Dal vivo: la scuola, la vita, la realtà.

(AFP PHOTO)

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“Dal vivo” è un’espressione che ha molteplici significati:
1. che assume come modello diretto la realtà: ritratto dal vivo; ritrarre, dipingere dal vivo;
2. di programma radiofonico o televisivo, trasmesso in diretta; trasmettere dal vivo;
3. di concerto, brano o incisione discografica, eseguito e registrato al di fuori della sala di registrazione, direttamente a contatto con il pubblico: disco, esecuzione dal vivo
4. di brano vocale o strumentale, eseguito senza l’ausilio del playback; cantare dal vivo.

Ma il vocabolario non dice nulla sulle emozioni o sulle esperienze, è il limite di tutte le definizioni lasciar fuori qualcosa.
Pensare, desiderare di dare un bacio non è come dare un bacio “dal vivo” e cercare su google foto dell’oceano non è come vederlo, odorarlo, ascoltarlo “dal vivo”.

Per questo motivo all’inizio dell’anno scolastico che adesso volge al termine, abbiamo pensato ad un progetto che permettesse ai ragazzi di sperimentare “dal vivo” ciò che troppo spesso arriva loro come una cascata di parole morte, confuse, stereotipate, violente, vuote. Lo abbiamo chiamato “IntegrAzione” e realizzarlo è stato bellissimo.
Due seconde classi, due indirizzi diversi: tecnico chimico e liceo scientifico (sez. B e T dell’I.S. Majorana, Palermo), una trentina di ragazzi quindicenni che, per loro stessa testimonianza, hanno vissuto un’esperienza in grado di mutare il modo di guardare e considerare il fenomeno dei flussi migratori.
Li abbiamo scritti sulla lavagna, bianco su nero, gli stereotipi legati ai migranti:
– Sono terroristi
– Ci stanno invadendo
– Portano malattie
– Rubano il lavoro agli italiani
– Puzzano
– Non pagano l’affitto
– Non sono poveri perché hanno il cellulare
– Delinquono.
E li abbiamo visti crollare uno ad uno questi stereotipi, man mano che ascoltavamo la testimonianza di chi lavora nella prima accoglienza, di chi conosce i paesi di provenienza dei migranti, man mano che studiavamo i decreti del parlamento europeo a riguardo, valutavamo gli interessi economici dietro agli accordi dei nostri governi con la Libia e con la Turchia, guardavamo documentari, imparavamo insieme ad osservare la realtà così com’è e non come ci viene restituita da Facebook, da Striscia la Notizia e o dalle Iene Show. Abbiamo mostrato come si fa a riconoscere una “bufala” da una “notizia” e indicato fonti di informazione credibili. E così, settimana dopo settimana, bianco su nero, gli stereotipi e i luoghi comuni hanno fatto posto alle domande sorte nell’animo dei ragazzi grazie alle nuove conoscenze e consapevolezze acquisite:
– Perché se Russia e Cina appoggiano la dittatura di Bashar al Assad in Siria la comunità internazionale lascia morire mezzo milione di civili?
– Perché in Germania i migranti aumentano il Pil del paese e noi li teniamo chiusi nelle prigioni dei “centri di identificazione ed espulsione”?
– Perché l’Europa non si mette mai d’accordo con una politica comune sulle migrazioni?
– Perché tutti dicono che i neri non li vogliono, ma poi ci sono le macchine ferme davanti alle prostitute di colore?

Sono ottimi osservatori i ragazzi, vero? Osservatori spietati a volte. Ci inchiodano alle nostre contraddizioni, ma è una buona cosa, è l’obiettivo a cui tendiamo.
Quando la dott.ssa Marta Bellingreri è venuta a scuola per incontrare i ragazzi ed ha parlato loro dei suoi viaggi nei paesi arabi e della sua personale esperienza, fatta di incontri con persone in cammino verso l’Europa, facendo vedere foto e narrando storie, i ragazzi hanno ascoltato per un’intera ora senza fiatare. Era un’esperienza diretta, “dal vivo” e non hanno fatto fatica a prestare attenzione.
Lo stesso è accaduto con i due giovani medici che operano a bordo delle navi di soccorso nel canale di Sicilia, il dott. Davide Di Spezio e il dott. Salvo Zichichi. I loro racconti e le fotografie che hanno portato per documentare il lavoro svolto sono stati un pugno allo stomaco. Qualcuno tra i ragazzi strizzava gli occhi, qualcun altro si metteva la mano davanti alla bocca. Quanto è terribile la realtà e quanto ci vien facile renderla invisibile! I due medici hanno risposto con pazienza a tutte le domande ed hanno raccontato di non aver mai avuto a che fare con persone affette da malattie in grado di scatenare chissà quale epidemie nel nostro paese. Piuttosto devono far fronte ad ipoglicemie e disidratazioni, a difficoltà di deambulazione per i giorni in cui i migranti stanno fermi, rannicchiati in un angolo su un barcone in balia del mare, devono far fronte ad ustioni da carburante e ai primi certificati di morte per i corpi senza nome che non sono riusciti a rianimare o ad afferrare per i capelli mentre li vedevano andare giù. Era anche questa una testimonianza “dal vivo”, molto più forte di qualunque video o documentario o lezione ben preparata sul fenomeno migratorio.

Infine, hanno parlato due ragazzi provenienti dal Senegal e dal Gambia, due ragazzi che la nostra scuola la frequentano e che hanno avuto un coraggio da giganti a raccontarsi di fronte ai compagni. La loro testimonianza non la riporto in questo articolo, perché io non ho un coraggio da gigante e le cose terribili che hanno raccontato proprio non le so ripetere. Sono parole che vanno ascoltate “dal vivo”, appunto, con l’emozione di apprendere dalla loro voce cosa han dovuto affrontare e di vederli incredibilmente vivi davanti ai propri occhi. Penso, invece, che sia più importante raccontare della compostezza e della dignità con cui hanno condiviso la loro storia, della evidente fatica del sopportare lo stereotipo del “povero negro”, perché loro non erano poveri e non erano infelici nel loro paese, prima che la dittatura divenisse soffocante e pericolosa, prima che le bande mafiose minacciassero la morte ogni santo giorno. Uno di loro sogna di fare il medico, l’altro di diventare un atleta. Alla fine del loro racconto hanno ringraziato pubblicamente me, la mia collega, che tanto ha concretamente fatto per loro, i medici presenti, i compagni e gli italiani, poiché gli stanno offrendo “la possibilità di essere piano piano di nuovo felici”.

A me il loro grazie è sembrato ingiusto e immeritato, perché accogliendoli noi non stiamo facendo un favore a nessuno, ma semplicemente mettiamo in atto un diritto, riconosciuto dalla Carta internazionale dei diritti dell’uomo e sancito dalla nostra Costituzione all’art.10: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”.

La speranza è che i ragazzi che hanno partecipato al progetto sentendo mutare in tempo reale lo sguardo sulla realtà, così come loro stessi hanno detto, scritto, raccontato a noi professoresse, alimentino questa metamorfosi e se ne ricordino quando saranno chiamati al voto e alla responsabilità delle loro scelte personali. Speriamo altresì che la scuola, in tutte le sue componenti, sappia riconoscere la presenza dei ragazzi stranieri, i presenti e quelli che verranno, come una risorsa preziosissima grazie proprio a queste loro storie, alle esperienze di vita e anche per le numerose lingue che conoscono, per le diverse tradizioni e culture di cui sono testimonianza viva. Lavoriamo perché la scuola sia profetica, che possa cioè mostrare modelli di una società migliore e che  non sia, invece, specchio di una non-cultura della finzione, della mentalità del “non sono razzista però…”. Speriamo che la scuola sia officina operosa di cose nuove che rischiano il cambiamento e sempre promuovono la persona.
Perché la foto del morso sulla coscia di una donna salvata dalla morte nel nostro mare, il morso di chi nel tentativo di non affogare si attaccava coi denti alla vita, una foto vera, scattata e raccontata “dal vivo”, possa veramente restituirci il senso di quel che viviamo e di quel che facciamo.

P.s. E a proposito, tutti gli esperti intervenuti hanno dedicato il loro tempo e le loro competenze a titolo totalmente gratuito. Andava detto. A loro il nostro sentito e sincero ringraziamento.

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“La Siria, la scuola, il nostro destino”

Frequentavo la 1° elementare quando Mu’ammar Muhammad Abu Minyar ‘Abd al-Salam al-Qadhdhafi cioè il generale Gheddafi lanciò due missili SS-1 scud verso Lampedusa. Fu allora che mi resi conto della vicinanza geografica tra noi, la Sicilia, e l’Africa araba.

Frequentavo la 5° elementare, invece, quando scoppiò la “guerra del golfo” guidata da George H. W. Bush e fu allora che compresi quanto vicino a noi fosse anche il Medio Oriente. In entrambi i casi alla sigla del Tg correvo in camera per nascondermi sotto al letto e non ascoltare gli aggiornamenti sulla guerra, per fuggire quel senso di pericolo e quella difficoltà invincibile alla comprensione. Cattura defAnche se frequentavo le elementari, infatti, la teoria degli americani buoni e degli arabi cattivi mi convinceva poco e non perché fossi esperta a quell’età di politica estera o storia, ma semplicemente perché mi guardavo allo specchio e mi guardavo attorno e non vedevo facce “americane” volermi bene e prendersi cura di me, vedevo facce arabe: per me gli arabi erano i buoni!

Quando da bambina rientravo dalle vacanze al mare mia nonna mi abbracciava e poi volgeva lo sguardo preoccupato verso i miei genitori dicendo: “E fatele prendere un poco meno sole, pare proprio saracena!”.

Durante i miei viaggi all’estero o negli anni trascorsi nella penisola fuori Sicilia, mi sono sentita chiedere infinite volte se fossi italiana. Rispondere: “Si, sono italiana, vengo da Palermo”, mi è parsa sempre una mezza verità.

(Castello della Zisa, Palermo)

(La Zisa, Palermo)

Solo il tempo e gli incontri della vita mi hanno aiutata a prendere consapevolezza di quanto fosse forte quel richiamo, quella voce lontana ma distinta che mi portava a leggere autori arabi e ad interessarmi delle vicende legate a quella realtà. E per la mia naturale propensione a preferire le storie periferiche e gli attori non protagonisti, ho sempre amato moltissimo, come credo abbia pure fatto il patriarca Abramo, sia Agar che Ismaele (cfr. Genesi 16-21), senza dovere, per tale ragione, diminuire o censurare il fascino e la meraviglia per la storia ebraica di cui mi occupavo per i miei studi biblici.

Proprio per questo, quanto vissuto negli ultimi giorni è per me la realizzazione concreta di una parte della mia identità personale oltre ad essere la realizzazione di un sogno.

(Da destra: Adel el-Ali; Safa Neji; Anna Ponente e me, presso la palestra dell'I.S. Majorana)

(Da destra: Adel el-Ali; Safa Neji; Anna Ponente e me, presso la palestra dell’I.S. Majorana)

Quando il 29 luglio del 2013 Paolo Dall’Oglio è stato rapito in Siria, mi sono sentita come travolta da un’urgenza: leggere, studiare, capire, parlare, fare. Le sue parole erano state per me come il fuoco ed io, adesso, non potevo non cominciare ad occuparmi davvero del suo amore più grande: la Siria. Con il tempo mi sono resa conto che la Siria per quanto stava accadendo al suo popolo era, in realtà, affare di tutti, premura per tutti. E così, iniziando ad insegnare ho cominciato ad elaborare progetti finalizzati a far conoscere e comprendere le Rivoluzioni arabe, la vicenda siriana, l’Islam.

Non è andata sempre bene. Ad esempio una volta, proprio subito dopo un incontro in aula magna su Paolo Dall’Oglio, ho sentito due ragazze parlare tra loro dicendo, cito testualmente: “Ma chi cazzo se ne frega, ma chi è questo e lei cosa vuole da noi!”. Mi sono addolorata, ovviamente, moltissimo. E tante volte, ancora oggi, mi accade di rientrare a casa desiderando di fare qualunque altro lavoro, ma non questo!

(Introduzione all'intervento del giornalista e scrittore Italo Siriano, Shady Hamadi)

(Introduzione all’intervento del giornalista e scrittore italo siriano, Shady Hamadi)

Ma la scuola è un posto incredibile, davvero poco intellegibile per chi la guarda da fuori. Forse sono in grado di comprenderla più i contadini che i funzionari del Ministero della pubblica istruzione (già sul termine “Istruzione” si potrebbe e si dovrebbe discutere a lungo). La scuola è un luogo di semina spesso senza raccolta, perché il tempo buono della mietitura si compie lontano dalle aule e dai banchi, lì dove la vita non ha più protezioni e pretende d’esser vissuta. I ragazzi a cui insegno non sono né grandi né piccoli, sono come un grumo di potenza vitale atomica pronta ad esplodere, giorno dopo giorno. Sono giovani, ma spesso già feriti a morte, alcuni sembrano impermeabili a tutto, altri chiedono di uscire dall’aula perché il confronto diretto è troppo per loro.

(I.S. Majorana, Palermo)

(I.S. Majorana, Palermo)

Ma ieri erano lì tutti e duecento, ciascuno con la propria capacità di attenzione, forse inadeguata all’intensità degli argomenti trattati, al peso delle parole che descrivevano esperienze che nessuno dovrebbe vivere. Ieri, a scuola, i ragazzi hanno potuto incontrare ed ascoltare chi dalla Siria è giunto fin qui grazie ai corridoi umanitari della chiesa Valdese e della comunità di Sant’Egidio.

(Safa Neji e Adel el-Ali)

(Safa Neji e Adel el-Ali)

Quando Adel, siriano di Homs, ha cominciato a parlare in arabo io mi sono sentita felice, perché la sua voce che rimbombava all’interno della palestra di questa scuola palermitana di periferia, era per me una vittoria sugli slogan urlati in tv, sulla mala politica, sul giornalismo populista. Eravamo lì tutti insieme e ci stavamo in pace. Le domande dei ragazzi a Shady Hamadi, autore di “Esilio dalla Siria. Una lotta contro l’indifferenza” erano domande sincere, curiose, piccoli germogli, fragili e forti insieme, venuti fuori da ore e ore e ore di lavoro in classe.

(La dirigente dell'I.S. Majorana, dott.ssa Melchiorra Greco)

(La dirigente dell’I.S. Majorana, dott.ssa Melchiorra Greco)

E’ stato bello ieri perché c’eravamo tutti: ragazzi, docenti, dirigente, personale ATA, tutti. E’ stata la comunità scolastica ad accogliere Shady Hamadi, Fabrizio Piazza (libreria Modusvivendi), la dott.ssa Anna Ponente, direttrice del centro La Noce – Istituto Valdese, la mediatrice culturale Safa Neji e Adel el- Ali. Ciascuno aveva collaborato alla realizzazione di questo incontro ed è per questo che per tutti è stato importante.

(Shady Hamadi firma le copie del suo "Esilio dalla Siria")

(Shady Hamadi firma le copie del suo “Esilio dalla Siria”)

Da ieri ricevo messaggi di persone sconosciute che mi ringraziano per la presentazione di “Esilio dalla Siria” presso la libreria Modusvivendi e di ragazzi e colleghi che sentono di voler condividere con me le emozioni di un’esperienza forte perché vera.

(presentazione di "Esilio dalla Siria" presso la libreria Modusvivendi, Palermo)

(presentazione di “Esilio dalla Siria” presso la libreria Modusvivendi, Palermo)

(Shady Hamadi)

(Shady Hamadi)

Ha ragione Shady Hamadi quando con la forza dei suoi ventotto anni e la carica della sua rabbia sacrosanta ci esorta, soprattutto, ad incontrarci e parlare. Discutere della Siria, del mondo arabo e di qualunque cosa possa alimentare il pensiero critico, il solo capace di renderci individui liberi pronti ad assumersi la responsabilità della propria vita anche rispetto a quanto accade attorno.

Ieri non abbiamo certo posto fine alla guerra in Siria e non abbiamo potuto sollevare nessuno dalle sofferenze del conflitto. Eppure quel che abbiamo vissuto e fatto ha superato realmente il bipolarismo sempre oscillante tra assenza di pensiero e azione o rassegnazione, che molti ci presentano come unica alternativa possibile. Non è così ed è questa la mia, la nostra resistenza!

 Mio giovane amico,

T’immagino, o ti spero, animato da un desiderio di impegno. Sei musulmano, cristiano, credente, ateo o in ricerca, e io mi rivolgo alla tua aspirazione al bene […]. 
O ci mettiamo sulla strada della differenza oppure sulla strada della morte o si accetta la differenza oppure la si sopprime. La Siria è, da questo punto di vista, un luogo altamente centrale e simbolico. Non si tratta qui soltanto di un povero popolo abbandonato nell’est del Mediterraneo, bensì di questioni che sono di urgente attualità ovunque nel mondo. Dibattendo della Siria, tu e il tuo vicino, cristiano, musulmano, ebreo o altro, è di voi che parlate: discutete delle vostre stesse relazioni. Quando gli europei evocano la Siria, parlano del loro destino.

                           da “Collera e Luce. Un prete nella rivoluzione Siriana” di Paolo Dall’Oglio

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(Una fra le mie foto preferite di Paolo Dall’Oglio)

(Le foto presso la libreria Modusvivendi e l’I.S. Majorana sono di Carlo Columba)

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Sangue

(foto di Sara Lorusso)

(foto di Sara Lorusso)

A scuola, in alcune classi, ho affrontato il tema dell’adolescenza. Abbiamo cominciato un giorno alzandoci dai posti obbligati, dalle sedie tutte in fila dietro la cattedra e i banchi. Abbiamo cercato una posizione comoda e abbiamo iniziato a respirare. Volevo che uscissero dalla folle quotidiana corsa delle sette ore di scuola, che si fermassero un attimo, che avessero il tempo di capire, di esistere. Poi ci siamo concentrati sulle emozioni, per comprendere quali fossero e in quale parte del corpo le sentivamo muovere. Così qualcuno ha scoperto di avere la rabbia nelle mani, la paura in gola, l’amore negli occhi.
E’ stato faticoso, faticosissimo, anzi. Ma bello, veramente tanto. Abbiamo parlato di tutto. Abbiamo parlato tutti. A voce, per iscritto, con una canzone, con un libro, ciascuno ha avuto modo di potersi esprimere, se lo voleva. I temi che sono stati affrontati erano impegnativi: il bullismo ad esempio. Che se lo chiami così sembra il titolo di un giornale, ma se poi spieghi cos’è te lo ritrovi addosso, come vittima e come carnefice, senza  aver immaginato di esserne protagonista. Oppure la relazione con i genitori, un conflitto sempre meno acceso e formante per i troppi “sì” che ricadono a cascata su corpi e cuori in trasformazione, che aspettano un “no” per potersi misurare con la potenza della propria metamorfosi.

Abbiamo parlato di differenze di genere, anche. Provando a stanare modi di intendere ed intendersi così radicati da diventare invisibili. Ho visto gli occhi dei ragazzi guardarmi con smarrimento mentre ragionavamo sul perché  la fidanzata che esce da sola in minigonna provoca loro rabbia. E ho visto le ragazze illuminarsi in viso quando abbiamo parlato del ciclo mestruale: liberamente, tecnicamente, davanti a tutti.

Abbiamo sorriso noi, femmine, osservando l’imbarazzo sulla faccia dei maschi e ci siamo guardate complici quando uno di loro ha detto stizzito e preoccupato: “Ma prima si vergognavano di più, ora vanno a cambiarsi e poi tornano con l’assorbente arrotolato in mano che si vede”.
Certo che è incredibile… Una donna, in media, ha il ciclo mestruale per circa 35 anni della sua vita. Lo sanno tutti, la vita stessa si rinnova grazie alle mestruazioni. Eppure, in una classe di liceo, nel continente culla della cultura occidentale, aggressiva e moderna, si prova ancora imbarazzo a parlare di sangue, assorbenti, dolori mestruali.

(foto di Alexandra Sophie)

(foto di Alexandra Sophie)

Negli ultimi anni qualcosa sta cambiando. Artiste, scrittrici, attiviste, tramite i social, Twitter sopratutto, hanno lanciato una campagna di sensibilizzazione e direi anche di liberazione, contro tutti gli stereotipi legati al ciclo e, di conseguenza, alle donne (per es.:https://casadiringhiera.com/im-on-my-period-sara-lorusso-editorial-4253fa47eb65#.j78mvsh91http://culturainquieta.com/en/foto/item/10341-lovely-and-provocative-photos-representing-the-stages-of-a-woman-s-life.htmlhttp://www.huffingtonpost.it/kiran-gandhi/perche-ho-corso-la-maratona-di-londra-durante-il-ciclo-senza-portare-lassorbente_b_8019062.html; diversi articoli a riguardo si trovano su http://www.internazionale.it/).
Ci penso sempre io, quando ho le mestruazioni e devo andare a scuola, un luogo di lavoro dove la presenza femminile è ancora preponderante. Ci penso, soprattutto, quando dopo lezione devo restare per le riunioni e so che in bagno non troverò carta igienica né i sacchetti dove riporre l’assorbente né tanto meno la possibilità di potermi rinfrescare. Crearle, invece, queste possibilità mi parrebbe un inizio concreto e sensato per una riforma scolastica seria e un esempio di civiltà che varrebbe cento lezioni di “Costituzione e cittadinanza”.

(foto di Alexandra Sophie)

(foto di Alexandra Sophie)

Quando sento un uomo o, peggio, una donna, esordire con la battuta: “Ehi, ma perché sei così nervosa ti devono venire le tue cose” (perché ancora mica tutti le sanno chiamare per nome in pubblico!), mi viene da piangere, sia per la banalità della battuta sia per l’ignoranza che si nasconde dietro. Nella mia piccola indagine a proposito, ho scoperto che più o meno la metà dei maschi e delle femmine in età fertile non conoscono le fasi del ciclo o non le sanno chiamare per nome. E l’apparato riproduttivo femminile? In tutte le sue parti e caratteristiche? Quasi un perfetto sconosciuto.

La maggior parte delle donne trascorre la propria esistenza e condivide l’esperienza sessuale con uomini che si ostinano a non voler capire nulla del ciclo e che si limitano a chiedere: “Oggi si può liberamente”? Aspettando il responso che pare dover arrivare da un mondo misterioso e sconosciuto, inaccessibile.

(foto di Alexandra Sophie)

(foto di Alexandra Sophie)

E’ vergognoso, pericoloso e triste che l’intero percorso obbligatorio d’istruzione non preveda un tempo, non facoltativo o lasciato alla buona volontà dei docenti, da dedicare all’educazione sessuale e affettiva delle nuove generazioni. L’analfabetismo a riguardo provoca ferite profonde e molto, troppo dolore.

Conoscere il ciclo, chiamare ogni cosa con il proprio nome, mettersi in ascolto del corpo è un’esperienza che trasforma la vita. Io ho imparato per necessità, quando da adolescente le mie ovaie si riempivano di cisti dolorosissime e nessuno sapeva spiegami il perché. Un ginecologo, alto, bello, della borghesia palermitana, uno di quelli che fa partorire con taglio cesario e molti euro le donne ricche della mia città, mi ha imbottito di estrogeni, attribuendo la responsabilità del “mal funzionamento” al mio animo irrequieto e troppo sensibile. Ho molto sofferto per questo. Poi mi sono stancata e ho cercato di capire. Ho studiato, ho trovato dottoresse in grado di ascoltare, valutare, comprendere. E ho scoperto che era l’insulina a provocare le cisti e l’irregolarità del ciclo. Ho eliminato gli zuccheri e tutto piano, piano, piano ha ricominciato ad essere armonico.

(foto di Alexandra Sophie)

(foto di Alexandra Sophie)

Ho imparato allora che non esiste un ciclo uguale ad un altro e che ogni fase va riconosciuta, ascoltata, attesa, vissuta. Ho imparato a distinguere i momenti fertili da quelli non fertili e a conoscere di cosa il mio corpo ha bisogno per ciascuno di questi momenti. Ho scoperto che nella fase che precede le perdite il mio corpo desidera il magnesio e alcune vitamine e che nei giorni del sangue vedo dentro di me cose che, poi, non vedo più.

Ho imparato che vale la pena  far la fatica di condividere ciascuna di queste conoscenze con l’uomo amato, perché cambia tutto, e cambia in meglio. E che, pure, confrontarsi con le altre donne è come immergersi in una sapienza antica quanto il mondo, una sapienza che ciascuna donna contribuisce a far crescere con la propria unica e singolare esperienza.

Dalle donne ci si aspetta sempre qualcosa: che siano belle, magre, corrispondenti ad un modello estetico costruito sul gusto degli uomini o del mercato, che scelgano tra figli o carriera, tra libertà o famiglia, tra femminismo o sottomissione e, quel che è peggio, alcuni dei più famosi e deleteri stereotipi di genere sono incarnati e perpetuati proprio dalle donne, come accade per la menopausa, ad esempio. Quante volte sentiamo o diciamo l’espressione: “Quella donna è ANCORA bella”, rivolta a chi si avvia verso i cinquanta o li ha passati da un pezzo. Ancora? Ancora rispetto a cosa? E con quale bellezza ci si sta confrontando?
E quante donne son capaci di godere dello sbocciare di qualcun’altra senza sentirsene minacciate o senza giudicarle in modo spietato?

Cresciamo vivendo il ciclo come la più grossa scocciatura possibile e invecchiamo pensando che la fine del ciclo sarà l’inizio delle nostre disgrazie: non più giovani, con qualche chilo in più, isteriche e sole. Nel peggiore dei casi circondate dai gatti (altro fantastico stereotipo legato solo alle donne, ovviamente.. Mah!).

E’ una trappola sociale/culturale subdola e meschina, costruita con finezza per secoli e secoli, che fa leva sulle fragilità e sull’ignoranza che alcune donne possiedono di se stesse. Va smascherata, disinnescata, trasformata in qualcos’altro.

Credo che sia necessario riconquistare il nostro stesso sangue, il ventre, il latte, il corpo tutto, con la sua sapienza; imparare le trasformazioni ed essere parte attiva della nostra crescita. Invecchiare non è certo indolore, ma voglio credere che sia possibile farlo scoprendone i segni come un prodigio, così come sappiamo riconoscerli e apprezzarli nell’alternarsi delle stagioni. E’ importante per qualunque donna questa riappropriazione di quanto le appartiene e possiede, di qualunque età, in qualunque condizione si trovi, che sia giovane o anziana, che sia madre o che non voglia o non abbia figli, che sia eterosessuale o lesbica, che abbia qualcuno accanto o che sia single, perché non è quello che viviamo che da maggiore o minore importanza a quel che siamo.

(foto di Alexandra Sophie)

(foto di Alexandra Sophie)

Conosco donne bellissime che il passare del tempo rende forti e coraggiose, piene di vitalità ed esperienza, capaci di riconoscere la vita ovunque si manifesti e di godere di essa anche quando, in qualche modo, sottolinea la distanza tra loro e la giovinezza. Sono donne senza rancore, impegnate in un processo di pacificazione che mi affascina e mi sorprende.

E’ un cambiamento culturale già in atto, ma sempre più urgente, che necessita della consapevolezza e della partecipazione di maschi e femmine, insieme, perché si tratta di sangue e di vita e la vita è di tutti e da tutti va conosciuta, sempre, nuovamente, e accudita con consapevolezza, perché se ne possa godere appieno, fino alla fine e “perché nulla vada perduto” (cfr. Gv 6,12).

Diversità è bellezza.

 

Cattura di schermata (4)

Diversità è bellezza. Progetto di Educazione al genere” è il resoconto visibile di un’esperienza relazionale molto importante: quella educativa.

Questo video non è il semplice prodotto di uno studio o di una ricerca, è il frutto buono del condividere, nello spazio di un’aula scolastica, il mistero dell’incontro. La capacità cioè di guardarsi, ascoltarsi, accogliersi, capirsi, crescere.

Abbiamo cominciato con la gioia di ritrovarci insieme per un altro anno scolastico, non era certo, infatti, che ci saremmo rivisti, data la precarietà a cui anche le relazioni devono sottomettersi in assenza di una certezza lavorativa. Ho subito chiesto ai ragazzi se avessero avuto voglia di imbarcarsi con me nell’avventura, di provare a smascherare i giudizi ideologici che da più fronti hanno attaccato l’educazione al genere, facendone il più grande nemico della famiglia e dell’amore, senza però mettere in campo il minimo sforzo per conoscerne i contenuti o per mettersi in discussione.

Ognuno di noi ha iniziato questo percorso avendo in se stesso delle convinzioni, delle idee, delle difficoltà a riguardo: abbiamo messo tutto sul piatto. Ciascuno sapeva di poter venir fuori con il proprio pensiero, il proprio disagio, le proprie domande. Ho studiato e ricercato i materiali idonei per poter dare ai ragazzi strumenti autonomi di conoscenza. Prima di tutto: le parole. Non tutte le parole, infatti, sono uguali. È necessario conoscerle e capire cosa contengono e quale significato portano con sé: genere, gender, orientamento sessuale, identità sessuale, identità di genere etc…non sono sinonimi. Questo abbiamo fatto, dunque, prima di tutto: abbiamo studiato le parole. Ma le parole non sono sufficienti. È necessario che esse si facciano esperienza, storia, volti, occhi, vita vissuta. L’esperienza ha il primato su ogni dottrina. È così per tutti, ma lo è ancor di più per loro, per i ragazzi. Abbiamo trascorso ore a scuola a ragionare insieme e da casa su whatsapp, per condividere i dubbi, le idee, lo studio: abbiamo fatto rete. Da qui l’idea di realizzare qualcosa di visibile, qualcosa che potesse mettere insieme teoria e pratica, qualcosa che potesse spostare tutto dal piano puramente razionale a quello esperienziale, appunto.

L’educazione al genere prevede che si parli di corpo, di amore, di famiglia, di sesso, di identità, ma per capire realmente qualcosa è necessario avere a che fare con occhi, mani, sguardi, storie, abbracci. Non volevamo realizzare qualcosa per comunicare a tutti quanto avevamo studiato e capito. Volevamo metterci in ascolto della realtà. E le persone sono la realtà: le persone con le quali passiamo la maggior parte del nostro tempo. A queste persone concrete i ragazzi hanno posto delle domande concrete, pensate nella fase di studio e selezionate da loro stessi, in piena libertà. Raccogliere le testimonianze e le risposte è stata la fase successiva. È stato stupefacente osservare come il pensiero dei ragazzi su ciascuno dei professori andasse mutando: non solo non erano più estranei ma anche acquisivano autorevolezza man mano che il loro vissuto personale veniva fuori. Una volta terminati riprese e montaggio abbiamo insieme visionato il video e, dopo, ci siamo fatti un lungo applauso. Eravamo stati bravi! Anche riconoscere questo è stato un momento di crescita.

L’ora di Religione, si sa, è circondata, a volte oppressa, da moltissimi pre-giudizi. Per me era importante che i ragazzi si rendessero conto di una verità che, purtroppo, viene fatta a pezzi dall’analfabetismo religioso, presente in modo capillare, nonostante proprio questa fede sia quella che diciamo di professare. Il cristianesimo nasce “plurale”: ben quattro sono i vangeli che vengono conservati per narrare ai posteri la storia di Gesù di Nazareth. Quattro testi diversi, scritti da autori diversi, indirizzati a comunità differenti. Si, la diversità è bellezza! Essere credenti non vuol dire non pensare con la propria testa o lasciare a terzi la monopolizzazione, l’autorità sulle nostre coscienze. I tempi, questi nostri tempi non permettono più che si riduca a questo la fede cristiana. Non esiste argomento, esperienza, conoscenza che non valga la pena osservare, valutare, capire. Nulla che debba essere escluso a priori, senza sapere neppure di cosa si stia veramente parlando. Se l’insegnamento della Religione non crea spazi di libertà, diversità e dialogo non è più insegnamento della Religione e, soprattutto, non è Religione “cattolica” cioè “universale”, segno di inclusione e convivenza tra diversi, ma diventa il perpetuarsi di strutture di potere che sono inconciliabili con la vita, quella vera delle persone vere: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore” (Gaudium et Spes 1).

Guarda il video Progetto di Educazione al genere: “Diversità è bellezza”.

Scusa, Malala

malala

Malala, la conoscono tutti. Non è neppure necessario specificarne il cognome. La conoscono i capi di stato, le autorità religiose di tutto il mondo, la conoscono gli economisti, gli stilisti, i talebani e gli equilibristi, tutti. Tranne i miei alunni.
Questa è stata la prima amara scoperta di una mattina trascorsa al cinema con un centinaio di ragazzi fra i 14 e i 16 anni, più o meno. Fra questi, ne sono certa, vi era certamente qualcuno a conoscenza della storia di Malala. Così come, non ho dubbi, nella massa ci sarà stato qualcuno interessato e attento alla visione del documentario che riguardava la giovane pakistana, premio nobel per la pace.

La massa. Si. Oggi ho avuto proprio la lucida consapevolezza di come, nella “massa”, si nascondano molte delle radici velenose del nostro tempo. E’ bastato che si abbassassero le luci in sala per dare il via all’improvviso e impunemente ad una specie di delirio che mai e poi mai si sarebbe potuto scatenare in piena luce, a viso scoperto: urla, fischi, versi di animali e rutti, perché senza rutto, si sa, il delirio mancherebbe proprio di carattere.

In realtà, in sala, buio buio non si è fatto mai. Gli schermi dei cellulari non hanno smesso, a cicli alterni, di illuminare i volti distratti. “Li riporranno via” – pensavo io – mettendo mano alle scorte di ingenuità che ancora, evidentemente, conservo, ahimè, da qualche parte. Ma quando mai! Così, se alzavo lo sguardo vedevo sul grande schermo la sala operatoria nella quale una ragazza a cui avevano sparato in testa perché voleva andare a scuola, lottava tra la vita e la morte e se, invece, abbassavo lo sguardo vedevo decine di piccoli schermi in mano a ragazzi che a scuola ci vengono per forza e che le vite le conquistano, si, ma  per superare i livelli di Crash saga.

C’è da dire che a giocare coi cellulari sono molto abili, comunque. Ogni tanto, infatti, lo sguardo lo alzavano, senza perdere la partita, giusto il tempo per fare qualche battuta sui talebani e sulle donne pakistane con il capo coperto dall’hijab. Così, tanto per sfoggiare il repertorio di luoghi comuni che evidentemente ascoltano e imparano guardando la tv.

Dall’intervallo sono rientrati con bidoni di 50 lt, pieni di cibo. Si è scatenato l’inferno, ovviamente. Neppure il sangue di Malala sul furgone della scuola e sull’asfalto ha attutito il lancio di pop corn e l’urlo di vittoria per aver centrato il compagno. Ma l’apice è stato raggiunto quando, passeggiando per la sala e cercando di capire perché fossi costretta a comportarmi da carabiniere pur essendo un’insegnante, ho sentito un ragazzino dire ad un compagno: “Oh, se non mi dai una patatina ti sparo in testa come a quella”.  Così ha detto: “Ti sparo in testa come a quella”.

Allora, all’improvviso mi sono resa conto di una distinzione fondamentale: nella vita si può lottare per superare le difficoltà oppure, le difficoltà, si possono eludere, fuggire con l’inganno. E ho percepito con tremore e turbamento il pericolo che le scelte educative e di formazione si pieghino, si appiattiscano proprio sull’inganno.

I ragazzi che frequentano la mia scuola di problemi concreti ne hanno moltissimi. Fra loro c’è chi abita in quartieri difficili di periferia, in una città che, pure al centro, di dolore da smaltire ne porta addosso troppo. Spesso i genitori sono disoccupati, il livello di cultura è basso, gli strumenti per capire a fondo il proprio disagio, praticamente nulli. Non conoscono i loro diritti e ciò che gli spetta lo arraffano come un furto non riuscendo così a percepire le responsabilità.

Ma qui, nella parte “fortunata” del mondo, a differenza che in Pakistan o in Siria o in Africa, noi mettiamo i giovani davanti ai programmi Mediaset e compriamo loro gli smartphone. Gli diamo da mangiare, da bere Redbull e insegniamo che a riuscire nella vita sono i furbi. Non è un insegnamento diretto, ma è quello che passa dai fatti, dagli esempi, dai comportamenti e che è tanto tanto tanto più incisivo di una lezione frontale sui diritti umani o della visione di un documentario, non adeguatamente e a lungo preparata, sulla storia di Malala, data così in pasto al mostro dell’incomprensione, della superficialità, della paura nei confronti della diversità, del rifiuto della sofferenza.

Una cosa, però, non l’ho proprio capita. Mentre li vedevo ridere, ascoltare i messaggi vocali come se fossero seduti sul divano di casa, parlare ad alta voce come se non esistesse nessun altro, mi dicevo: “Ok, non hanno gli strumenti culturali necessari per comprendere questa storia. Ma…il sangue non è sangue per tutti? La sofferenza, la paura, non sono forse sentimenti comuni tra gli esseri umani? Come si può non lasciarsi “avvicinare”, “toccare”? Fosse solo per il tempo di un film?

Ma poi una collega mi ha detto: “Di cosa ti stupisci, Giulia. Basta leggere i commenti a seguito di articoli che raccontano dei naufragi nei nostri mari, per rendersi conto di quanto siano abbondanti i frutti della resa culturale nel nostro Paese”.

La beffa è che io questo lavoro proprio non lo volevo fare…Ma non posso non interrogarmi spietatamente a riguardo: se la scuola non riesce ad insegnare che il sangue è sangue di tutti e che il dolore così come la gioia di un uomo e di una donna, tutti ci riguarda e tutti ci trasforma, se non siamo in grado di far percepire la realtà, nella sua complessità e ricchezza, se non ci assumiamo l’impegno e la fatica di scelte coraggiose, se pieghiamo la schiena sotto i colpi di riforme della scuola a scopi economico-aziendali, se non sappiamo trasmettere lo sdegno per ogni diritto negato, se non aiutiamo a smascherare le ideologie alla radice, se i ragazzi non ci sentono denunciare ad alta voce le trame di ogni palazzo, ma davvero…che senso ha?! Se non si trova la voglia, il modo di agire su tutto questo, siamo una scuola già morta, senza bisogno dell’irruzione di talebani armati.

La paura è veleno

© Ben Zank

© Ben Zank

Appena entrata in classe mi hanno detto che avevano una cosa da raccontarmi. Son pochi e di stare seduti ai loro posti non ne vogliono sapere. L’orologio segna quasi le tre del pomeriggio, hanno ragione, porca miseria. Stanno lì dentro dalle otto del mattino! Dovrebbero costituirsi parte civile contro uno Stato che tollera di far scuola in ambienti così, come se fossimo tutti polli da allevamento. Li lascio liberi di stare in piedi o seduti sui banchi o vicino a me, alla cattedra, che qualche animo gentile esiste ancora.

E’ di droga che mi vogliono parlare. Per un servizio che hanno visto in tv. Una storia terribile, ma a lieto fine. Fanno a gara per decidere chi deve raccontarmi meglio, per stabilire a chi spetta mettermi a parte di tutti i particolari. Io della storia, in verità, non ci capisco un granché, ma leggo sui loro volti il sollievo, molto vicino alla gioia, per un ragazzo come loro che era perduto, morto e che, invece, ce l’ha fatta.

Cerco allora di capire cosa ne sanno questi ragazzi sedicenni di droga. Beh, ne sanno un sacco. Sanno di droga e di spacciatori e sanno che “certe volte si spaccia per poter mangiare prof”. Dicono che loro non la toccano la droga, che a tutti, nessuno escluso, è stata proposta, con insistenza, e sentono il bisogno di specificare che “non si trattava di spinelli”. Io decido che mi stanno guardando troppo e a lungo negli occhi e che la vittoria della luce e dell’aria d’autunno sullo squallore dell’aula è troppo grande per potermi mentire.

Quando chiedo perché secondo loro un ragazzo comincia a drogarsi, la risposta è unanime: “Per paura”.
“Per paura di che?” – controbatto io. “Per paura di non essere abbastanza prof., per paura di non essere accettati, per paura di essere messi da parte e restare soli, per paura di non farcela, per sentirsi forti”.

Amen.

Lettera dall’inferno

(foto di Martin Vaissie)

(foto di Martin Vaissie)

Dovevano essere in ventuno, ma oggi erano in sette. Certo, avrei potuto fare la mia lezione ugualmente, anche perché me l’ero preparata con cura…avrei potuto, appunto. Ma non l’ho fatto. Che ho fatto? Sono andata alla rierca di territori sconosciuti. Ho provato a capire chi avessi davanti, ho cercato di cogliere qualcosa della loro vita, quella che a scuola non si vede, quella che resta sommersa sotto gli zaini posizionati sui banchi tipo muro di Berlino. Ho scoperto cose, oh… che Cristoforo Colombo oggi mi pare uno che si è affittato il pedalò per fare il giro della piscina. G. ha 17 anni, ma è ancora al secondo anno, vive al CEP e per venire a scuola al mattino si sveglia alle 6.00. Il primo autobus passa alle 6.45. Forse. Perché può essere pure che passi dopo mezz’ora o che non passi affatto, facendo saltare il resto delle coincidenze. Quando questo succede arriva in ritardo. “Minchia lo vede prof. quando mi dicono gli altri prof. che arrivo in ritardo perché l’autobùs un passò e loro mi rispondono: Ti alzi prima! E manco mi talianu na facci! Minchia prof. io divento nervoso, perché mi posso susiri puru ai quattru, ma l’autobùs dal CEP prima delle 6.45 non passa!”.

Cosa fanno i ragazzi della mia scuola quando non sono scuola? Giocano a calcetto. Quasi tutti. E durante la lezione è questo che guardano sui cellulari, guardano le scarpette Nike con i tacchetti buoni per la terra battuta. Si allenano tre volte a settimana. E la cosa forte degli allenamenti e che ti stanchi fino allo sfinimento, che butti via tutta la rabbia per come sei e non vorresti, per come è la tua famiglia e non vorresti e per quella che ti piace e ti saluta un giorno si e uno no a saltare però, che manda all’aria pure la regolarità dell’attesa. E poi ci sono gli spogliatoi dove ci si ricarica con le urla, gli scherzi, con il rutto libero e pisciando un po’ dove capita, senza regole. Ovviamente non manca la playstation, anche se la musica è la padrona assoluta del loro tempo fuori scuola. G. ascolta musica rap che si divide in due gruppi però, il rap duro e quello da musica commerciale. Cosa piace del rap? Piacciono le storie, le storie che parlano delle cose che loro vedono e sentono e sanno e desiderano.

A questo punto la mia esplorazione vuole andare fino in fondo e allora chiedo a G. di farmi ascoltare la sua canzone rep preferita. E lui decide per “Lettera dall’inferno” di un certo Emis Killa. La canzone è un monologo di un giovane che però è pure, forse, una preghiera e che ad un certo punto dice così:

“Nella mia vita non sei stato quel che dovresti
Il diavolo è stato più bravo, per certi versi
Il credo dalla fede, ognuno c’ha la sua
Mia madre in chiesa piange sangue, più della tua
Non so con quale scusa ti possa difendere
La gente scrive preghiere ma forse non ami leggere”.

Ascolto tutta la canzone in silenzio e poi senza pensare dico sussurrando: “Sono parole forti”. Prontamente G. mi risponde in un modo tanto potente da poter scoperchiare il tetto della scuola: “Prof. nella mia vita o le cose sono forti oppure non le voglio”. Lo guardo, volendogli molto bene per quello che ha detto ed avendo insieme molta paura per lui”. Anche lui mi guarda e aggiunge: “Prof. per me questa è la canzone più bella perché questo ragazzo a Dio gli dice tutto il suo dolore, perché minchia prof. certe volte pare che la sofferenza è troppo grande. Io non credo prof. non ho nessuno a cui credere, però secondo me se esistesse Dio, dovrebbe leggerle le nostre lettere dall’inferno. Picchì a mia prof. sto Dio che dice la chiesa, ma non mi convince proprio. Anzi, pi mmia la chiesa proprio putissi spariri picchì cu u Signuri un ci trasi nienti. Io certe volte li sento parlare tutti chisti ca criunu, puru u papa ca s’affaccia ra finestra e pensu na me tiesta: ma che mi rappresenta? Boh”.

Io di nuovo lo guardo e penso e dico: “lo sai che nella Bibbia esistono pagine che sono simili alla canzone che ti piace?”. E lui: “Io questo non lo so, a me mai nessuno me l’insgnò a capire zoccu c’è scritto na Bibbia”.

Poi è suonata la campana. I ragazzi sono usciti di corsa verso la fermata del bus. E io sono rimasta cinque minuti, in silenzio, nell’aula deserta. Deserta.

La scuola è (s)finita?

(foto di Nino Migliori, 1957)

(foto di Nino Migliori, 1957)

La  cosa che confonde è che l’ultimo giorno finisce come tutti gli altri, come il primo, come quelli di mezzo: suona la campanella e stop. Non è una campanella speciale, non ha un suono diverso, una durata estesa, no. Niente che aiuti a pensare scendendo le scale: “Ehi, ma è finita la scuola? E che cosa vuol dire per me?”. Beh, certo il caldo aiuta a capire che si è alla fine, così come i pantaloncini dei ragazzi e le magliette strette strette, senza spalline, delle ragazze. Ma percepire qualcosa non ha nulla a che vedere con il ritrovarsela davanti, reale e compiuta, senza appello.

Mi viene da pensare che, probabilmente, per i colleghi di ruolo questo benedetto suono della campanella rappresenti più che altro un tassello della propria esperienza lavorativa; per noi precari, invece, è come un’apocalisse, una sensazione a metà fra liberazione e devastazione. Così alunni e insegnanti, incontrando nel corridoio il docente precario, chiedono sorridendo: “Ci sarai l’anno prossimo?”. E il docente precario risponde: “Mah, speriamo…non dipende da me”, abbozzando un sorriso cordiale, anche se, intanto, avrà fissa in mente la pagina online dei suoi “saldi e movimenti”, dalla quale vedrà scalare inesorabile lo stipendio ricevuto durante l’anno, senza avere idea di cosa ne sarà della sua vita e della propria pseudoindipendenza economica. Pensiero che getterà un’ombra costante sul sol leone dell’estate.
Non parliamo poi dell’insegnante “precario di Religione” (che sarei io), che vede lottare animatamente i colleghi delle altre materie invidiandone la brezza del dissenso, totalmente inutile, invece, nella sua condizione di “prescelto” dalle curie diocesane, per le quali il dissenso è spesso una categoria non pervenuta, qualunque forma esso possa assumere.

Ma oltre che con il futuro dalle fauci spalancate, l’ultima campanella fa fare i conti con il vissuto, appena divenuto passato. Non so quale sia statisticamente la riflessione più riccorrente, posso solo parlare per me ed ammettere di aver pensato: “E’ finita? Ma come diamine ho fatto?”. La sorpresa è di riscoprirmi sopravvissuta! Non del tutto messa fuori gioco dai più di duecento alunni che di settimana in settimana son passati davanti ai miei occhi. Il fatto è che non son passati soltanto sotto gli occhi, ma anche attraverso gli occhi, in mezzo alle viscere, dentro ai pensieri. Perché il maledetissimo o benedetissimo (ancora non l’ho capito) punto di questo mestiere sta proprio qui: sta nel fatto di avere a che fare con gente viva e, come se non bastasse, di esserne in qualche modo responsabile, di essere lì proprio per loro, a loro favore. E il paradosso è che per vivere questa consapevolezza attivamente ci si deve proprio lottar contro prima di riuscire a lottare al loro fianco. Lottare per farsi accettare, per far accadere il miracolo del “vedersi” reciproco, del riconoscersi alleati e non nemici.

Ci son giorni, infatti, che è proprio una guerra di sopravvivenza. Giorni in cui la fatica sembra, e lo è, al di sopra delle forze. Come quando si entra in classe e viene il sospetto di essere invisibili: ognuno continua a fare quanto stava facendo (cioè confusione) e nulla cambia fino a quando in un impeto di disperazione  le corde vocali impongono il silenzio. Oppure, come quando non si possiede, per le leggi che attanagliano l’insegnamento della Religione, una valutazione da dare che rientri nell’orizzonte del loro linguaggio, un voto che sia strumento di dialogo, insomma. “Ma Religione fa media? Ma si può essere rimandati in Religione?”, cercando ogni santo giorno di costruire lezioni capaci di rendersi gratuitamente interessanti. Quando poi ci si deve liberare dalla zavorra delle esperienze pregresse è davvero un’angoscia: “Ma io alle scuole medie non facevo niente! Ma io il compito di Religione non l’ho fatto mai”, etc etc… L’apice dello sfinimento si raggiunge dopo essere riuscita, in qualche modo, a insegnare delle cose, o, meglio ancora, a fornire degli strumenti perché possano guardare al fenomeno religioso attraverso una lente differente, e poi, però, sentirsi raccontare che il parroco pretende per la celebrazione del 25° anniversario del matrimonio dei genitori, la confessione sacramentale dei figli! Allora, prendendo fiato, si prova a trovare una risposta sensata (che non c’è) per non venir fuori con un deciso e genuino: “Ma che cazzo!”. Già.

Quando ero studentessa io mica pensavo che una prof.ssa potesse alzarsi al mattino e, prima di andare a scuola, sedersi ai piedi del letto sussurrando: “Non ci voglio andare, non ci voglio andare, non ci voglio andare!”. Invece, si. Succede. E ora, a scuola finita, se dovessi chiedermi dove ho trovato la forza di alzarmi e andare…direi che… non l’ho trovata. Perché, secondo me, non si va avanti con la forza, ma nella speranza, quella di trovare il senso delle cose facendole accettando che riescano, anche se diversamente da come le si erano programmate. Perché nelle programmazioni che ad inizio anno si presentano in segreteria non si può certo prevedere che G. il quale non ti ha cagato per metà anno, all’improvviso, dopo una lezione sulla difficoltà delle relazioni (venuta chissà come e da dove!), incontrandoti in corridoio si apra ad un sorriso che è tutto per te! E no, non si può prevedere. E neppure che la classe che il mercoledì dalle 14.15 alle 15.15 ti ha purificato da tutti i peccati passati, presenti e futuri, resti in assoluto silenzio mentre racconti di te a 12 anni che vivi la morte di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e don Pino Puglisi come se avessero abbattuto all’improvviso e per sempre le fondamenta del tuo tranquillo mondo di pre-adolescente.

Quando ascoltano in silenzio è una cosa da brivido. Tutti i loro occhi sono per te e le labbra socchiuse un po’ per la meraviglia, un po’ per le parole che ancora non riescono a trovare pur volendole dire, fan tremare le gambe. Sarà strano adesso, a scuola finita, rimodulare la fatica e la stanchezza, la paura e lo stupore, non doversi più sedere ai piedi del letto a cercare affannosamente la speranza.

Questo non è il lavoro che vorrei fare. Ma è quello che mi trovo a fare, è la vita che non mi aspettavo e che ad ogni incarico mi piomba addosso senza sapere se ringraziare Dio o chiedergli a quale gioco sta giocando. Eppure i ragazzi sono vivi, ed io, viva tra i vivi, non ho potuto che sfinirmi in questa ricerca affannosa della speranza, di una strada, di una direzione che valga la pena percorrere prima e proporre, poi. Sbagliando, di certo, infinite cose ed infinite volte e accettando a denti molto stretti che questa cosa dello sbagliare sia proprio parte integrante della vita.

Di cose pesanti e difficili ne ho raccolte molte, mi servirà l’estate intera per svuotarne lo zaino, diciamo così. Per le cose belle mi bastano le tasche dei jeans, piccole, ma strette, in modo che nulla si perda: il suono di una risata, imparata a memoria, come si fa con la canzone preferita, un bacio appiccicato sulla guancia in una mattina d’inverno, l’aver contribuito alla pronunzia di un sonoro “no”, detto con consapevolezza e quelle righe scritte di fretta su un foglietto messo di nascosto in mano: “Prof. certo che sto Gesù, era un gran figo”.

Le altre parole

(foto di Mike Brodie)

(foto di Mike Brodie)

“Voci ovunque”. E’ la mia personale definizione che descrive l’esperienza del fatidico ricevimento dei genitori. Ascolto la voce di chi sta parlando con me, la mia che rispondo, quella delle colleghe, della folla davanti alla porta dell’aula, a turno, le voci dei ragazzi rimasti di sotto in cortile. Parliamo tutti, tutti abbiamo qualcosa da dire, ridire, chiedere, rimproverare. “La parola all’accusa! La parola alla difesa!”.

Eppure queste voci che si diffondono ovunque sono una piccola parte dell’intero processo di comunicazione. Piccola davvero. Ognuno dei docenti sceglie un angolo dell’aula e si dispone come su un ring per sferzare e parare ogni tipo di colpi: oggi si consegnano le schede intermedie, una specie d’avviso alla popolazione perché chi sta per affogare abbia  il tempo di cercare un appiglio di salvezza e chi dall’inizio dell’anno rema con fatica possa vedere all’orizzonte la ricompensa della riva. Un foglio bianco come uno schema della battaglia navale, l’elenco delle materie e la fasce di voto: scarso, insufficiente, mediocre, sufficiente, discreto, buono e ottimo! E poi un pugno di “X” che sembrano sparse a caso: Acqua! Colpito! Affondato!

“Prof. glielo spiega a mia madre che questa non è la pagella?! Che ancora posso essere promosso? Per favore!”. E’ grande e grosso ma ha solo quindici anni. La sua famiglia viene da un paese davvero lontano, ma lui è nato qui. Il paradosso è che sua madre comprenda a stento l’italiano mentre il dialetto siciliano del figlio farebbe invidia ai venditori ambulanti del mercato di Ballarò. E’ un ragazzo sveglio, con grande senso dell’umorismo, ed è anche campione mondiale di pigrizia. Noi lo sappiamo, lui lo sa. Dopo pasqua comincerà la sua folle corsa, sarà rimandato in due, tre materie, passerà l’estate con la paura d’esser bocciato, proverà a studiare qualcosa, ma vincerà la voglia di mare e vacanze, noi a settembre lo aiuteremo a superare gli esami di riparazione e ricomincerà la giostra.

“Salve io sono l’educatrice di V., come va? Cosa mi dice?. V. abita in una casa famiglia. Ce lo ha detto lei candidamente, durante il giro (odioso!) delle presentazioni, dal quale nessuno scampa il primo giorno del primo anno di ogni nuovo ciclo di scuola; lo ha detto come se stesse comunicando di avere, chessò io, una bicicletta o un cane: “Si, io sono V. ho 14 anni e siccome non ho nessuno vivo in una casa famiglia, mi piace ascoltare musica e uscire con gli amici”. Ci sono giorni in cui la sua faccia diventa buia e lei è lì, seduta a pochi centimetri da me, ma irraggiungibile.

Io non andavo mai al ricevimento dei genitori con mia madre, soprattutto al liceo, tanto sapevo cosa le avrebbero riferito, lo stesso ritornello per anni: “Giulia ha molte capacità, ma studia soltanto le materie che le piacciono!”. Ancora oggi che sto dall’altra parte della barricata trovo che la loro lamentala fosse di una banalità irritante. Ancora oggi per me la strategia di studiare e prendere voti alti nelle materie che piacciono e la sufficienza appena risicata in quelle che non interessano, sinceramente, mi pare assai sensata. I miei alunni, invece, vengono praticamente tutti e, giuro, certe volte sembrano loro ad accompagnare i genitori. Il giorno del ricevimento ci si rende conto del perché alcuni ragazzi sembrano avere il mondo sulle spalle. E’ perché ce l’hanno davvero, accidenti! Ci sono madri e padri che sembrano fantasmi. La loro inconsistenza fa sobbalzare lo stomaco come quando si va giù veloci sulle montagne russe: “Signora guardi che c’è ancora da ritirare la pagella del primo quadrimestre! Abbiamo provato a chiamare, ma non ha risposto mai nessuno”, e dici queste cose cercando uno sguardo che non si fa incontrare mai, neppure se ti guarda dritto negli occhi. Alcuni genitori sono talmente fantasmi che al ricevimento i ragazzi arrivano con i nonni. E te lo dicono che sono i nonni con una voce a metà tra orgoglio e vergona, si presentano appena ma tutto il loro corpo e il modo in cui ti fissano sembra esclamare: “E non dovremmo esserci qui noi cazzo! E però ci siamo!”. Qualcuno con voce tremante ti confida che la figlia ha fatto due bambini con un disgraziato che ora è in galera e “speriamo che ci resti!”. Già. E mentre cerco di piantare bene i piedi a terra per rimanere salda sotto le raffiche di dolore che mi arrivano addosso, mi volto verso la ragazza che sta lì e mi guarda. L. ha due occhi blu di una luminosità imbarazzante. Chissà quante volte l’ha sentita questa storia del disgraziato di suo padre. Le sorrido, mi sorride e intanto non riesco a non chiedermi quale sia, in mezzo al casino in cui vive, la fonte dalla quale attinge la sua luce.

Stringo un’infinità di mani. La stretta di mano dice molte cose; di quelle ruvide, lo confesso, mi fido di più che delle mani lisce e morbide. Una signora, oltre ad avere palmi che graffiano possiede pure due centimetri di ricrescita bianca su una tinta nera fatta male e un sorriso sincero. Arriva dall’estrema periferia di Palermo, ma anche lei l’italiano lo parla a fatica. Oggi è contenta, però, perchè D. è migliorato e, infatti, tira un sospiro di sollievo che sembra possa alleggerire il mondo intero. Anche D. sorride, ha una montagna di ricci in testa color miele che esplodono in ogni direzione, portatori di una vita che non sa ancora dove andare e cosa fare, ma c’è.

Infine, arriva il teppistello della classe, quello che durante le lezioni esce per andare in bagno e torna dopo mezz’ora, quello che se ne frega di te e di quanto rappresenti, che ai rimproveri reagisce sghignazzando. Arriva scortato da padre e madre. Non ha, adesso, un atteggiamento di sfida, no. Guarda a terra. Sua madre mi confida di aver infilato nello zaino del figlio l’immaginetta con la preghiera dello studente: “Ma niente prof., non ha funzionato”. Il padre è un gigante grande e grosso e mi dice che quando arriveranno a casa gli farà vedere lui. Le “X” del suo foglio non sono sparse a caso, un po’ qui, un po’ lì, sono tutte incolonnate, solenni e gravi, come un corteo funebre sotto la voce “scarso”. Suo padre ringhia, sua madre dispera e mentre io osservo gli occhi del ragazzo piantati sul pavimento penso che, quasi quasi, non lo rimprovererò più quando mi sghignazzerà in faccia perché tutti, in fondo, abbiamo diritto ad una qualche forma di riscatto.

Mentre le voci cominciano a diradarsi e dalle finestre dell’aula esposta a ponente arriva la luce dei primi tramonti di primavera, io raccolgo pian piano i miei fogli e con essi i pensieri. Rifletto, stanca fino alla nausea, sul fiume di parole nel quale ho navigato tutto il giorno, a lezione prima e al ricevimento poi. Ripenso a tutti i discorsi, ma mi rendo conto di aver memorizzato molto di più gli sguardi e le strette di mano, i sorrisi e le facce tese. Richiediamo studio, ordine, impegno in mezzo al caos e al dolore, alle vita in frantumi e  alle preoccupazioni più nere, e anche lì dove invece, grazie a Dio, la vita procede più serena, non troviamo mai il tempo di capire dentro le persone, veramente, cosa c’è. Potremmo parlare per ore, ininterrottamente, provare a spiegare, a nascondere, a giustificare, ad accusare, ma la scuola, come la vita mi appare una pianura che si distende a perdita d’occhio dove aspettiamo, tutti, di veder fiorire, prima o poi, le altre parole, quelle seminate ovunque sul corpo, quelle che ci passano tra le dita come grani d’un rosario muto, le parole tutte bagnate sulle labbra o secche in gola, quelle che ci abitano addosso e che per esser dette e divenir compiute serve soltanto che qualcuno come noi, in carne, sangue e parole non dette, veramente, ci guardi.

Attraverso Kobane

Non so quanto io abbia il diritto di esultare per la liberazione di Kobane, dato che apprendo la notizia comodamente seduta sul divano di casa mia, eppure non voglio autoprivarmi della gioia che questa notizia porta con sé.

Kobane è diventata un simbolo di lotta per la libertà, forse perché a lottare contro il califfato delle tenebre è stata una minoranza etnica, forse perché le donne hanno avuto in questa battaglia un ruolo fondamentale, forse perché il web ci ha permesso di vivere la riconquista metro dopo metro.

La Siria è il fronte di tante guerre, un territorio sacrificato sull’altare di troppi idoli. L’unico paese, fra quelli coinvolti nelle primavere arabe, ad avere più di centomila morti e quasi tre milioni di profughi. Ma tante vittime non hanno ancora saziato la fame delle ragioni politico-economiche che tengono vergognosamente in piedi il regime di Bashar al-Assad. Il fallimento della politica estera internazionale ha generato il mostro Isis, contro il quale impieghiamo oggi tante forze e risorse. Piangiamo, giustamente, gli uccisi in terra d’occidente e sentiamo sul collo il fiato della minaccia jihadista.

Gli incubi dei nostri adolescenti sono popolati da bandiere nere lanciate alla conquista delle nostre sicurezze e le parole di conforto che rivolgiamo loro non rassicurano nessuno, neppure noi stessi: “Prof., non può capire quanto sto male per queste notizie di morte e di guerra! Sono delusa, ma non so bene da cosa. E’ che non mi sento protetta, non sono sicura di poter contare sullo Stato e sono, sopratutto, confusa. Sta succedendo qualcosa che è più grande di noi, qualcosa di grave, eppure mi pare che nessuno faccia nulla di veramente efficace per difendere la gente”.

Nei ragazzi sensazione e istinto sono ancora strumenti funzionanti, suonano, non stonano. Sono alleati preziosi nel faticoso tentativo d’interpretare la realtà. Con le loro feste per i diciotto anni tutte da organizzare, pieni di entusiasmo, paure e speranze, compiono il difficile passaggio che li condurrà fuori dalle mura. Adesso si rendono conto, si avvicina il tempo in cui ciò che si crede vero e giusto bisogna farlo, per averlo, non basta desiderarlo. Mi auguro che, un giorno, si ricorderanno delle ore passate a scuola studiando l’intricata vicenda siriana, le religioni e la storia dolorosa di una piccola città al confine con la Turchia, data per spacciata ma tornata alla libertà: “L’arco dei forti s’è spezzato, ma i deboli sono rivestiti di vigore”, canta così, nella Bibbia, una donna umiliata dai potenti e difesa da Dio (1Sam 1,49). Quel giorno, forse, potrò sentire di appartenere anch’io al vento che muove a festa le bandiere a colori sulle colline di Kobane.