Qualcosa accade, sempre.

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Venerdì sera, una villa vicino al mare, fulmini che illuminano il cielo e pioggia e vento a far tremare i vetri.
Delle sei persone con cui ho trascorso la serata, a parte l’uomo che mi vuol bene, ne conoscevo, appena, solo una. Ma la sensazione di non conoscersi è durata poco.
Il tempo di prendere da bere, aprire il pacco di sfoglie cariche di burro con lo zucchero a velo ad imbiancare il pavimento, schiacciare qualche noce, accendere l’impianto stereo.

Eravamo lì, insieme, per la musica.

Ciascuno con i suoi cd sotto braccio o le tracce di spotify o i video di youtube da proporre agli altri componenti di questo strano strano gruppo, motivando la scelta, spiegando cosa quella canzone, quel pezzo significasse, dando notizie sull’album, il cantante, la versione che stavamo ascoltando.
Attorno a quel tavolino di briciole e bicchieri di whisky e vino dolce, seduti, ad ascoltare… E’ stato bello, per tutti. E’ stato bellissimo, per me.

Lo è stato perché la musica era forte, intensissima, perché il suono dell’impianto stereo montato per l’occasione, sublime. Ma anche perché la serata si è trasformata in un viaggio. Non solo per la svariata provenienza dei brani, ma sopratutto per le storie che li hanno accompagnati. Storie di ricordi, di anni ’70 vissuti nel vortice dei vent’anni, di legami nati su quelle note di basso e rulli di batteria. Storie di incontri, di emozioni, di concerti, di amori, di delusioni, di attese. Ho visto occhi brillare o chiudersi lentamente per immergersi  nel suono, ho visto sorrisi e sguardi complici.

Non serviva conoscere i singoli avvenimenti della vita di ciascuno; gli amori, i dolori, gli errori o i rimpianti né tanto meno sapere cosa ci fosse in cuore quella sera, quale situazione si era lasciata a casa o quali timori, aspettative o angosce si sarebbero ripresentate alla porta con il nuovo giorno, la musica raccontava tutto.

L’una e mezza della notte è arrivata in fretta, tra pause di sigaretta e cd da mixare. L’atmosfera vissuta posso provare solo a descriverla, ma i brani che ho amato maggiormente tra quelli ascoltati, quelli posso condividerli e far viaggiare anche voi.

Fra tutti l’intro di Lust for life di Iggy Pop, è il mio pezzo preferito. Un minuto ed undici secondi che sembrano sempre uguali e che pare siano infiniti, come se stesse per succedere qualcosa, come se non potesse succedere niente. Ma, per fortuna, qualcosa accade sempre, se ci si (ri)mette in piedi e si comincia a cantare.

Ecco, alzate il volume:

Una perla di ragazza

(foto di Barry Feinstein)

(Janis Joplin, foto di Barry Feinstein)

Da quando gli anni ’70 hanno fatto irruzione nella mia vita attraverso la storia di chi era un ragazzo in quegli anni, ho imparato, conosciuto e cominciato ad amare molte, moltissime cose e ho compreso che quegli anni esistono come una traccia genetica, inconscia, ma fortissima nella vita di chiunque sia arrivato dopo.

Janis Joplin fino a qualche mese fa era per me uno dei tanti nomi leggendari della musica: Jim Morrison, Bob Dylan, Jimi Hendrix, John Lennon…. Questa estate, invece, percorrendo le assolate strade del Portogallo, ho scoperto chi fosse. Osannata per la sua voce blues, particolarissima in una donna bianca, capace di interpretare brani dal folk al rock and roll (per esempio: https://www.youtube.com/watch?v=sfjon-ZTqzU) e morta come tutte le stars della musica a 27 anni.

Ma della sua storia, più di tutto, mi ha impressionato il disagio e l’inquietudine che l’hanno quasi costretta ad una ricerca continua di se stessa e alla gestione di una sofferenza molto molto profonda.
Dicevano che non fosse bella e pensava anche lei di non esserlo. Grassa per tutta la durata della sua maledetta adolescenza e con la pelle del viso rovinata dall’acne era il bersaglio perfetto per quella massa di idioti presenti nelle scuole di ogni tempo. Janis pativa la solitudine e desiderava essere amata da tutti, tutti, senza distinzione. Scappò via dalla cittadina del Texas dove era nata, da un futuro scritto che la voleva sposata ad un brav’uomo e insegnante in una scuola di provincia. A diciassette anni scoprì di saper cantare e da allora, fino alla morte, non fece altro che questo: cantare e desiderare l’amore.

Io solitamente ascolto Janis Joplin quando sono triste o quando ho bisogno che la malinconia prenda una forma. Possiede una strana forza Janis: quella di portare in corpo un grande tormento e di riuscire a condividerlo come un dono. E’ graffiante ed è dolce. Sfacciata a volte e timida come una bambina. Ascoltare Janis Joplin è come partecipare ad un dolore che è di tutti e cantare con lei aiuta a capire che la fragilità non è una colpa e che nello sguardo di ciascuno si può ritrovare un frammento di qualcosa che ci appartiene.

Janis entrava ed usciva dai tornanti dell’eroina continuamente, era la sua tragica metafora della vita. Vi entrava per amore e vi usciva per amore. Janis ha fatto tutto per amore. Non si è accorta di morire e questo mi consola quando la penso spaventata per la sua solitudine. Forse aveva troppa vita addosso per attraversare l’esistenza  camminando su sentieri già battuti: “Lei non riusciva a trovar il modo per essere come tutti gli altri. Grazie al cielo”, raccontano i suoi amici.

Tra le mie canzoni preferite c’è “To love somebody” ( https://www.youtube.com/watch?v=fkGUt4QYc08; testo e traduzione: http://www.theblacksnack.com/to-love-somebody-janis-joplin/). Mi piace perché descrive bene la sua paura di non poter essere veramente amata da qualcuno. Janis era emotivamente onesta. Patty Smith che l’ha conosciuta e frequentata durante la permanenza al Chelsea Hotel, racconta: Janis trascorse gran parte della festa in compagnia di un bel ragazzo che le piaceva, ma poco prima dell’orario di chiusura il tizio se la svignò con una delle sue leccapiedi più carine. Janis ne fu sconvolta: “Capita sempre a me. Un’altra notte da sola”. Io la riportai in camera. Quando feci per andarmene si guardò allo specchio, e sistemò i boa di piume: “Come ti sembro amica?”.  “Una perla – le risposi. Una perla di ragazza”. (da Just Kids di Patti Smith).

Nel 2005 al 72° Festival di Venezia è stato presentato un documentario che ripercorre la sua storia, guardatelo se potete (https://www.youtube.com/watch?v=UI3NxZIcd2A). E’ molto bello. Viaggerete con lei tra le vie tortuose, tragiche e bellissime dell’animo umano, tra la California e Manhattan, fino al compimento di una vita che sembra spezzata solo in superficie. Nel montaggio è inclusa la lettura di alcune sue lettera. Quella che amo in particolare si conclude con una esclamazione che è forse un grido, forse una bestemmia, ma che a me sembra davvero una delle più belle preghiere che abbia mai sentito in vita mia: “Cristo, quanto cazzo vorrei essere felice!”.

 

Redenti dal racconto

(foto di Matt Weber)

(foto di Matt Weber)

Ieri ho passato la giornata sui mezzi pubblici. Bus, tram, metro. Ho attraversato la città. Ho incrociato una quantità di persone che non so quantificare e sono passata attraverso pensieri numerosi e diversi. Sui mezzi in movimento i pensieri diventano spaziosi. E non so perchè. Eppure accade, così. Fin dai tempi in cui il sabato sera si andava, tutta la famiglia, in campagna, e in macchina, poggiavo la testa al finestrino e guardando fuori mi pareva di poter arrivare ovunque. Il mondo prende un ritmo diverso, veloce, le figure si sfumano, si allungano. Non esiste pesantezza nè lentezza.

Viaggiando sui mezzi, a Roma, si incontra tanta gente. Spesso capita di intercettare frammenti di conversazione, litigi, racconti, indicazioni. A volte ci sente uniti da una strana sorta di complicità. In fondo – pensavo ieri, guardando i miei compagni di viaggio, ad uno ad uno  – so cosa mangerai sta sera o perchè il capo ufficio ti ha fatto perdere la pazienza; so cosa hanno detto i prof sul rendimento di tuo figlio oppure cosa ha fatto quello stronzo con cui sei uscita l’altra sera. I mezzi pubblici sono una condivisione anonima ed estrema della vita. Anche chi concede i suoi occhi soltanto allo smartphone partecipa qualcosa di sè al resto dell’equipaggio. C’è chi scorre il dito sullo schermo con ritmo convulso e disordinato. E mentre lo fa sorride o cruccia le sopracciglie. Oppure si invia un messaggio e poi si sospira passandosi le mani tra i capelli. E  si capisce, allora, quanto sia difficile il momento. Spesso mi diverto a leggere i titoli dei libri di chi in metro entra già con le pagine aperte sotto gli occhi e cerco di capire, un poco almeno, a seconda dei titoli, le persone. Sui mezzi pubblici ci sono veri e propri equilibristi, capaci di rimanere in piedi, con i libri in mano, nonostante le frenate da paris dakar. All’ora di punta arrivano i professionisti con quello strano odore che solo le 8 ore di ufficio lascia addosso. Hanno il corpo dentro ad un vestito da riunione importante, al collo la cravatta e la faccia che si scioglie, piano piano, man mano che la strada li riconduce a casa: da facce dure a facce stanche. Ci sono anche brutte facce sui mezzi pubblici, sguardi da non incrociare, occhi infelici affamati di rabbia. Turisti, immigrati, anziani. Ci siamo, tutti. Come un appello senza assenti. Tutti presenti, tutti diretti alla stessa meta ma ciascuno su una rotta diversa.

A volte, invece, ci sente soffocare. Tutto appare squallido: bus, strade, persone. C’è chi spinge, c’è chi urla, chi pesta i piedi e chi puzza. I mezzi pubblici divorano il buon umore e ne sputano i resti agli angoli delle strade. Ieri però il bus andava, procedeva verso la sua meta, scaricando uomini e donne qua e là, ed io ascoltavo musica. Con le cuffie, si, la mia musica, quella che più amo. E mi sono accorta che la musica cambia lo sguardo, lo trasfigura. Cambia la faccia alle persone e la trasforma proprio dentro, davanti ai nostri occhi. Mi è accaduto di pensare che ciascuna delle persone che avevo accanto fosse una storia. Si, una storia, bella o triste, tragica o violenta. E ho pensato che se ci si accostasse alla vita della gente, e forse anche alla propria, con la stessa curiosità e attenzione che riserviamo ai protagonisti dei libri che leggiamo, sarebbe meno duro l’essere uomini tra gli uomini.

Ho pensato che ogni vita ha il diritto di diventare storia: trasfigurata dalle parole, salvata dalla narrazione, redenta dal racconto. Ogni vita dovrebbe passare dalle parole per essere compresa, come una rivelazione di sé a se stessi, prima di tutto. E non è certo il parlarsi addosso o l’imporsi, la violenza di chi non vede oltre la propria vicenda, perchè il racconto è sempre condivisione, la privazione di qualcosa. Le parole sono azione coraggiosa, il rischio dell’affidarsi e lasciarsi custodire da qualcuno. Quando una vita diventa storia e la storia è raccontata con le parole giuste ci si commuove, si sa. Il racconto non è  cronoca nera. Forse per questo certe notizie ci turbano, per la violenza delle cose accadute, certo, ma anche per l’assenza di narrazione, per la ricerca morbosa di particolari che si impongono sulla vita, che si sostituiscono alla trama, che inghiottono tutto. La trama è il filo che costituisce la parte trasversale del tessuto ed è un intreccio che non può essere sciolto se non si vuole rinunciare al tessuto, tutto intero. E se la musica trasfigura gli occhi e le parole trasformano le vite, chissà cosa accadrebbe se musica e parole fossero alla portata di tutti.

Penso a quando, tra amici si dice: “Ci sentiamo più tardi, devo raccontarti una cosa!”. Non fare la cronoca di un momento della giornata, ma raccontare, riuscire a far entrare l’altro nella trama della propria vita, dare spessore ai personaggi, permettere di vivere e condividere quello che si è vissuto. Per questo non si può raccontare tutto a tutti.

Un buon narratore però, deve saper usare la punteggiatura. Perchè le pause e i silenzi fanno la storia tanto quanto le parole. Senza il silenzio non c’è attesa e senza attesa nessun desiderio.

Le vite più dure sono quelle senza parole. E i drammi più grandi quelli nei quali la comunicazione si interrompe e muore. Niente ci fa soffrire quanto l’attendere da chi amiamo parole che non arrivano, niente come non saper dire le parole che pure sappiamo di possedere. I personaggi dei racconti non sono certo interscambiabili. Senza questo o quel personaggio la storia prende una direzione differente, la trama si infittisce o si allarga e spesso si è costretti ad un finale imprevisto.