Non oltre le tredici, zero zero.

tumblr_otlttnv4aQ1ssg42xo1_1280

Questa mattina ho aperto gli occhi alle ore 6.25. Ho guardato il telefono, l’ho rimesso sotto al materasso.

Ho ascoltato i merli, ho richiuso gli occhi.

Li ho riaperti alle 7.54. Entrava più luce dalle finestre. Ho visitato le mie articolazioni una ad una, soppesato il loro dolore, le ho guardate con benevolenza. Poi ho attraversato le curve dell’intestino, era digiuno da un po’ e quindi stava bene.

Mi piace svegliarmi quando ho i capelli puliti. Ieri sera ho fatto lo shampoo per un concerto di pianoforte e contrabbasso. Li ho intrecciati appena, ho indossato la mia camicia verde preferita, e lui mi ha detto: sei bellissima stasera.

C’era mezza luna nel cielo, tra i pini. Ed un numero sufficiente di stelle per esclamare: ehi, guarda che bello!

Stamane i capelli erano mossi, un pochino.

Mi sono alzata, ho fatto colazione a gambe incrociate sul divano blu. Come ogni mattina. Ho mangiato fiocchi di soia e biscotti di farina di riso e cioccolato.

Alle 8.55 ho scritto alle mie amiche, al mio amore, ho ascoltato un brano dei The Velvet Underground e uno stranissimo di David Lynch, che mi sembrava bello finché è durata la luce.

Alle 9.30 mi sono seduta davanti al pc per scrivere e lavorare. Avevo molte idee e molto desiderio, volevo una giornata dai colori brillanti, proprio come scrive Sylvia Plath  nei suoi Diari. E invece si è fatto buio. Fuori di me. Tutto attorno. Ed è arrivato un uragano.

Si sentiva nell’aria fin da ieri sera, proprio mentre i due musicisti eseguivano un bellissimo arrangiamento di Apriti cuore di Lucio Dalla. Ha soffiato forte. Capita spesso. In tutte le stagioni, senza distinzione.

Ha spalancato con forza la finestra alle 10.32 circa. Ho pensato che non fosse molto forte, non più forte degli altri. E’ l’inganno degli uragani questo: non cominciano mai allo stesso modo, sembrano sempre più deboli dei precedenti, all’inizio, o più forti, e confondono perché non si sa mai se il modo di difendersi questa volta sarà quello giusto, sufficiente, se si resterà saldi, se scoperchierà la casa, se strapperà via le foto dal muro, se i giorni seguenti trascorreranno a rimettere con pazienza a posto ogni cosa, nella speranza che nulla di prezioso sia andato perduto.

Alle 12.40 l’uragano mi aveva già portata fuori casa, senza che me ne accorgessi. Ho vagato confusa nell’aria opaca di polvere, cattivo odore e la stessa atmosfera stantia fino alle 12.50, opponendo inutile resistenza.

Poi ho capito di essere stata condotta a forza dove non volevo andare, oramai.

E’ così l’uragano di tutte le stagioni, ti fa fluttuare sopra un campo di rovi velenosi e se non stai allerta, se non trovi ogni volta una nuova strategia, il veleno penetra sottopelle e raggiunge i ventricoli del cuore, il sangue è pompato in modo irregolare e il respiro si fa corto e l’ossigeno scarseggia.

Si impiega molto molto tempo per ritrovare la strada di casa. Alle 13 il vento è cessato, lasciandomi in un luogo sconosciuto ma dall’aspetto familiare: la stessa devastazione di sempre. Allora ho chiamato un mio amico e gli ho detto che sarei partita per Buenos Aires. Buenos Aires, è la nostra parola d’ordine per dire: così non va bene, bisogna far qualcosa. Lui mi ha chiesto se avrei portato con me la bici nuova, io ho risposto di si.

La bici e le mie gallette di mais.

Poi mi ha domandato se sarei tornata.

Gli ho risposto di no, perché a quel punto avrei girato il mondo scansando gli uragani.

Forse sarei morta di “febbre alta a Tangeri”, oppure su una lunga strada della California accartocciata con la bici sotto un tir. Come una citazione cinematografica a metà tra il glorioso Easy Rider e un telefilm di Netflix.

Ma lui mi ha risposto seriamente (e lo benedico per questo) che era meglio la febbre a Tangeri e secondo me, ha ragione.

A volte si soffoca, per gli uragani, i rovi, la ciclicità del veleno. Non fatevi soffocare, per favore. Almeno non oltre le 13.
Poi venite con me a Buenos Aires. Si parte alle 13.01. E si ritorna, forse, soltanto non appena l’aria sarà di nuovo sottile, limpida.

Ad occhio nudo

IMG_20170527_114811

Ho scelto il mare tra le pietre. Lontano dalle spiagge attrezzate, affollate, martoriate. Qualche scalino diroccato per accedere a scogli biforcuti come lingue pietrificate di rettili. Pietre ostili ed abbandonate. Pietre che costringono a premeditare i passi, uno ad uno. Tra gli scogli trovo tutta la miseria del nostro popolo: cassette di polistirolo gettate dai venditori ambulanti di pesce. Scendono tra gli scogli a cercare alghe per ornare i pesci comprati al mercato tutti in fila ed eguali, per farli sembrare figli unici rubati al mare. Poi, a vendita avvenuta, quel che rimane lo buttano via insieme alle cassette, perché se una cosa non la si vede, non c’è. Si dissolvono le responsabilità. La preoccupazione di farla franca è più forte della bellezza e dell’armonia, più forte delle meraviglie che ci sono toccate in sorte. Non ci lasciamo educare dalla bellezza. La bellezza ci terrorizza, perché possiede una energia vitale che tutto coinvolge. E così le cassette coi resti di pesce si, erano oscene, ma drammaticamente familiari. Brandelli di animali a soddisfare quel senso della morte che noi siciliani portiamo nel DNA come anello immutabile, di generazione in generazione.

L’aria era fresca, il sole caldo, il mare leggermente increspato, il suo profumo ovunque. Nonostante fossi in compagnia sono rimasta a lungo in silenzio, un silenzio pieno, comunicativo, sereno. Ma non sono riuscita a pensare a nulla, perché tutta l’immobilità delle pietre si è animata, piano piano, esigendo la mia attenzione. Quando si guardano le stelle nelle notti d’estate, più si osserva il cielo più aumenta il numero di stelle che ad occhio nudo si riescono a guardare. L’occhio nudo. Una nudità antica, fragile, ma tenace.

IMG_20170527_225945

A tener fisso lo sguardo sugli scogli, a lungo, si scoprono mille piccole, piccolissime vite a prima vista invisibili: i pomodori di mare, rossi e morbidi, strane lumache con un guscio a piramide che camminano lentamente e costantemente da una parte all’altra, senza mostrare mai il proprio corpo. Sembra solo un guscio mobile, con un segreto dentro. Poi ci sono i granchi, piccoli, neri o color della pietra. Sono veloci e buffi, spariscono dentro i fori di quelle rocce modellate dall’acqua, piene di nascondigli e luoghi inaccessibili. E infine gli insetti: piccoli e grandi, con le ali, senza ali, neri o colorati. Colonie intere che si sono disperse non appena ci siamo accampati su una delle pietre meno ostili, per poi tornare sporadici e in pace, a cercar di recuperare il proprio spazio, le proprie attività.

In mare, vicino agli scogli che sprofondano in acqua nuotano pesci invisibili: li si vede solo se ci si ferma a guardare per minuti lunghi e senza fretta. Piccoli pesci quasi trasparenti, altri perlati, altri ancora neri e marroni, qualcuno rosso. Molti nuotano con disinvoltura senza una direzione precisa, almeno così pare. Destra sinistra, destra sinistra…senza metà. Altri restano aderenti agli scogli e più che nuotare, strisciano. Delle pietre assumono i colori e con le stesse si confondo stando fermi, immobili.

In cielo, i gabbiani. Uno di loro ci ha tenuto compagnia. Aveva avvistato i resti di pesce. Davanti a noi ha eseguito una serie di manovre di ammaraggio perfette. Planava leggero, aerodinamico, preciso. Pian piano ha preso confidenza, ha capito che noi non eravamo armati di nessun odio o istinto di morte nei suoi confronti, solo di un po’ di invidia per la sua leggerezza, per la possibilità di spiccare il volo diretti ovunque. Due, tre, quattro saltelli, poi in un baleno ha preso il pesce e penzolante dal becco lo ha portato un po’ a largo per consumare il simbolo del nostro animo decadente in santa pace.

L’acqua era fredda e pulita. Il corpo timido.

Io ho paura del mare, anche se ho un passato di nuotatrice. In mare non ci sono i confini delle piscine olimpiche e l’acqua è troppo, troppo leggera. Si nuota con minore fatica e maggior pensiero. In piscina, durante i km di allenamento il cervello riposa, i pensieri lasciano il posto alla gestione dello sfinimento, della stanchezza, dei muscoli doloranti. Quando nuoto in mare il mio cervello resta vigile, in allerta. Il mare è incontrollabile. E’ pieno di vite che non conosco, di cui percepisco e so la presenza, ma che non vedo. Mi sento guardata dalla forza primordiale del mondo e mi spavento.
Lo amo e lo temo, come nelle migliori delle tradizioni.
“Il mare è traditore”, si dice. Ma forse è semplicemente molto molto molto più grande e potente di noi. L’occhio, l’occhio nudo non lo può comprendere, anzi, il mare è a perdita d’occhio. Ne possiamo scegliere una porzione, piccola, tra le pietre, osservare il suo mondo attorno, perfino dentro, ma non di più.

Tra uno scoglio e l’altro c’era una piccola cavità. Ad ogni spinta del mare verso terra la cavità si riempiva d’acqua e quando l’acqua si ritirava appena, si svuotava. Sembrava come un ventricolo. Anche le pietre respirano.

La sera a casa il sole a picco sulle spalle restituiva il calore. La nostra è una pelle fragile. Non voliamo, non nuotiamo nelle profondità, non possiamo esporci a lungo al sole che riflette sull’acqua. Siamo inadatti al mare e per poterlo vivere dobbiamo attrezzarci di molti strumenti.

Esercita su di noi il fascino delle cose grandi, e come l’acqua tra gli anfratti degli scogli, il mare arriva dentro, lì dove si annidano i sentimenti migliori, i sogni grandi, gli amori mai sopiti. Il mare placa la rabbia che corrode e restituisce il senso della misura delle cose. E le cose, le situazioni, gli stati d’animo e i pensieri, sono molti, diversi, come i pesci e le lumache di mare sono invisibili ad uno sguardo frettoloso e disattento. Tutto sembra uguale, ma niente lo è davvero. Abbiamo bisogno di tempo, di calma, di pazienza e di curiosità per permettere all’occhio nudo di guidarci nel mare aperto delle nostre complessità.

Rispirari in funn’o mare

(foto di Maggie Hood)

(foto di Maggie Hood)

Aprire qui https://www.youtube.com/watch?v=wFZ4aaPVVIQ

Argento

Disegno di Carlo Levi

Disegno di Carlo Levi

T’amo con cuore di vento
tormento di foglie appese a rami d’inverno.
T’amo con amor di tempesta
che si abbatte violenta
e nera divora d’appuntiti morsi
l’ombra severa degli spettri.
T’amo con cuore di pioggia
che lenta disseta,
e vita segreta germoglia
sugli occhi, perle di rugiada
sangue caldo sui desideri morti.
T’amo con cuore d’argento
freddo e prezioso
che ricopre la silenziosa attesa
d’amare te a piedi nudi,
il coraggio ardito, la temeraria impresa.