Fotosintesi

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Fotosintesidal greco  φώτο- [foto-], “luce”, e σύνθεσις [synthesis], “costruzione, assemblaggio”. Esiste una fotosintesi “umana”. L’ho scoperto ieri, durante una passeggiata post scuola al foro italico.

Che Palermo sia una città di eccessi in continua contraddizione, si sa. Lo sa chi la visita, da turista, per pochi giorni. I turisti lo capiscono con più chiarezza degli abitanti stanziali, perché l’essere di passaggio apre lo sguardo ad una sapienza intensa, si é tutti protesi a conoscere e capire nel minor tempo possibile e con la massima intensità.

Gli occhi di chi vive a Palermo si abituano fin dall’infanzia e reggere gli sbalzi repentini tra le tenebre e la luce. La luce negli occhi e il buio nel cuore.

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Al foro italico la luce abbaglia. C’è il mare. C’è il vento. Ci sono gli aquiloni che tremano tesi e bimbi che sgambettano instabili su gambe vergini di passi. Ci sono gli innamorati sull’erba e i podisti di ogni età alla ricerca di muscoli e salute. Ci sono gli adolescenti che sui motorini truccati della Kalsa vengono a fumare all’aria aperta, sperando che la vita sia meno tossica in riva al mare. Ci sono le donne extracomunitarie con gli abiti colorati e uomini dalla pelle scura che vendono i flaconcini per le bolle di sapone.

A passare in mezzo alla gente, con lo sguardo fisso alle gru dei cantieri navali, si raccolgono parole, come una mietitura.  E mentre un giovane che sembra Gesù, avvolto nel foulard della sua ragazza per proteggersi dal vento arpeggia un giro di Do, ogni frammento di conversazione sembra possedere un senso compiuto.

E’ un tacito scambio, un prendere, dare e trasformare. Come in una fotosintesi la luce innesca i processi, perché è la luce la più grande risorsa di questa città che sopravvive incredibilmente, di giorno in giorno, sotto il torchio costante di tenebre fitte fitte.

Così, le ultime parole ascoltate, come titoli di coda, pronunciate da un’adolescente dai capelli rossi, sembrano con precisione chirurgica andare a fondo nella ferita: “No, tu un c’ha cririri mai a chiddu ca ti diciunu l’autri. Tu, c’hai a esseri tu, cu l’occhi toi, tu”.

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FRATTURE

FRATTURE.

Le altre parole

(foto di Mike Brodie)

(foto di Mike Brodie)

“Voci ovunque”. E’ la mia personale definizione che descrive l’esperienza del fatidico ricevimento dei genitori. Ascolto la voce di chi sta parlando con me, la mia che rispondo, quella delle colleghe, della folla davanti alla porta dell’aula, a turno, le voci dei ragazzi rimasti di sotto in cortile. Parliamo tutti, tutti abbiamo qualcosa da dire, ridire, chiedere, rimproverare. “La parola all’accusa! La parola alla difesa!”.

Eppure queste voci che si diffondono ovunque sono una piccola parte dell’intero processo di comunicazione. Piccola davvero. Ognuno dei docenti sceglie un angolo dell’aula e si dispone come su un ring per sferzare e parare ogni tipo di colpi: oggi si consegnano le schede intermedie, una specie d’avviso alla popolazione perché chi sta per affogare abbia  il tempo di cercare un appiglio di salvezza e chi dall’inizio dell’anno rema con fatica possa vedere all’orizzonte la ricompensa della riva. Un foglio bianco come uno schema della battaglia navale, l’elenco delle materie e la fasce di voto: scarso, insufficiente, mediocre, sufficiente, discreto, buono e ottimo! E poi un pugno di “X” che sembrano sparse a caso: Acqua! Colpito! Affondato!

“Prof. glielo spiega a mia madre che questa non è la pagella?! Che ancora posso essere promosso? Per favore!”. E’ grande e grosso ma ha solo quindici anni. La sua famiglia viene da un paese davvero lontano, ma lui è nato qui. Il paradosso è che sua madre comprenda a stento l’italiano mentre il dialetto siciliano del figlio farebbe invidia ai venditori ambulanti del mercato di Ballarò. E’ un ragazzo sveglio, con grande senso dell’umorismo, ed è anche campione mondiale di pigrizia. Noi lo sappiamo, lui lo sa. Dopo pasqua comincerà la sua folle corsa, sarà rimandato in due, tre materie, passerà l’estate con la paura d’esser bocciato, proverà a studiare qualcosa, ma vincerà la voglia di mare e vacanze, noi a settembre lo aiuteremo a superare gli esami di riparazione e ricomincerà la giostra.

“Salve io sono l’educatrice di V., come va? Cosa mi dice?. V. abita in una casa famiglia. Ce lo ha detto lei candidamente, durante il giro (odioso!) delle presentazioni, dal quale nessuno scampa il primo giorno del primo anno di ogni nuovo ciclo di scuola; lo ha detto come se stesse comunicando di avere, chessò io, una bicicletta o un cane: “Si, io sono V. ho 14 anni e siccome non ho nessuno vivo in una casa famiglia, mi piace ascoltare musica e uscire con gli amici”. Ci sono giorni in cui la sua faccia diventa buia e lei è lì, seduta a pochi centimetri da me, ma irraggiungibile.

Io non andavo mai al ricevimento dei genitori con mia madre, soprattutto al liceo, tanto sapevo cosa le avrebbero riferito, lo stesso ritornello per anni: “Giulia ha molte capacità, ma studia soltanto le materie che le piacciono!”. Ancora oggi che sto dall’altra parte della barricata trovo che la loro lamentala fosse di una banalità irritante. Ancora oggi per me la strategia di studiare e prendere voti alti nelle materie che piacciono e la sufficienza appena risicata in quelle che non interessano, sinceramente, mi pare assai sensata. I miei alunni, invece, vengono praticamente tutti e, giuro, certe volte sembrano loro ad accompagnare i genitori. Il giorno del ricevimento ci si rende conto del perché alcuni ragazzi sembrano avere il mondo sulle spalle. E’ perché ce l’hanno davvero, accidenti! Ci sono madri e padri che sembrano fantasmi. La loro inconsistenza fa sobbalzare lo stomaco come quando si va giù veloci sulle montagne russe: “Signora guardi che c’è ancora da ritirare la pagella del primo quadrimestre! Abbiamo provato a chiamare, ma non ha risposto mai nessuno”, e dici queste cose cercando uno sguardo che non si fa incontrare mai, neppure se ti guarda dritto negli occhi. Alcuni genitori sono talmente fantasmi che al ricevimento i ragazzi arrivano con i nonni. E te lo dicono che sono i nonni con una voce a metà tra orgoglio e vergona, si presentano appena ma tutto il loro corpo e il modo in cui ti fissano sembra esclamare: “E non dovremmo esserci qui noi cazzo! E però ci siamo!”. Qualcuno con voce tremante ti confida che la figlia ha fatto due bambini con un disgraziato che ora è in galera e “speriamo che ci resti!”. Già. E mentre cerco di piantare bene i piedi a terra per rimanere salda sotto le raffiche di dolore che mi arrivano addosso, mi volto verso la ragazza che sta lì e mi guarda. L. ha due occhi blu di una luminosità imbarazzante. Chissà quante volte l’ha sentita questa storia del disgraziato di suo padre. Le sorrido, mi sorride e intanto non riesco a non chiedermi quale sia, in mezzo al casino in cui vive, la fonte dalla quale attinge la sua luce.

Stringo un’infinità di mani. La stretta di mano dice molte cose; di quelle ruvide, lo confesso, mi fido di più che delle mani lisce e morbide. Una signora, oltre ad avere palmi che graffiano possiede pure due centimetri di ricrescita bianca su una tinta nera fatta male e un sorriso sincero. Arriva dall’estrema periferia di Palermo, ma anche lei l’italiano lo parla a fatica. Oggi è contenta, però, perchè D. è migliorato e, infatti, tira un sospiro di sollievo che sembra possa alleggerire il mondo intero. Anche D. sorride, ha una montagna di ricci in testa color miele che esplodono in ogni direzione, portatori di una vita che non sa ancora dove andare e cosa fare, ma c’è.

Infine, arriva il teppistello della classe, quello che durante le lezioni esce per andare in bagno e torna dopo mezz’ora, quello che se ne frega di te e di quanto rappresenti, che ai rimproveri reagisce sghignazzando. Arriva scortato da padre e madre. Non ha, adesso, un atteggiamento di sfida, no. Guarda a terra. Sua madre mi confida di aver infilato nello zaino del figlio l’immaginetta con la preghiera dello studente: “Ma niente prof., non ha funzionato”. Il padre è un gigante grande e grosso e mi dice che quando arriveranno a casa gli farà vedere lui. Le “X” del suo foglio non sono sparse a caso, un po’ qui, un po’ lì, sono tutte incolonnate, solenni e gravi, come un corteo funebre sotto la voce “scarso”. Suo padre ringhia, sua madre dispera e mentre io osservo gli occhi del ragazzo piantati sul pavimento penso che, quasi quasi, non lo rimprovererò più quando mi sghignazzerà in faccia perché tutti, in fondo, abbiamo diritto ad una qualche forma di riscatto.

Mentre le voci cominciano a diradarsi e dalle finestre dell’aula esposta a ponente arriva la luce dei primi tramonti di primavera, io raccolgo pian piano i miei fogli e con essi i pensieri. Rifletto, stanca fino alla nausea, sul fiume di parole nel quale ho navigato tutto il giorno, a lezione prima e al ricevimento poi. Ripenso a tutti i discorsi, ma mi rendo conto di aver memorizzato molto di più gli sguardi e le strette di mano, i sorrisi e le facce tese. Richiediamo studio, ordine, impegno in mezzo al caos e al dolore, alle vita in frantumi e  alle preoccupazioni più nere, e anche lì dove invece, grazie a Dio, la vita procede più serena, non troviamo mai il tempo di capire dentro le persone, veramente, cosa c’è. Potremmo parlare per ore, ininterrottamente, provare a spiegare, a nascondere, a giustificare, ad accusare, ma la scuola, come la vita mi appare una pianura che si distende a perdita d’occhio dove aspettiamo, tutti, di veder fiorire, prima o poi, le altre parole, quelle seminate ovunque sul corpo, quelle che ci passano tra le dita come grani d’un rosario muto, le parole tutte bagnate sulle labbra o secche in gola, quelle che ci abitano addosso e che per esser dette e divenir compiute serve soltanto che qualcuno come noi, in carne, sangue e parole non dette, veramente, ci guardi.

Tutto può accadere, il mare respira.

Palermo.

Ho visto la vita intera, sul mare di Palermo in un riflesso di sole.
Ora sono come un pescatore che tira in barca le reti. Tiro, sollevo, fatico, ma le reti non hanno fine. Ho le braccia stanche e le dita di sangue. Le reti sono fili di lama.
Quel riflesso sul mare della mia città mi aspettava, un’imboscata.
Ha atteso con la pazienza di un cacciatore ed ha esploso il suo colpo appena mi ha vista sotto tiro. Un minuto prima e mi avrebbe mancata, un attimo dopo e mi avrebbe soltanto ferita di striscio. Sarei scappata impaurita e la cicatrice al braccio si sarebbe amalgamata con le cellule fino a non ricordare più nulla.
La mira è stata perfetta. E non c’è cellula che possa inghiottire i segni di quell’esplosione.

Palermo di colpi ne ha sentiti fin troppi, eppure non è mai sazia. Gli scoppi di morte si perpetuano all’infinito, rimbalzano dall’asfalto ai cimiteri, dai cimiteri alle pagine dei giornali, dai giornali alle aule dei processi, come un’eco che non trova riposo.
Gli scoppi di vita non rimbalzano, invece, gli scoppi di vita entrano nel corpo e rimangono in circolo. Trasformano da dentro, giorno dopo giorno. Ci si prova a dimenticarli, si, ma invano. Non si può. Si vorrebbe affidarli al primo cumulo di spazzatura all’angolo di qualsiasi strada, è la paura di scoprirsi capaci di realizzazione, ma per quanto ci si agiti restano attaccati alla pelle.

Non c’è pensiero o sentimento, paura o sussulto del cuore che non sia intrecciato come filo di lana ad un altro, al luogo dove viviamo. Una maglia che non si può sfilare, che non può in alcun modo tornare ad attorcigliarsi come un gomitolo.
Uno scoppio di vita acceca la vista e la percezione della pienezza non è data dal comprendere o intuire cosa esattamente accadrà, ma dalla visione di una potenza possibile, qualunque sarà la sua declinazione.

L’acqua era di cristallo. Circondata di sabbia e di roccia color deserto. Qualche metro dietro le mie spalle il grigio dell’asfalto, in cielo un sole fuori stagione, inopportuno. Un insieme di opposti, un impasto impossibile, elementi differenti che pure hanno imparato a convivere in uno spazio condiviso.
Non si dimentica il disagio né la rabbia di dover abbracciare con lo sguardo, ogni giorno, la gloria e l’inferno, la bellezza e la vergogna.

La rassegnazione dura un momento. L’animo si ammala di sconfitta solo se resta incapace di viaggiare nel tempo:
lo splendore del passato, la miseria del presente, la speranza del futuro,
la miseria del passato, la speranza del presente, lo splendore del futuro,
la speranza del passato, lo splendore del presente, la miseria del futuro.
Quando s’innalzano case di pietra con fondamenta profonde in quello che fu, che oggi è o forse sarà domani, si resta prigionieri di un solo momento che si perpetua inesorabile nel tempo.

Il vento era leggero. L’acqua tremava appena e i cespugli selvaggi ondeggiavano lievi.
Palermo lotta contro i giganti. Anch’io. Non sempre dalla sua parte, ma sempre al suo fianco. Vince una volta su mille, eppure non si ritira. Vince quando la posta in gioco è bassa, a notte fonda, quando il popolo abituato alla vittoria dei giganti si è appisolato, accasciato su sacchi pieni di monete d’oro, facile bottino del più forte.

Cosa accade nella vita di uomo in un sol giorno? Dal mattino fino a sera, quante volte respinge l’assalto dei briganti, quante volte si ritrova i piedi immersi nel fango, quante volte è incoronato re, quante volte difende se stesso e sfida a duello i suoi fantasmi? Quante volte batte la ritirata e mangia il pane amaro del fallimento?

C’era silenzio. Ogni voce taceva a bocca aperta. Ovunque lo stupore delle cose, quando comprendono di poter accadere. Vedere con i propri occhi l’impossibile possibile, per un istante appena e la visione diviene esperienza e l’esperienza è la chiave che apre le porte d’ogni prigione.

Tutto può accadere. Il mare respira.

Presente, muto.

(foto di Martin Vlach)

(foto di Martin Vlach)

Ho guardato un muto negli occhi.
E’ muto l’amore di chi fugge il contatto,
la pelle che sfiora la pelle.
Ho guardato un muto nel cuore,
forse ho divorato io le tue parole?
Fisso le labbra senza riposo,
aspetto di vedere il buio della bocca appena socchiusa,
quelle tenebre che solo il fiato dirada veloce.
Il suono, la lingua che danza,
gli occhi vivaci che tengono il ritmo.
Ho resistito in equilibrio,
sul filo di terra a strapiombo sul niente,
passi quotidiani all’indietro
per sfuggire al silenzio che divora lo spazio.
Tra noi praterie sterminate di desideri incolti,
fiori, erbacce e alberi forti.
Muto l’amore dai piedi di piombo,
che non corrono,
che non fuggono,
né lontano né vicino.
Se corro via, tu resti lì,
se rimango non ti avvicini di un passo.
Ovunque io vada, la distanza non si allunga,
ovunque io sia, tu resti qui.
Presente e muto.
Il silenzio sazia la rabbia,
i fantasmi trattengono il sonno in ostaggio
e fanno della notte, giorno
e del giorno tenebre fitte.
Muto e in tempesta il mare,
furioso e silenzioso
con il porto sempre a vista
e irragiungibile,
un’ancora senza terra da toccare
che scende a vuoto
legata ad un filo infinito.
E non è vero niente
e non è falso niente.
Solo la mia voce,
solo i miei errori
recitati a memoria davanti allo specchio.
Il tempo non trova più la strada
non procede diritto
non ha meta,
si attorciglia attorno al corpo,
lega i piedi,
copre gli occhi,
serra le mani
e gira e gira.
La speranza vanitosa
cambia ogni giorno la sua veste,
si tinge, si trucca, cambia faccia
ed è estranea ogni volta,
vicina e irriconoscibile.
Sono io che non sento?
Sono io che non sento?
Ho perso l’udito e la fame,
sono io che non sento.
Amore muto,
labbra serrate da dolori antichi,
che le tue parole trovino la via di uscita,
e possano crescere forti,
posarsi ovunque, germogliare,
arrampicarsi veloci sui muri,
saltare gli ostacoli,
attraversare i mari.
E alle mie orecchie, rese sorde dalla troppa attesa
possa giungere notizia, un giorno,
delle tue labbra socchiuse alla gioia.

Settembre senza titolo

Foto di Herbert List.

Foto di Herbert List.

Pensavi fossero eterne le mie risate?
Gioco di rincorse tra le ombre del vento.
Fuori
trema la terra di lievi sospiri.
Dal buio alla luce,
le tue palpebre d’oro,
si apre e si schiude la bocca
un migrare di sillabe mute.
Lontano,
riposa il corpo stremato,
l’occhio non dorme,
fame, sete, scintille.
Tutto il presente in un punto
fisso
il passare dei giorni.
Fuoco di viscere in fiamme,
il sangue su palmo di mani,
foglie di rami sugli occhi.
Viene il futuro all’indietro
cieco
su strade di fame.

O a Palermo o all’inferno!

Da quando ho deciso di tornare a vivere a Palermo ho l’impressione che tutto a Roma mi rivolga lo sguardo. La città mi guarda, mi guardano le strade, i platani, i gatti di Torre Argentina. Mi guardano i turisti, i conducenti dei bus, i gabbiani, il Tevere, il Cupolone. Mi guardano senza fiatare. Non dicono nulla. Uno sguardo muto e intenso. Uno sguardo al quale non si può rispondere se non con occhi muti e intensi.
“A Palermo?” – mi ha chiesto un’amica, al telefono, con un tono interrogativo simile a quello che avrebbe avuto se gli avessi detto che ero in partenza per combattere la guerra santa in  Pakistan.
– “Si, a Palermo”, ho risposto io.
– “Ma l’insegnamento lì te lo danno?”
– “No”.
– “E quindi lasci uno stipendio sicuro, a Roma, per tornare a Palermo…”
– “Ehm…Si”.
– “A Palermo?”.
– “Si, ti ho detto, a Palermo”.
– “Che immagino sia la stessa Palermo dove siamo cresciute e dalla quale sono scappata”.
– “Si, è la stessa”.
– “E tu ci torni dopo tre anni di vita a Roma dove hai un lavoro sicuro senza garanzia di un qualsivoglia stipendio…”
– “Esatto”.
– “Aaaaaah… (silenzio). Ma perchè????????”.
– “Non lo so esattamente. Ma devo farlo, anzi no non devo, voglio farlo…So che è giusto così, so che voglio provare a vivere con le cose che Roma ha donato a me, di me”.

Roma, tre anni fa sono arrivata da te con degli obiettivi da raggiungere, una manciata di desideri e qualche dubbio. Adesso ti lascio con molti obiettivi mancati, desideri inediti e una valanga di dubbi. Quello che ero te lo sei rosicchiato poco a poco, quasi senza che io potessi accorgermene per poter lottare con te ed evitare che accadesse. Hai estirpato con pazienza quasi tutte le cose che pensavo di sapere e che credevo di dover/voler essere. Son partita da casa tanto pigra da non voler fare neppure un bollettino alla posta, adesso torno a Palermo in grado di far ripartire la caldaia, smacchiare i vestiti, cucinare, sterminare le formiche, entrare e uscire dall’ospedale, litigare con i vigili urbani, farmi le punture da sola, dire la mia ai consigli di classe, leggere un contratto, tenere a bada 400 ragazzini a settimana, asciugare le prime lacrime di un cuore spezzato, compilare il modulo per le ferie, usare un registro elettronico, capire come si entra e si esce dal raccordo anulare; so organizzare una rassegna stampa e so come si gestisce la diretta di una trasmissione radio, so fare la scaletta di un programma e so che non bisogna credere a tutto quello che viene detto nei corridoi della Rai. E, alcune volte, so perfino fare queste cose quasi contemporaneamente.
Mai avrei immaginato quale vita mi stavi preparando mentre abbattevi ciò che conoscevo, Roma città piena di segreti. Mai avrei immaginato di saper resistere alla vita con tale costanza, mai avrei creduto di saper condividere il pane del mio lavoro con la solitudine di cene piene di inverno.
Roma, mi hai insegnato a saziarmi delle briciole, raccolte con pazienza nei lunghi tragitti in tram. Racimolare i frammenti della vita degli altri e poi rovistarci dentro alla ricerca di un’esistenza che tutti ci accomuna. Ho mille tramonti di cui ringraziarti, infiniti passi donati, generosi e furiosi, alle tue strade.
Roma, che mi hai nutrito di Pasolini e temporali, di strade innevate a festa e di notti calde in attesa di vacanza.
Roma, che mi hai insegnato a parlare e che generosa e severa mi hai fatto recuperare con fretta violenta il necessario per vivere.
Roma, che hai mischiato la mia carne e il mio sangue con la carne e il sangue di tutti. Roma benedetta, che mi hai insegnato la bellezza di essere normale, di camminare sconusciuta e sola dentro all’ammasso intricato del mondo:

Stupenda e misera città, 
che m’hai insegnato ciò che allegri e feroci 
gli uomini imparano bambini,

le piccole cose in cui la grandezza 
della vita in pace si scopre, come 
andare duri e pronti nella ressa

delle strade, rivolgersi a un altro uomo 
senza tremare, non vergognarsi 
di guardare il denaro contato

con pigre dita dal fattorino 
che suda contro le facciate in corsa 
in un colore eterno d’estate;

a difendermi, a offendere, ad avere 
il mondo davanti agli occhi e non 
soltanto in cuore, a capire

che pochi conoscono le passioni 
in cui io sono vissuto:
che non mi sono fraterni, eppure sono

fratelli proprio nell’avere 
passioni di uomini 
che allegri, inconsci, interi

vivono di esperienze 
ignote a me. Stupenda e misera 
città che mi hai fatto fare

esperienza di quella vita 
ignota: fino a farmi scoprire 
ciò che, in ognuno, era il mondo. (P. Pasolini)

Roma, adesso devo andar via, proprio adesso che ho imparato a vivere insieme a te la lunga lotta del trascorrere quotidiano del tempo. Torno a casa, ma non torno a ciò che ho lasciato. Di quanto ho lasciato non esiste più nulla se non il mare e l’affetto di una famiglia che non è solo legame di sangue, ma radici pazienti e profonde che ci intrecciano gli uni gli altri. Lo so che Palermo è una città feroce. Ma so che posso reggere il suo sguardo adesso. Lo so che Palermo non avrà riguardo per me e che non mi riserverà nessun trattamento di favore per essere tornata. Rimmarrà così com’è, bellissima e violenta e quando incassando i suoi colpi  mi accascerò con un filo di sangue che esce dalla bocca, lei mi dirà seria e con voce ferma: “Io non ti avevo promesso niente”.
WP_20140530_044Palermo che non prometti niente, io torno da te lo stesso. Posso, adesso, che ho imparato a sopportare l’assenza del compimento. Voglio, adesso, che non sei una resa, ma una scelta. Posso, adesso, ora che ho imparato a non aver paura dei miei squilibri ora che sorridendo apro la porta ad una strana e folle forza che diventa parole da scrivere e disegni tra le dita, idee e progetti da rischiare, ora che la vittoria la vedo nella possibilità di esistere e non soltanto nella capacità di realizzare, anzi, ora che la vittoria non è più un traguardo da tagliare.
Palermo Palermo, è inutile che mi guardi così. Io lo so. Lo so che queste cose che ho imparato sono solo una piccola parte dell’equipaggio necessario a vivere dentro al tuo assedio. Ma io torno lo stesso.
Torno sapendo che ti maledirò e ti amerò, e ti urlerò dietro la tua crudeltà e rimarrò muta davanti a te. Ma se non torno, adesso, i semi che Roma mi ha piantato dentro non marciranno e non ci sarà frutto. E non provare a vivere secondo quanto si intuisce vero è l’unica morte che oggi temo.
Bixio: Generale, finalmente siamo giunti nella tanto desiderata città di Palermo.
Garibaldi: Nino, domani a Palermo.
Bixio: Riusciremo ad entrare in questa città, generale?
Garbaldi: Nino, o a Palermo o all’inferno! (M. Cuticchio).

Redenti dal racconto

(foto di Matt Weber)

(foto di Matt Weber)

Ieri ho passato la giornata sui mezzi pubblici. Bus, tram, metro. Ho attraversato la città. Ho incrociato una quantità di persone che non so quantificare e sono passata attraverso pensieri numerosi e diversi. Sui mezzi in movimento i pensieri diventano spaziosi. E non so perchè. Eppure accade, così. Fin dai tempi in cui il sabato sera si andava, tutta la famiglia, in campagna, e in macchina, poggiavo la testa al finestrino e guardando fuori mi pareva di poter arrivare ovunque. Il mondo prende un ritmo diverso, veloce, le figure si sfumano, si allungano. Non esiste pesantezza nè lentezza.

Viaggiando sui mezzi, a Roma, si incontra tanta gente. Spesso capita di intercettare frammenti di conversazione, litigi, racconti, indicazioni. A volte ci sente uniti da una strana sorta di complicità. In fondo – pensavo ieri, guardando i miei compagni di viaggio, ad uno ad uno  – so cosa mangerai sta sera o perchè il capo ufficio ti ha fatto perdere la pazienza; so cosa hanno detto i prof sul rendimento di tuo figlio oppure cosa ha fatto quello stronzo con cui sei uscita l’altra sera. I mezzi pubblici sono una condivisione anonima ed estrema della vita. Anche chi concede i suoi occhi soltanto allo smartphone partecipa qualcosa di sè al resto dell’equipaggio. C’è chi scorre il dito sullo schermo con ritmo convulso e disordinato. E mentre lo fa sorride o cruccia le sopracciglie. Oppure si invia un messaggio e poi si sospira passandosi le mani tra i capelli. E  si capisce, allora, quanto sia difficile il momento. Spesso mi diverto a leggere i titoli dei libri di chi in metro entra già con le pagine aperte sotto gli occhi e cerco di capire, un poco almeno, a seconda dei titoli, le persone. Sui mezzi pubblici ci sono veri e propri equilibristi, capaci di rimanere in piedi, con i libri in mano, nonostante le frenate da paris dakar. All’ora di punta arrivano i professionisti con quello strano odore che solo le 8 ore di ufficio lascia addosso. Hanno il corpo dentro ad un vestito da riunione importante, al collo la cravatta e la faccia che si scioglie, piano piano, man mano che la strada li riconduce a casa: da facce dure a facce stanche. Ci sono anche brutte facce sui mezzi pubblici, sguardi da non incrociare, occhi infelici affamati di rabbia. Turisti, immigrati, anziani. Ci siamo, tutti. Come un appello senza assenti. Tutti presenti, tutti diretti alla stessa meta ma ciascuno su una rotta diversa.

A volte, invece, ci sente soffocare. Tutto appare squallido: bus, strade, persone. C’è chi spinge, c’è chi urla, chi pesta i piedi e chi puzza. I mezzi pubblici divorano il buon umore e ne sputano i resti agli angoli delle strade. Ieri però il bus andava, procedeva verso la sua meta, scaricando uomini e donne qua e là, ed io ascoltavo musica. Con le cuffie, si, la mia musica, quella che più amo. E mi sono accorta che la musica cambia lo sguardo, lo trasfigura. Cambia la faccia alle persone e la trasforma proprio dentro, davanti ai nostri occhi. Mi è accaduto di pensare che ciascuna delle persone che avevo accanto fosse una storia. Si, una storia, bella o triste, tragica o violenta. E ho pensato che se ci si accostasse alla vita della gente, e forse anche alla propria, con la stessa curiosità e attenzione che riserviamo ai protagonisti dei libri che leggiamo, sarebbe meno duro l’essere uomini tra gli uomini.

Ho pensato che ogni vita ha il diritto di diventare storia: trasfigurata dalle parole, salvata dalla narrazione, redenta dal racconto. Ogni vita dovrebbe passare dalle parole per essere compresa, come una rivelazione di sé a se stessi, prima di tutto. E non è certo il parlarsi addosso o l’imporsi, la violenza di chi non vede oltre la propria vicenda, perchè il racconto è sempre condivisione, la privazione di qualcosa. Le parole sono azione coraggiosa, il rischio dell’affidarsi e lasciarsi custodire da qualcuno. Quando una vita diventa storia e la storia è raccontata con le parole giuste ci si commuove, si sa. Il racconto non è  cronoca nera. Forse per questo certe notizie ci turbano, per la violenza delle cose accadute, certo, ma anche per l’assenza di narrazione, per la ricerca morbosa di particolari che si impongono sulla vita, che si sostituiscono alla trama, che inghiottono tutto. La trama è il filo che costituisce la parte trasversale del tessuto ed è un intreccio che non può essere sciolto se non si vuole rinunciare al tessuto, tutto intero. E se la musica trasfigura gli occhi e le parole trasformano le vite, chissà cosa accadrebbe se musica e parole fossero alla portata di tutti.

Penso a quando, tra amici si dice: “Ci sentiamo più tardi, devo raccontarti una cosa!”. Non fare la cronoca di un momento della giornata, ma raccontare, riuscire a far entrare l’altro nella trama della propria vita, dare spessore ai personaggi, permettere di vivere e condividere quello che si è vissuto. Per questo non si può raccontare tutto a tutti.

Un buon narratore però, deve saper usare la punteggiatura. Perchè le pause e i silenzi fanno la storia tanto quanto le parole. Senza il silenzio non c’è attesa e senza attesa nessun desiderio.

Le vite più dure sono quelle senza parole. E i drammi più grandi quelli nei quali la comunicazione si interrompe e muore. Niente ci fa soffrire quanto l’attendere da chi amiamo parole che non arrivano, niente come non saper dire le parole che pure sappiamo di possedere. I personaggi dei racconti non sono certo interscambiabili. Senza questo o quel personaggio la storia prende una direzione differente, la trama si infittisce o si allarga e spesso si è costretti ad un finale imprevisto.

Non ci sono più anni

(Foto di Fogato)

(Foto di Fogato)

Erano gli anni
che però quegli anni non finiscono
e a un certo punto
non ce la fai più a sentire
nostalgia degli anni che erano.

Se è un tempo che serve
per dire le cose
e io è quelle che voglio dire, le cose
vuol dire che farò venire il tempo
o mi troveranno loro, le parole
da dire per questo che vivo.

E dicendo mi staccherò
finalmente da una terra
che non si pensa più.

Dall’alto la vedrò bella quant’è bella
con le persone piegate
che mi sentiranno nel cielo
essere come loro
e cazzo amen per mille volte
spariranno le ombre dalle facce
limpide e grate d’ogni uomo.

Se ci sono state parole giuste
per quegli anni, ripeto
ce ne saranno di altre per questi
e chi le trova? Io voglio essere
il trovatore anche se poi
mi chiedo se sia vero la parola
a mancare e non il tempo.

Perché sì, l’inedito di oggi
sembra e mi lego a questo sembra
l’inaudita mancanza di anni:
non ci sono più anni
a cui dare parole nel tempo,
solo giorni staccati da terra
che ci lasciano ancora.

Marco Bisanti

Non c’è linguaggio senza inganno

Il filosofo sedeva sul prato. Disse: – I segni formano una lingua, ma non quella che credi di conoscere -. Capii che dovevo liberarmi dalle immagini che fin qui m’avevano annunciato le cose che cercavo: solo allora sarei riuscito a intendere il linguaggio di Ipazia.

Ora basta che senta nitrire i cavalli e schioccare le fruste e già mi prende una trepidazione amorosa: a Ipazia devi entrare nelle scuderie e nei maneggi per vedere le belle donne che montano in sella con le coscie nude e i gambali sui polpacci, e appena s’avvicina un giovane straniero lo rovesciano su mucchi di fieno o di segatura e lo premono con i saldi capezzoli.

E quando il mio animo non chiede altro alimento e stimolo che la musica, so che va cercata nei cimiteri: i suonatori si nascondono nelle tombe; da una fossa all’altra si rispondono trilli di flauti, accordi d’arpe.

Certo anche a Ipazia verrà il giorno in cui il solo mio desiderio sarà partire. So che non dovrò scendere al porto ma salire sul pinnacolo più alto della rocca ed aspettare che una nave passi lassù. Ma passerà mai? Non c’è linguaggio senza inganno

(James e Michael Fitzgerald)

(James e Michael Fitzgerald)