Redenti dal racconto

(foto di Matt Weber)

(foto di Matt Weber)

Ieri ho passato la giornata sui mezzi pubblici. Bus, tram, metro. Ho attraversato la città. Ho incrociato una quantità di persone che non so quantificare e sono passata attraverso pensieri numerosi e diversi. Sui mezzi in movimento i pensieri diventano spaziosi. E non so perchè. Eppure accade, così. Fin dai tempi in cui il sabato sera si andava, tutta la famiglia, in campagna, e in macchina, poggiavo la testa al finestrino e guardando fuori mi pareva di poter arrivare ovunque. Il mondo prende un ritmo diverso, veloce, le figure si sfumano, si allungano. Non esiste pesantezza nè lentezza.

Viaggiando sui mezzi, a Roma, si incontra tanta gente. Spesso capita di intercettare frammenti di conversazione, litigi, racconti, indicazioni. A volte ci sente uniti da una strana sorta di complicità. In fondo – pensavo ieri, guardando i miei compagni di viaggio, ad uno ad uno  – so cosa mangerai sta sera o perchè il capo ufficio ti ha fatto perdere la pazienza; so cosa hanno detto i prof sul rendimento di tuo figlio oppure cosa ha fatto quello stronzo con cui sei uscita l’altra sera. I mezzi pubblici sono una condivisione anonima ed estrema della vita. Anche chi concede i suoi occhi soltanto allo smartphone partecipa qualcosa di sè al resto dell’equipaggio. C’è chi scorre il dito sullo schermo con ritmo convulso e disordinato. E mentre lo fa sorride o cruccia le sopracciglie. Oppure si invia un messaggio e poi si sospira passandosi le mani tra i capelli. E  si capisce, allora, quanto sia difficile il momento. Spesso mi diverto a leggere i titoli dei libri di chi in metro entra già con le pagine aperte sotto gli occhi e cerco di capire, un poco almeno, a seconda dei titoli, le persone. Sui mezzi pubblici ci sono veri e propri equilibristi, capaci di rimanere in piedi, con i libri in mano, nonostante le frenate da paris dakar. All’ora di punta arrivano i professionisti con quello strano odore che solo le 8 ore di ufficio lascia addosso. Hanno il corpo dentro ad un vestito da riunione importante, al collo la cravatta e la faccia che si scioglie, piano piano, man mano che la strada li riconduce a casa: da facce dure a facce stanche. Ci sono anche brutte facce sui mezzi pubblici, sguardi da non incrociare, occhi infelici affamati di rabbia. Turisti, immigrati, anziani. Ci siamo, tutti. Come un appello senza assenti. Tutti presenti, tutti diretti alla stessa meta ma ciascuno su una rotta diversa.

A volte, invece, ci sente soffocare. Tutto appare squallido: bus, strade, persone. C’è chi spinge, c’è chi urla, chi pesta i piedi e chi puzza. I mezzi pubblici divorano il buon umore e ne sputano i resti agli angoli delle strade. Ieri però il bus andava, procedeva verso la sua meta, scaricando uomini e donne qua e là, ed io ascoltavo musica. Con le cuffie, si, la mia musica, quella che più amo. E mi sono accorta che la musica cambia lo sguardo, lo trasfigura. Cambia la faccia alle persone e la trasforma proprio dentro, davanti ai nostri occhi. Mi è accaduto di pensare che ciascuna delle persone che avevo accanto fosse una storia. Si, una storia, bella o triste, tragica o violenta. E ho pensato che se ci si accostasse alla vita della gente, e forse anche alla propria, con la stessa curiosità e attenzione che riserviamo ai protagonisti dei libri che leggiamo, sarebbe meno duro l’essere uomini tra gli uomini.

Ho pensato che ogni vita ha il diritto di diventare storia: trasfigurata dalle parole, salvata dalla narrazione, redenta dal racconto. Ogni vita dovrebbe passare dalle parole per essere compresa, come una rivelazione di sé a se stessi, prima di tutto. E non è certo il parlarsi addosso o l’imporsi, la violenza di chi non vede oltre la propria vicenda, perchè il racconto è sempre condivisione, la privazione di qualcosa. Le parole sono azione coraggiosa, il rischio dell’affidarsi e lasciarsi custodire da qualcuno. Quando una vita diventa storia e la storia è raccontata con le parole giuste ci si commuove, si sa. Il racconto non è  cronoca nera. Forse per questo certe notizie ci turbano, per la violenza delle cose accadute, certo, ma anche per l’assenza di narrazione, per la ricerca morbosa di particolari che si impongono sulla vita, che si sostituiscono alla trama, che inghiottono tutto. La trama è il filo che costituisce la parte trasversale del tessuto ed è un intreccio che non può essere sciolto se non si vuole rinunciare al tessuto, tutto intero. E se la musica trasfigura gli occhi e le parole trasformano le vite, chissà cosa accadrebbe se musica e parole fossero alla portata di tutti.

Penso a quando, tra amici si dice: “Ci sentiamo più tardi, devo raccontarti una cosa!”. Non fare la cronoca di un momento della giornata, ma raccontare, riuscire a far entrare l’altro nella trama della propria vita, dare spessore ai personaggi, permettere di vivere e condividere quello che si è vissuto. Per questo non si può raccontare tutto a tutti.

Un buon narratore però, deve saper usare la punteggiatura. Perchè le pause e i silenzi fanno la storia tanto quanto le parole. Senza il silenzio non c’è attesa e senza attesa nessun desiderio.

Le vite più dure sono quelle senza parole. E i drammi più grandi quelli nei quali la comunicazione si interrompe e muore. Niente ci fa soffrire quanto l’attendere da chi amiamo parole che non arrivano, niente come non saper dire le parole che pure sappiamo di possedere. I personaggi dei racconti non sono certo interscambiabili. Senza questo o quel personaggio la storia prende una direzione differente, la trama si infittisce o si allarga e spesso si è costretti ad un finale imprevisto.