vicino al mare, sette fratelli una piccola casa, profumata ogni giorno di pane e di buccellati, zucchero e fichi a dicembre. La starebbe ad ascoltare mentre le racconta del suo lavoro al manicomio, quando sulla terrazza stendeva le lenzuola dei malati ad asciugare e si aggiustava i capelli che il vento scompigliava cercando di mandar via dal bucato l’acqua in eccesso e la disperazione di quel luogo. Il nonno passava di sotto in bicicletta, dando voce al campanello che risuonava come una melodia d’amore in una Palermo ancora silenziosa. Lei si riparava gli occhi dal sole per guardare meglio il nonno, lui salutava, lei sorrideva. Poi il nonno le scrisse una lunga lettera, “E che c’era scritto Nonna?”, a distanza di sessant’anni rispondeva ancora: “Le sue cosuzze”, custodendo integro il segreto del loro amore per sempre giovane.

Disegno di Zhera Dogan

La mano di Fatima, disegno di Zehra Dogan

E se potessi portare a Patti una fetta della mia torta all’arancia per il suo compleanno, mi siederei sulla sua poltrona di pelle scansando il gatto e le direi che la nonna mi manca e che non riesco a pensarla senza sentire uno strappo al cuore che non posso sopportare. Le racconterei dell’ultima volta che l’ho vista, ormai a letto e apparentemente senza memoria del presente. Ha aperto gli occhi su mio figlio e gli ha mandato dei baci con la mano che immagino siano arrivati al piccolo come benedizione perenne. Glielo racconterei cercando il conforto che le donne più giovani dovrebbero poter ricevere dalle più anziane, una volta liberate dallo stereotipo crudele che ci vuole nemiche, anziane contro giovani, brutte contro belle, grasse contro magre, madri contro donne senza figli. Una follia, una bugia, una violenza.
Io mi butterei tra le braccia di Patti, e le chiederei di raccontarmi della sera in cui consolò l’insicurezza di Janis Joplin o di quando passava la notte a disegnare sui pavimenti sudici del Chelsea Hotel, mentre i suoi sogni si trasformavano tutti e velocemente senza mai tradirsi o tradire.

La madre del mio amore è morta il primo giorno della novena di Natale. Io la conoscevo da poco anche se nel suo mito ci ero cresciuta e mia sorella porta il suo nome. Con mia madre ha condiviso un anno di viaggi verso una scuola sperduta sulle Madonie. Viaggiavano in tre, con la neve, con il vento, con il caldo. Durante il viaggio lei che era la più anziana coi figli ormai grandi dispensava consigli a chi, come la mia mamma, aveva una bimba piccola ed una appena nata, io. Nessuno avrebbe potuto pensare che un giorno quella bimba appena nata avrebbe corrisposto l’amore del suo primogenito dando vita ad una storia che Patti capirebbe senza troppe spiegazioni con quell’animo di animale fantastico che le è stato dato in dono.
Mio figlio somiglia tanto a sua nonna paterna. Ha le stesse sopracciglia e le stesse espressioni, lo stesso labbro inferiore e lo stesso carattere forte. Non era una donna semplice, la madre del mio amore, un po’ l’ho capito ed un po’ l’ho saputo, ma la fedeltà che ha avuto verso se stessa è per me insegnamento ed eredità.
Anche in questo caso Patti avrebbe ascoltato con devozione i suoi racconti della guerra, di una Roma assediata, della fame, della miseria, della paura e della dignità. L’ho conosciuta poco e per poco, ma i racconti che mi ha fatto di quei tempi io non li scorderò finché avrò vita. I testimoni delle guerre non dovrebbero morire mai: l’attesa del padre, capitano dei Vigili del Fuoco, alla fermata del bus senza nessuna certezza di vederlo tornare, la madre incinta che piangeva al pensiero di come nutrirsi per poter allattare quel figlio che stava per arrivare, quella bomba caduta sul palazzo di fronte al loro, dove una madre che aveva appena partorito e non poteva correre ai ripari è rimasta sotto le macerie insieme alla sua bambina, davanti ai loro occhi che quasi non sapevano più piangere. Per aver superato e raccontato tutto questo io le sarò per sempre grata.

Patti Smith, autoritratto.

Patti Smith, autoritratto.

Il compleanno di Patti è da anni oramai il mio personale capodanno, quel giorno denso di sentimenti e bilanci, di paure e speranze, con un nodo in gola ed il cuore che trema dinanzi all’esistenza che procede senza farsi dominare. Quest’anno, per me quello della resistenza e della vita e della morte avvinghiate fra loro, è così che l’ho voluta celebrare la mia Patti, raccontandole idealmente di queste due donne, di una letteratura orale che resta scritta nella vita delle persone, del mio giro del mondo dentro alle storie incrociate, delle mie passeggiate lungo i viali dei cimiteri della mia città, dove non c’è modo di ripararsi dalla morte che circonda.

Ma una volta, la madre del mio amore, raccontandomi di alcune sue dolorose vicissitudini matrimoniali, mi ha preso la mano fra le sue e mi ha detto: “Non ti spaventare mai, noi ragazze ce la caviamo sempre!”. Questa solidarietà e questa confidenza sono nel mio cuore un argine alla morte.

La condivisione della propria vita accorcia le distanze e crea legami indissolubili. Non importa se questo avvenga tra persone che si conoscono davvero o grazie alle parole che si scrivono e si condividono. Io ho pianto la morte di Fred Sonic Smith, perché Patti l’ha raccontata mettendo in gioco se stessa. Così come ho gioito delle sue gioie e ho avuto con lei paura e fame, con lei ho sopportato i pidocchi ed ho mangiato pane raffermo insieme ai barboni afro americani, poeti notturni di Central Park.
Questa è la forza dei testi di Patti, in quelle pagine si consegna a chi legge, non ignara dei rischi immagino, ma fiduciosa, quasi bisognosa di credere che la forza delle esperienze vere sostiene le persone, disinnesca gli odi e i rancori, attenua i dolori, espande la gioia.

Ecco cos’è questo compleanno/capodanno per me oggi, è un inno di gratitudine per chi è com’è e ne fa dono al mondo.

Buon compleanno Patricia Lee Smith, la vita sia sempre con il tuo spirito.

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