Niente

Oceano Atlantico, Portogallo.

Oceano Atlantico, Portogallo.

Questo è il racconto della mia malattia. Fino al 2016, anno in cui è stato pubblicato sul sito “Abbiamo le prove”, sito fondato da Violetta Bellocchio.

Oggi, a distanza di anni, lo ripubblico qui su Eufemia, mentre la malattia alza il tiro ed io provo a non ritirarmi sconfitta.

Nel frattempo, però, qualcosa di straordinario è accaduto. Ho dato alla luce un bambino.

Niente

Avevo ventiquattro anni e mi facevano male le ginocchia. Mi hanno detto di non pensarci e di anni ne ho fatti venticinque. Il dolore alle ginocchia non è passato, però, e il mio colon ha cominciato ad infiammarsi come le viscere di un vulcano.

Il primo medico che mi ha visitata, mi ha detto che non avevo niente. Niente. Proprio così ha detto. Lo ha fatto mentre mi porgeva la mano per congedarmi. Non ricordo più che faccia avesse. Non ci giurerei sul fatto che avesse davvero una faccia, infatti.  

Poi, una sera, questo Niente, mi ha fatta alzare dal letto, mi ha portata in bagno e mi ha fatta svenire sul pavimento freddo di ceramica bianca. 

In ospedale un medico ha affondato la sua mano al centro del mio intestino e io mi sono sollevata dalla barella urlando e piangendo. Sarebbe stato il primo di molti salti.

Mi hanno messa in lista per una colonscopia e mi hanno dimessa. Senza troppe spiegazioni.

Dopo qualche settimana per un intero pomeriggio ho bevuto due litri d’acqua con una polverina gialla dal gusto viscido e dolce. Ne bevevo un bicchiere ogni due pagine del libro che stavo studiando per il prossimo esame, a ritmo costante. Ho trascorso l’intera notte in bagno. Non avevo mai notato come fosse insopportabile la luce dei bagni, bianca, amplificata dagli specchi, violenta quasi. Al mattino presto mentre mi preparavo per andare in ospedale mi sono accorta dell’arrivo delle mestruazioni. Quando l’ho riferito all’infermiera che mi spiegava di dovermi spogliare completamente, mi ha detto: “Sei proprio sfortunata figlia mia”. Mi ha dato un cespuglio di cotone idrofilo da mettere in mezzo alle gambe e mi ha chiesto di seguirla. 

La colonscopia prevede la possibilità di aver somministrato un anestetico, perché avere un tubo con telecamera che ti attraversa l’intestino può far male. Ma a me non lo hanno fatto. Ero giovane, sembravo forte, hanno detto. Mentre sentivo il sangue gocciolare dal mio corpo giovane e forte, stringevo i pugni per sopportare il dolore del tubo che mi ispezionava. Un dolore inutile, perché nel colon non c’era Niente. Per scrupolo il gastroenterologo mi ha mandata in ginecologia, per una ecografia pelvica. Ho messo gli slip, un assorbente vero e mi sono rivestita senza riuscire a recuperare del tutto la posizione eretta. In ginecologia non mi hanno rivolto la parola, solo indicato il lettino su cui sdraiarmi, il modo in cui posizionare le gambe. E mentre io cercavo ancora di capire cosa realmente mi stesse accadendo, il ginecologo senza preavviso ha inserito la sonda dell’ecografo in vagina. Ho sobbalzato anche qui per il dolore, ricordo di aver pensato: sono morta! Ma non ero morta. Ero giovane, forte e non avevo niente, in fondo. Mi hanno ricoverata per qualche giorno, per  le mie ovaie ingrossate. Poi sono tornata a casa con una confezione di estrogeni sotto braccio e nessuna diagnosi.

Di anni ne ho intanto compiuti ventisei. Mi facevano male le ginocchia, il colon, e pure le dita delle mani. Mi hanno detto di andare da un immunoreumatologo. Ho prenotato in ospedale prima, poi  privatamente. Mi ha fatto le ecografie alle articolazioni e un prelievo per la ricerca di anticorpi. Ma non è venuto fuori Niente. A quel punto mi ha posto la domanda che sarebbe diventata il cruccio della mia giovinezza. Me l’ha fatta mentre scriveva su un foglio con penna stilografica il resoconto della visita effetuata. Io gli vedevo i riccioli bianchi e radi sulla sua testa di primario, parlava con voce sottile, con le labbra incurvate a metà tra un sorriso e uno sdegno indelebile, mi ha chiesto: “Ma lei è un tipo nervoso? Potrebbe essere un problema psicologico. Tipicamente femminile”. Avrei voluto interrogarlo approfonditamente sul significato di “problema psicologico tipicamente femminile”, invece ho preso i fogli, pagato 180 euro e sono andata via. 

A ventisette anni le mie mani in inverno hanno cominciato a diventar gonfie e viola, a ventotto è arrivato il dolore ai polsi e ai gomiti. A ventotto e mezzo camminavo spesso con le stampelle. Sono partita per un centro specializzato nella Milano delle grandi guarigioni, la terra promessa per gli abitanti del Sud, dove gli ospedali hanno le mura diroccate e si affittano in nero le sdraio per l’assistenza clandestina ai malati ricoverati. In questa clinica con il parco annesso e i pavimenti lucidi mi hanno trattenuta per cinque giorni e mi hanno sottoposta ad ogni tipo di esame. In immunoreumatologia non c’era posto, però, e mi hanno ricoverata in cardiologia. Lì ogni infermiere e ogni parente in visita mi guardava esclamando: “Oh povera, così giovane!”. Non ho ritenuto opportuno informarli di non essere cardiopatica, in fondo quella pena per me mi sembrava legittima. Ho condiviso la stanza con un’anziana signora che se le faceva addosso ogni giorno e che non diceva una parola. Io ho apprezzato il suo mutismo, speculare al mio, e ho impiegato il tempo leggendo, ascoltando musica e sognando di uscire di lì con una diagnosi ed una terapia. Una diagnosi e una terapia, “ma che razza di sogni hai”, ho detto a me stessa, un po’ ridendo, un po’ piangendo. Dopo cinque giorni e quattro notti mi hanno diagnosticato una patologia autoimmune che si chiama “Connetivite indifferenziata” e stavano perfino per somministrarmi una terapia, ma il colpo di scena degli anticorpi negativi ha fatto crollare tutto. Il risultato delle analisi non rispondeva per intero ai parametri necessari per poter procedere con i farmaci. Dunque, hanno rinnegato la diagnosi e mi hanno detto che non avevo Niente. Ho fatto le valigie, un giro al parco e sono tornata a casa.

Al san Camillo di Roma, un medico gentile dall’aria distaccata, dopo avermi sottoposta all’ennesima trafila di esami, mi ha prescritto un “farmaco biologico”, che però di biologico e sano non ha nulla, tanto che si può ritirare solo nella farmacia dell’ospedale dopo aver firmato un mazzetto di deliberatorie con le quali si declina l’ospedale da ogni responsabilità. Mi hanno insegnato ad iniettarmi questo annunciato siero magico nella coscia e mi hanno rispedita a casa, anche loro, con una borsa frigo fucsia per conservare a zero gradi la speranza della mia guarigione. Dopo la seconda puntura però i miei occhi non riuscivano a stare aperti per il prurito e il mio corpo si è riempito di bolle rosa confetto. Avevo avuto una reazione allergica alla speranza. 

Ora di anni ne ho trentasei. Ho eseguito altre due colonscopie, una gastro, tre risonanze magnetiche, infinite ecografie, molte radiografie, un elettromiografia, due capillaroscopie, molteplici e ripetute analisi di laboratorio. Facendo la spola da uno specialista all’altro, un giorno ho comprato un quaderno, ho diviso le pagine in due colonne. Su una ho scritto: “Le cose che ho perdute” e nell’altra, invece, “Le cose che ho imparato”.

Cose perdute:

La fiducia nei medici

La possibilità di gestire il mio tempo sulla base di ciò che voglio e non a seconda di come mi sento.

La sensazione di essere in forma e poter affrontare la giornata.

Vivere da sola in una città diversa dalla mia.

Lavorare a tempo pieno.

Andare in bicicletta.

Correre.

Saltare.

Dormire notti tranquille.

Mangiare quello che voglio.

Fare sport.

Viaggiare da sola.

Condividere il bagno con altre persone.

Fare progetti a lunga scadenza.

La convinzione che possa esserci una soluzione per ogni cosa.

La possibilità di improvvisare.

Cose imparate

Il dolore fisico costringe ad un silenzio che non può essere raccontato.

La necessità di avere un mondo interiore complesso e articolato, per rifugiarvisi nei momenti di solitudine.

Non irrigidire i muscoli durante le fitte, perché così gli spasmi durano meno.

Soffrire conduce o alla pietà verso gli esseri viventi o alla durezza del cuore. Meglio scegliere la prima.

Controllare di aver messo le pillole in borsa prima di chiudere la porta di casa.

Le cose normali come mangiare, andare in bagno, camminare, fare le scale sono bellissime cose da fare.

Non andare alle visite mediche coi capelli puliti, ben vestita e truccata, perché altrimenti non ci credono che stai soffrendo.

Fortificare la fiducia in quello che il proprio corpo dice, anche se il resto del mondo ti contraddice.

Se sei donna tireranno sempre in ballo il fattore psicologico. Impara a conoscerti e sii forte.

I medici maschi, anche i più illuminati, sostanzialmente non capiscono un cazzo del ciclo mestruale.

Io non sono la mia malattia. Io ho una malattia.

Quando ti senti male e pensi che muori, molto probabilmente non muori. Sii paziente e aspetta. Dopo un po’ andrà meglio.

Il dolore che diminuisce è come una resurrezione.

Non devi dimostrare niente a nessuno, non giustificarti per le cose che non riesci a fare più bene.

Non cominciare a fare l’amore se qualcosa ti fa troppo male o se ti senti molto stanca.

Se ti viene da piangere, piangi. Ma sola o davanti a qualcuno che ti vuol bene. Non in ospedale o davanti ai medici, altrimenti pensano che hai un problema psicologico tipicamente femminile. 

Se qualcuno ti ama chiedigli aiuto, digli che hai paura e che sei stanca da non poterne più.

Alla fine l’elenco delle cose imparate è visibilmente più lungo dell’elenco delle cose perdute. Ma  quello che è veramente difficile è accettare che sia la malattia a dettare la necessità di ogni cambiamento, a rivoltarti il corpo a sbaragliare il cuore, a dettar legge nella tua vita. Quello che è veramente difficile è accettare lo scarto tra quanto con fatica ti sei preparata a fare, a vivere e quello che il tuo corpo è realmente in grado di affrontare. Quello che è veramente difficile da accettare è che la malattia sia quasi invisibile, perché è così che sono le malattie autoimmuni: invisibili , conosciute poco e da pochi.  

A breve farò altri controlli, un altro giro di giostra. La malattia cambia con me e trasforma le preoccupazioni, le paure e le aspettative. Oggi, a 36 anni, la mia paura più grande e di non poter dare alla luce un bambino, di non poterlo accudire, di non poter giocare con lui, partecipare attivamente alla sua crescita. Ho paura che le difficoltà abbiano la meglio sull’amore e la morte sulla vita. Ma questo non glielo dico ai medici. Non lo dico a nessuno. In fondo sono ancora giovane, forte e non ho niente. 

 

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