Dal vivo: la scuola, la vita, la realtà.

(AFP PHOTO)

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“Dal vivo” è un’espressione che ha molteplici significati:
1. che assume come modello diretto la realtà: ritratto dal vivo; ritrarre, dipingere dal vivo;
2. di programma radiofonico o televisivo, trasmesso in diretta; trasmettere dal vivo;
3. di concerto, brano o incisione discografica, eseguito e registrato al di fuori della sala di registrazione, direttamente a contatto con il pubblico: disco, esecuzione dal vivo
4. di brano vocale o strumentale, eseguito senza l’ausilio del playback; cantare dal vivo.

Ma il vocabolario non dice nulla sulle emozioni o sulle esperienze, è il limite di tutte le definizioni lasciar fuori qualcosa.
Pensare, desiderare di dare un bacio non è come dare un bacio “dal vivo” e cercare su google foto dell’oceano non è come vederlo, odorarlo, ascoltarlo “dal vivo”.

Per questo motivo all’inizio dell’anno scolastico che adesso volge al termine, abbiamo pensato ad un progetto che permettesse ai ragazzi di sperimentare “dal vivo” ciò che troppo spesso arriva loro come una cascata di parole morte, confuse, stereotipate, violente, vuote. Lo abbiamo chiamato “IntegrAzione” e realizzarlo è stato bellissimo.
Due seconde classi, due indirizzi diversi: tecnico chimico e liceo scientifico (sez. B e T dell’I.S. Majorana, Palermo), una trentina di ragazzi quindicenni che, per loro stessa testimonianza, hanno vissuto un’esperienza in grado di mutare il modo di guardare e considerare il fenomeno dei flussi migratori.
Li abbiamo scritti sulla lavagna, bianco su nero, gli stereotipi legati ai migranti:
– Sono terroristi
– Ci stanno invadendo
– Portano malattie
– Rubano il lavoro agli italiani
– Puzzano
– Non pagano l’affitto
– Non sono poveri perché hanno il cellulare
– Delinquono.
E li abbiamo visti crollare uno ad uno questi stereotipi, man mano che ascoltavamo la testimonianza di chi lavora nella prima accoglienza, di chi conosce i paesi di provenienza dei migranti, man mano che studiavamo i decreti del parlamento europeo a riguardo, valutavamo gli interessi economici dietro agli accordi dei nostri governi con la Libia e con la Turchia, guardavamo documentari, imparavamo insieme ad osservare la realtà così com’è e non come ci viene restituita da Facebook, da Striscia la Notizia e o dalle Iene Show. Abbiamo mostrato come si fa a riconoscere una “bufala” da una “notizia” e indicato fonti di informazione credibili. E così, settimana dopo settimana, bianco su nero, gli stereotipi e i luoghi comuni hanno fatto posto alle domande sorte nell’animo dei ragazzi grazie alle nuove conoscenze e consapevolezze acquisite:
– Perché se Russia e Cina appoggiano la dittatura di Bashar al Assad in Siria la comunità internazionale lascia morire mezzo milione di civili?
– Perché in Germania i migranti aumentano il Pil del paese e noi li teniamo chiusi nelle prigioni dei “centri di identificazione ed espulsione”?
– Perché l’Europa non si mette mai d’accordo con una politica comune sulle migrazioni?
– Perché tutti dicono che i neri non li vogliono, ma poi ci sono le macchine ferme davanti alle prostitute di colore?

Sono ottimi osservatori i ragazzi, vero? Osservatori spietati a volte. Ci inchiodano alle nostre contraddizioni, ma è una buona cosa, è l’obiettivo a cui tendiamo.
Quando la dott.ssa Marta Bellingreri è venuta a scuola per incontrare i ragazzi ed ha parlato loro dei suoi viaggi nei paesi arabi e della sua personale esperienza, fatta di incontri con persone in cammino verso l’Europa, facendo vedere foto e narrando storie, i ragazzi hanno ascoltato per un’intera ora senza fiatare. Era un’esperienza diretta, “dal vivo” e non hanno fatto fatica a prestare attenzione.
Lo stesso è accaduto con i due giovani medici che operano a bordo delle navi di soccorso nel canale di Sicilia, il dott. Davide Di Spezio e il dott. Salvo Zichichi. I loro racconti e le fotografie che hanno portato per documentare il lavoro svolto sono stati un pugno allo stomaco. Qualcuno tra i ragazzi strizzava gli occhi, qualcun altro si metteva la mano davanti alla bocca. Quanto è terribile la realtà e quanto ci vien facile renderla invisibile! I due medici hanno risposto con pazienza a tutte le domande ed hanno raccontato di non aver mai avuto a che fare con persone affette da malattie in grado di scatenare chissà quale epidemie nel nostro paese. Piuttosto devono far fronte ad ipoglicemie e disidratazioni, a difficoltà di deambulazione per i giorni in cui i migranti stanno fermi, rannicchiati in un angolo su un barcone in balia del mare, devono far fronte ad ustioni da carburante e ai primi certificati di morte per i corpi senza nome che non sono riusciti a rianimare o ad afferrare per i capelli mentre li vedevano andare giù. Era anche questa una testimonianza “dal vivo”, molto più forte di qualunque video o documentario o lezione ben preparata sul fenomeno migratorio.

Infine, hanno parlato due ragazzi provenienti dal Senegal e dal Gambia, due ragazzi che la nostra scuola la frequentano e che hanno avuto un coraggio da giganti a raccontarsi di fronte ai compagni. La loro testimonianza non la riporto in questo articolo, perché io non ho un coraggio da gigante e le cose terribili che hanno raccontato proprio non le so ripetere. Sono parole che vanno ascoltate “dal vivo”, appunto, con l’emozione di apprendere dalla loro voce cosa han dovuto affrontare e di vederli incredibilmente vivi davanti ai propri occhi. Penso, invece, che sia più importante raccontare della compostezza e della dignità con cui hanno condiviso la loro storia, della evidente fatica del sopportare lo stereotipo del “povero negro”, perché loro non erano poveri e non erano infelici nel loro paese, prima che la dittatura divenisse soffocante e pericolosa, prima che le bande mafiose minacciassero la morte ogni santo giorno. Uno di loro sogna di fare il medico, l’altro di diventare un atleta. Alla fine del loro racconto hanno ringraziato pubblicamente me, la mia collega, che tanto ha concretamente fatto per loro, i medici presenti, i compagni e gli italiani, poiché gli stanno offrendo “la possibilità di essere piano piano di nuovo felici”.

A me il loro grazie è sembrato ingiusto e immeritato, perché accogliendoli noi non stiamo facendo un favore a nessuno, ma semplicemente mettiamo in atto un diritto, riconosciuto dalla Carta internazionale dei diritti dell’uomo e sancito dalla nostra Costituzione all’art.10: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”.

La speranza è che i ragazzi che hanno partecipato al progetto sentendo mutare in tempo reale lo sguardo sulla realtà, così come loro stessi hanno detto, scritto, raccontato a noi professoresse, alimentino questa metamorfosi e se ne ricordino quando saranno chiamati al voto e alla responsabilità delle loro scelte personali. Speriamo altresì che la scuola, in tutte le sue componenti, sappia riconoscere la presenza dei ragazzi stranieri, i presenti e quelli che verranno, come una risorsa preziosissima grazie proprio a queste loro storie, alle esperienze di vita e anche per le numerose lingue che conoscono, per le diverse tradizioni e culture di cui sono testimonianza viva. Lavoriamo perché la scuola sia profetica, che possa cioè mostrare modelli di una società migliore e che  non sia, invece, specchio di una non-cultura della finzione, della mentalità del “non sono razzista però…”. Speriamo che la scuola sia officina operosa di cose nuove che rischiano il cambiamento e sempre promuovono la persona.
Perché la foto del morso sulla coscia di una donna salvata dalla morte nel nostro mare, il morso di chi nel tentativo di non affogare si attaccava coi denti alla vita, una foto vera, scattata e raccontata “dal vivo”, possa veramente restituirci il senso di quel che viviamo e di quel che facciamo.

P.s. E a proposito, tutti gli esperti intervenuti hanno dedicato il loro tempo e le loro competenze a titolo totalmente gratuito. Andava detto. A loro il nostro sentito e sincero ringraziamento.

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Le migliori risorse del mondo

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Esistono case speciali, lo si capisce non appena si varca la soglia. Case antiche piene di tracce, di passaggi lunghi intere generazioni.
Questa di cui vi racconto è una casa di campagna, le colline attorno sono severe, sembra quasi Palestina, il sole è forte, la brezza asciutta. I muri esterni son pieni di licheni e il confine è una linea ruvida di muretti a secco: un incastro di pietre che restano unite senza ausilio, solo la loro capacita di sostenersi a vicenda e una sapienza antica che le ha messe insieme una sull’altra, a mani nude, una ad una.

photo_editor_1496586203877Le vernici sugli infissi semi scrostate disegnano sentieri sottili, piccole rughe da seguire con lo sguardo, lentamente, mentre i pensieri vagano liberi, finalmente affrancati dagli inevitabili gioghi della vita di città. Le maniglie aprono le porte se le si tira in su e sui muri l’intonaco, venuto giù chissà quando e come, disegna macchie grandi come bocche di drago. La stufa emana odore di cenere e legna e sulle pareti che appaiono nude passeggiano i millepiedi e restano immobili le farfalle notturne. Attorno alla casa tutto è brullo e vivo. L’erba è selvatica come il più indomito degli spiriti: alta, incolta, spinosa. Se la si guarda con attenzione la si vede muoversi lentamente, è selvaggia, ma ondeggia esile. La brucerà il sole piano piano, da verde diventerà gialla e morirà. Senza dolore né scandalo. Resterà sul terreno, secca, a spezzarsi sotto ogni passo fino alle piogge d’autunno, quando la terra, appena più morbida, la riprenderà con sé. Per ora sul terreno sono adagiate milioni di miliardi di foglie di quercia. Se le si mette in fila, mentre si sta seduti sui sassi, fuori dal tempo e lontani da ogni fretta, con le formiche che passeggiano lungo le caviglie, si scopre che non esiste una uguale all’altra. Milioni di miliardi  di diversità.

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Per me questa è la casa delle storie. Quando al mattino apro la porta e sento sotto i piedi nudi la pietra dura del pavimento, guardo fuori, e ascolto le voci di chi, qui, è stato bambino: le biciclette, le trappole per i merli, le corse, le esplorazioni, il superamento dei primi confini. Immagino le cene a fine giornata: tutti intorno alla mensa, la fame giovane, la stanchezza serena. Immagino i racconti degli adulti, le storie narrate bocca a bocca che abitavano nella notte i sogni dei ragazzini. Immagino lo spazio interiore di quei bambini dilatarsi alla vista di alberi, pietre e animali, come terreno sottratto per sempre al cinismo dell’età adulta, eterno rifugio ai colpi bassi della vita, luogo sicuro di umanità. Qui i bambini erano cacciatori e guerrieri, avventurieri e contadini, affidati alle prime responsabilità nella gestione di se stessi. Al tramonto sulle panchine di pietra ricoperte di aghi di pini, queste storie mi vengono narrate non come ricordo del passato, ma come origine del presente. Ascolto e vedo. Ovunque le prove vive delle cose accadute: gli amici ritrovati ogni anno, le cicatrici condivise, gli amori, le “cose” da ragazzi,  gli errori, da stagione a stagione, come se l’estate fosse un tempo continuo senza  buio e freddo di mezzo, come la tessitura di una stoffa preziosa, senza strappi. Il silenzio avvolge le storie, si odono gli uccelli soltanto e le mucche, un tintinnio di campanacci, in lontananza.

Le storie narrate pian piano diventano l’esperienza di chi le ascolta: si ricostruiscono i volti e s’imparano i nomi di chi non c’è più: vecchi pastori, contadini, uomini con le facce sorridenti e grandi lavoratori, donne silenziose dall’animo grande come la campagna, a perdita d’occhio. S’imparano le storie dei ritratti in bianco e nero sui muri, delle mani che hanno scolpito i mobili e che hanno piantato gli alberi.

Raccontare le storie, le proprie storie, quell’impasto di parole e di accadimenti che ci sostiene, è un’atto di grande coraggio, è come spezzare e mangiare, insieme, il pane che ci mantiene vivi. Il rischio è immenso, ma farlo vuol dire aver ancora fiducia in se stessi, negli altri, nelle migliori risorse del mondo: “Verrà un giorno, vedrai, che tu stesso di certi timori farai oggetto di risa; e ciò sarà quando uscito in qualche modo da tanta solitudine, avrai constatato che il mondo, quando non è malato, è buono e se non lo è, essendo soltanto malato ha bisogno, per guarire, di tutto il nostro intelligente amore”.

– Anna Maria Ortese, L’iguana.

Risate di ragazza

(illustrazione di Thomas Danthony)

(illustrazione di Thomas Danthony)

Dalla finestra di casa mia sento ridere una ragazza. Quasi ogni sera, sempre a quest’ora.

Non so chi sia, ma ride in un modo che è impossibile non andarle dietro, almeno con un sorriso, mentre dopo cena si rimettono a posto i piatti.

E’ strano come da una risata si possa riuscire a determinare la fascia di età di una persona. Lei, la ragazza, dovrebbe avere circa vent’anni, glieli sento negli acuti e nel fiato, nella durata e nell’intensità del suono.

Succede d’estate di scoprire suoni nuovi oppure nascosti in altre stagioni.
Cambia il sottofondo delle nostre vite con le finestre spalancate alla bella stagione.

Io son fortunata, il mio sottofondo estivo è fatto di grilli, uccelli notturni, ululato di cani e risate di ragazza.

E’ una partitura bellissima. E lei è la voce solista.

Anche quello che non è nostro e che non possiamo controllare, può renderci felici. Anzi, forse proprio perché non c’è spazio di possesso che il cuore si sente libero di partecipare e quindi, lieto.

Oramai l’aspetto ogni sera. Siamo amiche io e la sua risata.

Dovremmo ridere tutti con le finestre aperte nelle sere d’estate.

Ad occhio nudo

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Ho scelto il mare tra le pietre. Lontano dalle spiagge attrezzate, affollate, martoriate. Qualche scalino diroccato per accedere a scogli biforcuti come lingue pietrificate di rettili. Pietre ostili ed abbandonate. Pietre che costringono a premeditare i passi, uno ad uno. Tra gli scogli trovo tutta la miseria del nostro popolo: cassette di polistirolo gettate dai venditori ambulanti di pesce. Scendono tra gli scogli a cercare alghe per ornare i pesci comprati al mercato tutti in fila ed eguali, per farli sembrare figli unici rubati al mare. Poi, a vendita avvenuta, quel che rimane lo buttano via insieme alle cassette, perché se una cosa non la si vede, non c’è. Si dissolvono le responsabilità. La preoccupazione di farla franca è più forte della bellezza e dell’armonia, più forte delle meraviglie che ci sono toccate in sorte. Non ci lasciamo educare dalla bellezza. La bellezza ci terrorizza, perché possiede una energia vitale che tutto coinvolge. E così le cassette coi resti di pesce si, erano oscene, ma drammaticamente familiari. Brandelli di animali a soddisfare quel senso della morte che noi siciliani portiamo nel DNA come anello immutabile, di generazione in generazione.

L’aria era fresca, il sole caldo, il mare leggermente increspato, il suo profumo ovunque. Nonostante fossi in compagnia sono rimasta a lungo in silenzio, un silenzio pieno, comunicativo, sereno. Ma non sono riuscita a pensare a nulla, perché tutta l’immobilità delle pietre si è animata, piano piano, esigendo la mia attenzione. Quando si guardano le stelle nelle notti d’estate, più si osserva il cielo più aumenta il numero di stelle che ad occhio nudo si riescono a guardare. L’occhio nudo. Una nudità antica, fragile, ma tenace.

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A tener fisso lo sguardo sugli scogli, a lungo, si scoprono mille piccole, piccolissime vite a prima vista invisibili: i pomodori di mare, rossi e morbidi, strane lumache con un guscio a piramide che camminano lentamente e costantemente da una parte all’altra, senza mostrare mai il proprio corpo. Sembra solo un guscio mobile, con un segreto dentro. Poi ci sono i granchi, piccoli, neri o color della pietra. Sono veloci e buffi, spariscono dentro i fori di quelle rocce modellate dall’acqua, piene di nascondigli e luoghi inaccessibili. E infine gli insetti: piccoli e grandi, con le ali, senza ali, neri o colorati. Colonie intere che si sono disperse non appena ci siamo accampati su una delle pietre meno ostili, per poi tornare sporadici e in pace, a cercar di recuperare il proprio spazio, le proprie attività.

In mare, vicino agli scogli che sprofondano in acqua nuotano pesci invisibili: li si vede solo se ci si ferma a guardare per minuti lunghi e senza fretta. Piccoli pesci quasi trasparenti, altri perlati, altri ancora neri e marroni, qualcuno rosso. Molti nuotano con disinvoltura senza una direzione precisa, almeno così pare. Destra sinistra, destra sinistra…senza metà. Altri restano aderenti agli scogli e più che nuotare, strisciano. Delle pietre assumono i colori e con le stesse si confondo stando fermi, immobili.

In cielo, i gabbiani. Uno di loro ci ha tenuto compagnia. Aveva avvistato i resti di pesce. Davanti a noi ha eseguito una serie di manovre di ammaraggio perfette. Planava leggero, aerodinamico, preciso. Pian piano ha preso confidenza, ha capito che noi non eravamo armati di nessun odio o istinto di morte nei suoi confronti, solo di un po’ di invidia per la sua leggerezza, per la possibilità di spiccare il volo diretti ovunque. Due, tre, quattro saltelli, poi in un baleno ha preso il pesce e penzolante dal becco lo ha portato un po’ a largo per consumare il simbolo del nostro animo decadente in santa pace.

L’acqua era fredda e pulita. Il corpo timido.

Io ho paura del mare, anche se ho un passato di nuotatrice. In mare non ci sono i confini delle piscine olimpiche e l’acqua è troppo, troppo leggera. Si nuota con minore fatica e maggior pensiero. In piscina, durante i km di allenamento il cervello riposa, i pensieri lasciano il posto alla gestione dello sfinimento, della stanchezza, dei muscoli doloranti. Quando nuoto in mare il mio cervello resta vigile, in allerta. Il mare è incontrollabile. E’ pieno di vite che non conosco, di cui percepisco e so la presenza, ma che non vedo. Mi sento guardata dalla forza primordiale del mondo e mi spavento.
Lo amo e lo temo, come nelle migliori delle tradizioni.
“Il mare è traditore”, si dice. Ma forse è semplicemente molto molto molto più grande e potente di noi. L’occhio, l’occhio nudo non lo può comprendere, anzi, il mare è a perdita d’occhio. Ne possiamo scegliere una porzione, piccola, tra le pietre, osservare il suo mondo attorno, perfino dentro, ma non di più.

Tra uno scoglio e l’altro c’era una piccola cavità. Ad ogni spinta del mare verso terra la cavità si riempiva d’acqua e quando l’acqua si ritirava appena, si svuotava. Sembrava come un ventricolo. Anche le pietre respirano.

La sera a casa il sole a picco sulle spalle restituiva il calore. La nostra è una pelle fragile. Non voliamo, non nuotiamo nelle profondità, non possiamo esporci a lungo al sole che riflette sull’acqua. Siamo inadatti al mare e per poterlo vivere dobbiamo attrezzarci di molti strumenti.

Esercita su di noi il fascino delle cose grandi, e come l’acqua tra gli anfratti degli scogli, il mare arriva dentro, lì dove si annidano i sentimenti migliori, i sogni grandi, gli amori mai sopiti. Il mare placa la rabbia che corrode e restituisce il senso della misura delle cose. E le cose, le situazioni, gli stati d’animo e i pensieri, sono molti, diversi, come i pesci e le lumache di mare sono invisibili ad uno sguardo frettoloso e disattento. Tutto sembra uguale, ma niente lo è davvero. Abbiamo bisogno di tempo, di calma, di pazienza e di curiosità per permettere all’occhio nudo di guidarci nel mare aperto delle nostre complessità.

Che salpino le navi…

Sogno: dal latino SOMNIUM, sonno. Immagini che vengono nella mente durante il sonno oppure “finzione, cosa passeggera”.

Visione: dal latino VIDERE, vedere. Funzione sensoria per la quale gli occhi pongono gli uomini e gli animali in rapporto con il mondo esteriore, con l’intermedio della luce”.

Realtà: dal latino RES, cosa. Oggetto che esiste, sostanza, verità.

Dilatare: da DIS(che indica separazione) e LATUS, esteso spazioso. Accrescere in estensione e ampiezza.

SOGNO di VEDERE la REALTA’.
VEDO la REALTA’ da SOGNARE
DILATO coi SOGNI la REALTA’.

Darsi pace

(foto di Carlo Columba)

(foto di Carlo Columba)

La notte che fa paura ai bambini e spaventa gli ammalati, mette in fuga le finzioni ed inghiotte con le luci le sue ombre!

I bus tornano al deposito lenti, mentre sfrecciano le auto di ragazzi in fuga dal mondo, almeno per una sera.

Nessuno è innocente e la notte nasconde tutti.

La luce che a tratti ci fa bello lo sguardo, nella notte allunga le radici. E’ frutto di molti silenzi, della veglia prolungata a forza cercando di rimettere insieme  pezzi di corpo e cuore o di dar senso a ciò che spezzato non torna intero.

(foto di Carlo Columba)

(foto di Carlo Columba)

Al sonno si mescola rabbia, solitudine, l’amarezza dei giorni infelici oppure la pace di una felicità tutta da sbocciare, ancora, al riaffacciarsi del sole. Vorremmo che la luce svelasse al nostro sguardo un mondo diverso, sogniamo di poter mutare noi col mondo lasciando alle strade deserte della sera quel che possediamo e non vogliamo.

Temiamo che all’alba appaia immutato il muro scrostato dell’animo, quel lento sgretolarsi di polveri che lascia intravedere il cemento, vivo e grezzo, che tutto può ri-diventare, ma che non riesce ad essere altro.

La notte, laboriosa e nascosta, cantina di sogni che invecchiano col vino di raccolti antichi, lasciati troppo a lungo a macerare nelle botti. E’ l’aceto amaro di ogni buona cosa rimandata, sempre a domani.

La notte accorcia le distanze: gli amanti si pensano, gli amori si toccano, i figli cercano le madri e chiedono il seno con l’istinto buono e senza parole che la vita essenziale possiede. Nel sonno si allungano le mani in cerca del contatto.

(foto di Carlo Columba)

(foto di Carlo Columba)

Affiora alla coscienza quel che con il giorno non pensiamo, non domiamo. La notte apre i cancelli delle gabbie e lascia camminare in unico spazio, fianco a fianco, le belve e le prede.

La notte ruba il riposo agli artisti. E’ tempo di visioni. In cielo volano i mammiferi e gli uccelli, tacciano. Si ribaltano i sensi ed è al contrario che bisogna porsi, voltare le spalle a se stessi per poterli ri-afferrare. Il bene è il bene? E il male cos’è?

La notte è breve per chi impasta il pane, ha i pensieri vivi, di carne, tra le dita delle mani. Le mani dei filosofi non parlano, invece, e la notte è per loro come un giro di valzer che non sa fermarsi.

Le luci di chi non dorme si accendono come torce di solidarietà agli insonni del mondo.

Bisogna darsi pace: se ne andrà, la notte. E poi, tornerà ancora.

Ma a se stessi, la pace.

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Un canto di gioia in lingua straniera

(Foto di Carlo Columba)

(Foto di Carlo Columba)

Ha occhi di satiro che incantano i cani. Gli girano attorno come una festa.
Tra i capelli una burrasca e in gola le voci di venti lontani. Non ha casa né patria, ma non si allontana oramai oltre il rumore della risacca. Ovunque ha bisogno, come aria, del canto del mare.

A mani nude ne coglieva i frutti, a pelo d’acqua e giù, più a fondo, dove gambe di ragazzo lo spingevano a cercare il punto di congiunzione tra la vita e la morte. Lì, tra i polpi e le roccia, privo di aria e di fiato, sentiva l’eco di sé bambino e manteneva il contatto con gli avi e con i semi futuri.

Sugli alberi la notte cercava riparo, aveva un cuore solitario che parlava una lingua straniera, diversa dalla sua. Si comprendevano a gesti, un linguaggio muto di segni segreti filtrato dalle foglie e dalle rughe profonde delle cortecce. Le fronde lo riparavano dalla luce bianca e blu riflessa dal mare, perché lui sempre volgeva lo sguardo dove gli occhi di altri non potevano posarsi a lungo. Sul far della sera cantava coi merli e con le braccia forti si dondolava fra i rami, sempre in equilibrio tra cadute rovinose e salti da acrobata.

Una notte volle misurarsi nella corsa, fare diversamente, saltare la caccia dei ricci tra l’acqua e il sale, l’apnea che gli era familiare, le fronde del riparo e il canto notturno degli uccelli. Corse a perdifiato, fu bravo. Era veloce anche a terra e i piedi si abituarono presto al suolo e alle pietre d’inciampo. Corse troppo veloce però,  e si ritrovò lontano dal mare e dagli alberi, perse il richiamo della risacca e si spense in lui la luce del satiro. Mancarono di forza le braccia e i polmoni si abituarono all’aria. I cani lo seguivano in fila, muti. Riuscì tuttavia ad amare la terra, i sassi, la luce fioca, ma il cuore smise di parlare la sua lingua straniera e non c’erano più merli a salutare la notte.

Fu un vento venuto da lontano a riportarlo a casa, in un giorno di fitto silenzio. Soffiava dal mare verso il centro della terra, soffiava, soffiava e gli riportò alle orecchie la risacca, il sale e il guizzo di pesci nelle acque profonde.
All’improvviso cominciò a correre, di nuovo, senza pensare, come sospinto da un incantesimo atteso, come un’urgenza di vita a trapassargli di ardore e dolore le membra. Correva a perdifiato, anche questa volta, ma nella direzione opposta. Pativa la stanchezza, la paura del richiamo, il pensiero di non trovare nulla di quanto avesse lasciato. Invece, il mare, era lì. Accecante di bianco e di blu. Lo fissò a lungo e dall’agitarsi festoso dei cani capì di aver riaperto lo sguardo alla luce del satiro. Si arrampicò a fatica su un albero e senti il cuore intonare un inno di gioia in lingua straniera.

Da allora il mare lo richiama ogni notte. Ma lui, ogni notte, aspetta. Il ragazzo che stringeva tra le mani i polpi vivi e ne succhiava la vita con la bocca di labbra carnose, si era perduto. Non poteva tornare in acqua prima di ritrovarlo. Ad ogni tramonto, sul far della sera, con suono cristallino i merli ne invocano unanimi il ritorno e tutte le creature del mare attendono di rivederli insieme, per ricongiungere gli avi ai semi futuri.

“La Siria, la scuola, il nostro destino”

Frequentavo la 1° elementare quando Mu’ammar Muhammad Abu Minyar ‘Abd al-Salam al-Qadhdhafi cioè il generale Gheddafi lanciò due missili SS-1 scud verso Lampedusa. Fu allora che mi resi conto della vicinanza geografica tra noi, la Sicilia, e l’Africa araba.

Frequentavo la 5° elementare, invece, quando scoppiò la “guerra del golfo” guidata da George H. W. Bush e fu allora che compresi quanto vicino a noi fosse anche il Medio Oriente. In entrambi i casi alla sigla del Tg correvo in camera per nascondermi sotto al letto e non ascoltare gli aggiornamenti sulla guerra, per fuggire quel senso di pericolo e quella difficoltà invincibile alla comprensione. Cattura defAnche se frequentavo le elementari, infatti, la teoria degli americani buoni e degli arabi cattivi mi convinceva poco e non perché fossi esperta a quell’età di politica estera o storia, ma semplicemente perché mi guardavo allo specchio e mi guardavo attorno e non vedevo facce “americane” volermi bene e prendersi cura di me, vedevo facce arabe: per me gli arabi erano i buoni!

Quando da bambina rientravo dalle vacanze al mare mia nonna mi abbracciava e poi volgeva lo sguardo preoccupato verso i miei genitori dicendo: “E fatele prendere un poco meno sole, pare proprio saracena!”.

Durante i miei viaggi all’estero o negli anni trascorsi nella penisola fuori Sicilia, mi sono sentita chiedere infinite volte se fossi italiana. Rispondere: “Si, sono italiana, vengo da Palermo”, mi è parsa sempre una mezza verità.

(Castello della Zisa, Palermo)

(La Zisa, Palermo)

Solo il tempo e gli incontri della vita mi hanno aiutata a prendere consapevolezza di quanto fosse forte quel richiamo, quella voce lontana ma distinta che mi portava a leggere autori arabi e ad interessarmi delle vicende legate a quella realtà. E per la mia naturale propensione a preferire le storie periferiche e gli attori non protagonisti, ho sempre amato moltissimo, come credo abbia pure fatto il patriarca Abramo, sia Agar che Ismaele (cfr. Genesi 16-21), senza dovere, per tale ragione, diminuire o censurare il fascino e la meraviglia per la storia ebraica di cui mi occupavo per i miei studi biblici.

Proprio per questo, quanto vissuto negli ultimi giorni è per me la realizzazione concreta di una parte della mia identità personale oltre ad essere la realizzazione di un sogno.

(Da destra: Adel el-Ali; Safa Neji; Anna Ponente e me, presso la palestra dell'I.S. Majorana)

(Da destra: Adel el-Ali; Safa Neji; Anna Ponente e me, presso la palestra dell’I.S. Majorana)

Quando il 29 luglio del 2013 Paolo Dall’Oglio è stato rapito in Siria, mi sono sentita come travolta da un’urgenza: leggere, studiare, capire, parlare, fare. Le sue parole erano state per me come il fuoco ed io, adesso, non potevo non cominciare ad occuparmi davvero del suo amore più grande: la Siria. Con il tempo mi sono resa conto che la Siria per quanto stava accadendo al suo popolo era, in realtà, affare di tutti, premura per tutti. E così, iniziando ad insegnare ho cominciato ad elaborare progetti finalizzati a far conoscere e comprendere le Rivoluzioni arabe, la vicenda siriana, l’Islam.

Non è andata sempre bene. Ad esempio una volta, proprio subito dopo un incontro in aula magna su Paolo Dall’Oglio, ho sentito due ragazze parlare tra loro dicendo, cito testualmente: “Ma chi cazzo se ne frega, ma chi è questo e lei cosa vuole da noi!”. Mi sono addolorata, ovviamente, moltissimo. E tante volte, ancora oggi, mi accade di rientrare a casa desiderando di fare qualunque altro lavoro, ma non questo!

(Introduzione all'intervento del giornalista e scrittore Italo Siriano, Shady Hamadi)

(Introduzione all’intervento del giornalista e scrittore italo siriano, Shady Hamadi)

Ma la scuola è un posto incredibile, davvero poco intellegibile per chi la guarda da fuori. Forse sono in grado di comprenderla più i contadini che i funzionari del Ministero della pubblica istruzione (già sul termine “Istruzione” si potrebbe e si dovrebbe discutere a lungo). La scuola è un luogo di semina spesso senza raccolta, perché il tempo buono della mietitura si compie lontano dalle aule e dai banchi, lì dove la vita non ha più protezioni e pretende d’esser vissuta. I ragazzi a cui insegno non sono né grandi né piccoli, sono come un grumo di potenza vitale atomica pronta ad esplodere, giorno dopo giorno. Sono giovani, ma spesso già feriti a morte, alcuni sembrano impermeabili a tutto, altri chiedono di uscire dall’aula perché il confronto diretto è troppo per loro.

(I.S. Majorana, Palermo)

(I.S. Majorana, Palermo)

Ma ieri erano lì tutti e duecento, ciascuno con la propria capacità di attenzione, forse inadeguata all’intensità degli argomenti trattati, al peso delle parole che descrivevano esperienze che nessuno dovrebbe vivere. Ieri, a scuola, i ragazzi hanno potuto incontrare ed ascoltare chi dalla Siria è giunto fin qui grazie ai corridoi umanitari della chiesa Valdese e della comunità di Sant’Egidio.

(Safa Neji e Adel el-Ali)

(Safa Neji e Adel el-Ali)

Quando Adel, siriano di Homs, ha cominciato a parlare in arabo io mi sono sentita felice, perché la sua voce che rimbombava all’interno della palestra di questa scuola palermitana di periferia, era per me una vittoria sugli slogan urlati in tv, sulla mala politica, sul giornalismo populista. Eravamo lì tutti insieme e ci stavamo in pace. Le domande dei ragazzi a Shady Hamadi, autore di “Esilio dalla Siria. Una lotta contro l’indifferenza” erano domande sincere, curiose, piccoli germogli, fragili e forti insieme, venuti fuori da ore e ore e ore di lavoro in classe.

(La dirigente dell'I.S. Majorana, dott.ssa Melchiorra Greco)

(La dirigente dell’I.S. Majorana, dott.ssa Melchiorra Greco)

E’ stato bello ieri perché c’eravamo tutti: ragazzi, docenti, dirigente, personale ATA, tutti. E’ stata la comunità scolastica ad accogliere Shady Hamadi, Fabrizio Piazza (libreria Modusvivendi), la dott.ssa Anna Ponente, direttrice del centro La Noce – Istituto Valdese, la mediatrice culturale Safa Neji e Adel el- Ali. Ciascuno aveva collaborato alla realizzazione di questo incontro ed è per questo che per tutti è stato importante.

(Shady Hamadi firma le copie del suo "Esilio dalla Siria")

(Shady Hamadi firma le copie del suo “Esilio dalla Siria”)

Da ieri ricevo messaggi di persone sconosciute che mi ringraziano per la presentazione di “Esilio dalla Siria” presso la libreria Modusvivendi e di ragazzi e colleghi che sentono di voler condividere con me le emozioni di un’esperienza forte perché vera.

(presentazione di "Esilio dalla Siria" presso la libreria Modusvivendi, Palermo)

(presentazione di “Esilio dalla Siria” presso la libreria Modusvivendi, Palermo)

(Shady Hamadi)

(Shady Hamadi)

Ha ragione Shady Hamadi quando con la forza dei suoi ventotto anni e la carica della sua rabbia sacrosanta ci esorta, soprattutto, ad incontrarci e parlare. Discutere della Siria, del mondo arabo e di qualunque cosa possa alimentare il pensiero critico, il solo capace di renderci individui liberi pronti ad assumersi la responsabilità della propria vita anche rispetto a quanto accade attorno.

Ieri non abbiamo certo posto fine alla guerra in Siria e non abbiamo potuto sollevare nessuno dalle sofferenze del conflitto. Eppure quel che abbiamo vissuto e fatto ha superato realmente il bipolarismo sempre oscillante tra assenza di pensiero e azione o rassegnazione, che molti ci presentano come unica alternativa possibile. Non è così ed è questa la mia, la nostra resistenza!

 Mio giovane amico,

T’immagino, o ti spero, animato da un desiderio di impegno. Sei musulmano, cristiano, credente, ateo o in ricerca, e io mi rivolgo alla tua aspirazione al bene […]. 
O ci mettiamo sulla strada della differenza oppure sulla strada della morte o si accetta la differenza oppure la si sopprime. La Siria è, da questo punto di vista, un luogo altamente centrale e simbolico. Non si tratta qui soltanto di un povero popolo abbandonato nell’est del Mediterraneo, bensì di questioni che sono di urgente attualità ovunque nel mondo. Dibattendo della Siria, tu e il tuo vicino, cristiano, musulmano, ebreo o altro, è di voi che parlate: discutete delle vostre stesse relazioni. Quando gli europei evocano la Siria, parlano del loro destino.

                           da “Collera e Luce. Un prete nella rivoluzione Siriana” di Paolo Dall’Oglio

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(Una fra le mie foto preferite di Paolo Dall’Oglio)

(Le foto presso la libreria Modusvivendi e l’I.S. Majorana sono di Carlo Columba)

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Sulla linea ultima della terra

(Molo di Mondello, Palermo. Foto di Carlo Columba)

(Molo di Mondello, Palermo. Foto di Carlo Columba)

Qualche settimana fa, la mattina era di primavera, il cielo cobalto, il mare di cristallo. Io pedalavo con uno sguardo alla spiaggia e uno alla strada, i capelli sugli occhi, il vento nelle orecchie, molte promesse nel cuore.
Mi sono fermata al molo, l’ho percorso tutto, raggiungendo la linea che segna la fine della terra ferma. Su quella linea un ragazzino stava immobile, in piedi, col costume bagnato appiccicato alle cosce, le scarpe da tennis zuppe, le braccia dritte lungo i fianchi e le spalle rigide, per proteggersi da un vento molto leggero, ma ancora troppo freddo.
“Hai freddo?” – gli ha chiesto, infatti, una signora. Lui ha scosso la testa facendo segno di no, mentre batteva i denti e si sollevava sulle punte dei piedi. Poi ha fatto un passo indietro e ispirando in fretta ha cominciato a correre su quella esile linea di confine, ed è volato via. A me è parso restasse in aria con le ginocchia al petto per un tempo infinito. Di fronte aveva il sole, sopra di lui il blu, sotto di lui il blu. Gli schizzi sembravano un fuoco d’artificio di acqua e di sale. E’ riemerso dal mare come un reperto antico e prezioso, lentamente, su su, fino in superficie. Ha nuotato per tornare al punto di partenza, si è arrampicato sugli scogli per ricominciare a giocare sulla linea ultima della terra. Io l’ho guardato negli occhi per pochi secondi, era vivo e giovane, ed era felice.

Nessun confine

Kasbah di Mazara del Vallo.

Kasbah di Mazara del Vallo.

In arabo confine si dice al hudud. L’ho imparato da poco. Ed ho capito ieri che saperlo non mi servirà a niente. Tra la Sicilia e l’Africa settentrionale il confine non esiste. Esiste una sponda, poi un tratto di mare, poi un’altra sponda.

Mi hanno spiegato che in Sicilia sono due le zolle che s’incontrano, la Sicilia è una terra mista. La val di Noto è d’Africa, il resto è d’Europa. E lì dove le due zolle provano da millenni a diventare una sola l’Etna si agita di fuoco e di potenza.
Da Mazara del Vallo la Tunisia dista 153 chilometri. Se ci fosse una strada al posto del mare potremmo andare e tornare da un altro continente in tre ore appena. Ma la strada non c’è. E noi restiamo quell’isola che spesso non vorremmo essere.

Mazara è una città bianca. E’ bianca di riflessi di luce sul mare e di intonaco fresco della Kasbah, il quartiere tunisino che da lì continua qui, sulla sponda opposta, come se fosse, compreso il mare, un’unica grande città, unita, uguale. Dove le sue stradine s’intrecciano e non arriva il frastuono del traffico i sussurri si amplificano come in passato le voci degli uomini antichi. Sui muri ogni ceramica racconta una storia di incontri, di colori, di vita condivisa tra le due sponde, fra innesti riusciti e conquiste di sangue. Non è facile la pace. E Mazara prova a dirlo in ogni modo possibile.

Per strada, di tanto in tanto, s’incontrano ragazzine adolescenti di lingua araba. Parlano velocemente, muovendo le mani e gli occhi come fanno le ragazze, mettendoci dentro tutta la vita in eccesso che portano in corpo e che cade al passaggio, come scia di terra verdeggiante. Sono gesti familiari in una lingua simile ma diversa, come ascoltare la propria voce senza capirne a fondo significato e suono. Io ho sorriso più volte, per quella mia pelle scura come la loro. I compagni a scuola mi prendevano in giro, perché sembravo tornare dal mare d’estate anche se era dicembre: “Ma chi sì tuicca?” (“Ma che sei turca?”), mi dicevano. Ma senza farmi male, perché io avevo la pelle di papà e tanto mi bastava per sentirmi al sicuro. Mamma, poi, mi spiegava che noi, i siciliani, siamo mescolati con il sangue degli arabi e io mi sentivo meticcia e felice.

Sul Porto Canale i pescherecci che restano sono il piccolo resto di un passato ben più glorioso. Li ha inghiottiti il mal governo, più feroce del mare in tempesta. La tempesta è nella sua natura e il mare la scatena senza poterne fare a meno; la mala politica, invece, tradisce se stessa e i diritti degli uomini che abbandona alla fame. Sembrava triste il porto così enorme, vuoto e fermo; la ruggine del rimorchiatore, le reti ammucchiate a prua, le vernici scrostate a cancellare i nomi delle imbarcazioni e le speranze di pesca. Sembrava una solenne cattedrale abbandonata dai fedeli e dai canti di gioia. Bellissima però, sempre e ancora bellissima.

Piazza della Repubblica, Mazara del Vallo. Foto di Carlo Columba.

Piazza della Repubblica, Mazara del Vallo. Foto di Carlo Columba.

La piazza di Mazara è un incanto: i palazzi hanno lo stesso colore della sabbia e le cupole sono verde smeraldo e brillano di sole. E’ ampia e mi è sembrata solida e festiva, anche se deserta e silenziosa. I bar  vendono i “vuccunieddi”, bocconi di pasta di mandorla ripieni di cedrata e avvolti nella carta d’argento, per farli luccicare forse, come il mare o come le cupole. A me sono sembrati morbidi e buoni, una metafora della città, che è bella, ma a “bocconi” piccoli, perché appena fuori dal centro storico la periferia ha lo squallore di troppe identità tradite.

Ho pranzato sulla spiaggia di Capo Feto, un’oasi naturale di pantani e fenicotteri bianchi chinati a cercar cibo. Piccole dune di sabbia cambiano col vento, ovunque le poseidonie spiaggiate a migliaia e di fronte a me il mar Mediterraneo. L’ho guardato a lungo, calmo e blu con il suo orizzonte mutevole e nessun confine. A guardarlo, però, ci vuol coraggio, perché quel mare non è il Tirreno che bagna Palermo e guarda a nord, quello è il canale di Sicilia, il custode severo dei morti a migliaia.
Solo 153 chilometri. Se fossi nata tre ore più a Sud, adesso, forse, sarei tra le donne che portano avanti la rivoluzione dei paesi arabi, sarei impegnata a rivendicare insieme al mio popolo, quel che un centinaio di chilometri più su, invece, si va perdendo senza troppa consapevolezza o grande dolore.

Riserva Capo Feto, Mazara del Vallo. Foto di Carlo Columba.

Riserva Capo Feto, Mazara del Vallo. Foto di Carlo Columba.

A Mazara si mescolano la malinconia e la speranza che le città di mare possiedono, abituate come sono alle partenze, alle attese, allo strazio per chi non fa ritorno. Costrette ad imparare i segnali del mare e del cielo e pazienti di racconti, di avventure spaventose, di incontri straordinari, di avvistamenti fiabeschi. Dal mare viene il cibo e la benedizione della vita, dal mare i nemici e la distruzione e sul mare la paura della morte fino alla pazzia.

Prima di rientrare ho reso omaggio al satiro danzante, questa volta l’armonia delle sue forme l’ho vissuta come un augurio e quel volteggiare che l’assenza di braccia, di una gamba e l’immobilità della statua non riescono a celare mi è parso indicasse un segreto di vita, una strada sapiente da trovare ancora.

Satiro danzante, Museo del Satiro, Mazara del Vallo. Foto di Carlo Columba.

Satiro danzante, Museo del Satiro, Mazara del Vallo. Foto di Carlo Columba.

Secondo la Bibbia esiste una strada nel mare, la mostra Dio al suo popolo per salvarli dalla morte certa, dall’esercito nemico ormai alle spalle e dalla schiavitù del faraone.
Mi piace pensare che dalle coste di Mazara, la città bianca, una strada possa essere trovata da uomini giusti, per salvare anche oggi dalla schiavitù e offrire scampo agli oppressi. Non esiste motivo perché così non accada, tra noi e loro… nessun confine:
…che leggi più eque rendano amiche le acque delle opposte sponde l’africana e l’europea, nel nome del Dio universale, Padre di tutte le genti, cristiane ed islamiche, facendone un solo mare libero al lavoro, fecondo di pace.

(da un’iscrizione affissa in via san Giovanni)