Non l’ho fatto apposta

Foto di Alexandre Chamelat

Foto di Alexandre Chamelat

L’estate che sta  per nascondersi alle nostre spalle mi pare sia durata appena un momento. Un tempo piccolo ma profondissimo, tanto da contenere il mio epico ritorno a Palermo, il diffondersi raccapricciante dell’Isis, la follia omicida dei bombardamenti su Gaza, la morte di Robin Williams e perfino qualche briciola di vita quotidiana: giornate al mare, sere sul dondolo ad ascoltare i grilli, molti gelati e le risa degli amici.

Ma oggi, beh, oggi è il 1° settembre. Il giorno mitologico nel quale mia madre spariva da casa per venire divorata, fino al prossimo giugno, dal mostro dai mille volti: la scuola.
Da un po’ di tempo, questo mostro poliedrico divora anche me. Quest’anno a Palermo, però. E non è affatto un particolare di poca importanza. Ovviamente precaria, ovviamente incarico su due scuole. Più o meno il rituale del 1° settembre mi è familiare, ma ogni anno, devo dire, mi riserva sempre nuove sorprese. Quest’anno poi si tratta di scuole superiori e anche questo particolare non è di poca importanza.

Arrivo puntuale. Entro, mi dirigo al banco del collaboratore scolastico. Lo trovo circondato da cinque uomini dei quali non riesco a capire la funzione e lo riconosco per la sua posizione centrale, di comando, e perchè, ogni tanto, si sporge a controllare coloro che varcano la soglia: “Salve, io sono una nuova docente”. Lui, da seduto, mi guarda, dalla testa ai piedi, lentamente (siamo a Palermo appunto) e mi dice: “Mi fa veramente piacere, signorina”. Non posso rendere l’accento né la mimica facciale, ma vi assicuro: uno spettacolo! Mi indica il luogo nel quale si terrà il tanto famigerato Collegio dei docenti, ma non sto molto attenta alle sue indicazioni, so che mi basterà seguire il flusso migrante degli uomini (pochi) e delle donne (tante) e il rumore, allegro e scoppiettante, delle chiacchiere. Mi guardo attorno, davvero la scuola è lo specchio della società. E la società palermitana è, infatti, tutta degnamente rappresentata. Sono ancora in piedi che si baciano, si abbracciano e si guardano in cagnesco. A differenza di Roma, qui si è abbronzati tutti, belli e brutti, ricchi e poveri. A Palermo ci si abbronza con l’aria, lucida e calda anche nei luoghi più lontani dal mare. Si accosta un collega, giovane: “Sei una nuova collega?” (la domanda più gettonata della giornata), vorrei rispondere: “No, sono la commessa del supermercato, volevo vedere se è vero che gli insegnanti non fanno nulla tutto il giorno”. Invece sorrido e rispondo di si. “Insegni religione, dunque? – mi dice – Avrai di che riflettere”. Ma che vuol dire? Forse nota nel mio sguardo una punta di smarrimento e aggiunge: “No, è che ca su tutti vestiti alla moda, ma la testa ce l’hannu vacanti”. Ah. Acquisisco l’informazione. Il Collegio comincia, procede e finisce nel brusio totale e costante. Cerco di ascoltare le parole della preside e allo stesso tempo non rinuncio al mio vizio di rubare qua e là spezzoni di dialoghi, nutrimento prezioso per le mie storie.  Non posso voltarmi in continuazione e allora ascolto, tanto avrò un intero anno per abbinare le voci ai volti corrispondenti. Non resto delusa. Scopro che il collega dietro di me ha fatto un lungo viaggio in macchina, in Spagna, ma ci tiene a sottolineare che non accadrà mai più perchè gli è venuta la gastrite e pure le emorroidi, per la cronaca. C’è chi racconta dei figli, chi dei nipoti, chi si lamenta di guai che gli hanno rovinato l’estate, chi è traumatizzato dal pensiero che dovrà ricominciare a svegliarsi presto. C’è chi sparla i colleghi, chi si sottopone, sereno e rassegnato, al terzo grado della vicina di sedia.
A Collegio finito, faccio un giro delle aule: la scuola senza i ragazzi sembra un enorme mostro che dorme. Quando arriveranno sarà tutto più chiassoso e meno spaventoso, spero.

Guardo l’ora, scappo. Devo raggiungere l’altra scuola, almeno per conoscere gli impegni della settimana. Chi arriva a Collegio terminato con la scusa di essere stato nell’altra scuola ha poche speranze di risultare simpatico al primo impatto. Qui sarà tutto in salita. E infatti, su suggerimento della segretaria, raggiungo l’ufficio della vice-preside e la trovo al suo tavolo circondata da un gruppo di fedelissimi. Busso, entro, interrompo, mi presento. Questa volta li deludo per ben due volte: la prima perchè erano sicuri di indovinare la mia età: “Non hai più di 28 anni!”, e io invece affermo con convinzione di averne 34; la seconda perchè non si aspettavano che una giovane o presunta tale, alta quasi un 1,80 mt con tre piercing all’orecchio potesse insegnare religione. Mi guardano talmente seri dopo la mia risposta che a me viene da dire: “Si, sono una prof.ssa di Religione, ma…non l’ho fatto apposta”.

Alle 12.30 riprendo la via di casa. Spossata dal caldo, dalle valanga di parole ascoltate, da tutti quei volti che non conosco e  che nascondono storie di cui non so ancora nulla, alcune delle quali, in un modo o in un altro entreranno a far parte della mia. Li guardo i miei nuovi colleghi e mi chiedo a quali di loro, di sinistra, forse, dovrò dimostrare di non essere bigotta e ottusa, a quali cattolicissimi prenderà un colpo quando sapranno che non porto al polso il bracciale di p. Pio e che non so nulla sulle apparizioni della madonna, chi mi fermerà tra i corridoi chiedendomi con aria minacciosa e disperata cose come: “Ma se Dio c’è, perchè il male?”; chi sarà disposto ad ascoltarmi, con chi potrò collaborare, chi sarò capace di avvicinare davvero. Non ho potuto fare a meno di notare, negli uuffici, quei crocifissi messi all’angolo, adornati con fiori di plastica tra la croce e la parete o con secchi rami d’ulivo risalenti a chissà quale pasqua e mi chiedo se saprò dire una parola, una sola parola vera, sensata, umana su di lui. Poi mi informo con la segretaria dai capelli ossigenati riguardo alla firma del contratto:
– “Aaaancora! Presto è!”.
– “Ma…veramente a Roma ho firmato nelle prime settimane di settembre…”.
– “N’ca picchì signorina lei a Roma era?”.
– “Si”.
– “E a lei cu ciu fici fari di tornare a Palermo!”.
– “Ma…Non l’ho fatto apposta”.
Si ricomincia, insomma, a vivere in equilibrio disinvolto su superfici verticali.

Seminare sul cemento armato

#MarinaBalloCharmet

Ho riflettuto e a lungo, chiedendomi se scrivere quello che sto per scrivere avesse  qualche briciola di senso ed utilità. Poi mi son detta che, scrivere quello che sto per scrivere, una certa utilità la possiede per me, una sorta di catarsi artigianale, e che le briciole di senso ed utilità, male che vada, le mangerò io, da sola, che si, la fame non passa, ma sempre meglio di niente è.

Oggi è il 27 di gennaio e si celebra la giornata della memoria. Ed è una celebrazione così importante e talmente conosciuta che non è necessario, nominandola, specificare di quale memoria si tratti. Sto dietro alla cattedra da soli due anni, ma di anni di “scuola dietro ai banchi” ne possiedo a sufficienza per permettermi una qualche riflessione su questa giornata. Posso dunque affermare che questa giornata, a scuola, viene sempre celebrata con particolare attenzione. Sopratutto i professori d’italiano o di storia cominciano a preprarare le classi molto tempo prima del 27 di gennaio.

Il fatto è, però, che io non insegno Italiano nè storia, no. Insegno religione. Si, Religione Cattolica. Ed ora mi fermo e faccio una pausa in modo che tutti coloro che leggeranno questo articolo possano avere qualche minuto per metter mano, con calma, a quel cumolo, grosso e disordinato, di pregiudizi e luoghi comuni che ognuno di noi, volente o nolente, possiede alla categoria “prof di religione”. Fate con calma. D’altronte un tale cumolo lo possiedo anche io, alto alto, grosso grosso. Anzi, penso proprio che il mio cumolo di pregiudizi sia molto, molto più alto del vostro, talmente alto che, quando mi sono iscritta alla facoltà di teologia, mi son detta: “Tutto, ma non l’insegnante di religione”. Si, infatti. E quale sia il bizzarro persorso di vita che si è fatto beffa del mio proposito…non saprei neppure spiegarlo. Ok, ora che avete riflettuto posso dirvi che non porto le gonne sotto al ginocchio né le scarpe di pelle nere con il tacco quadrato, non ho i capelli corti e bianchi modello “sorella di Gesù” e neppure le camicie abbottonate al collo, no. Non prego il rosario tutti i giorni, non appartengo a nessun gruppo parrocchiale, non ho la foto di Padre Pio sul comodino e con buona pace della conferenza episcopale italiana non mi batto per i “valori non negoziabili” né partecipo alle marce contro l’aborto. Non ho neppure particolare venerazione per preti, frati e suore. Credo, è vero, così come posso e so, in Gesù Cristo, ma da prima, molto prima (ne possiedo le prove) che arrivasse papa Francesco! Ah, e ho tre piercing all’orecchio e i capelli blu.

Detto questo, se vorrete continuare a leggere, sappiate che voglio raccontarvi quale inferno ho dovuto patire per preparare, in alcune delle mie classi, la “Giornata della memoria”. Il programma per le terze medie prevede lo studio delle grandi religioni. Così ho pensato di far precedere il ricordo della Shoah dallo studio dell’ebraismo: la storia antica di Israele per poter collegare la spiegazione delle festività ebraiche, la Bibbia ebraica, la cultura ebraica, con tanto di musica, pittura etc etc. Bello, mi permetto di dire e forse lo penserete anche voi. Invece? Invece no. Un incubo! Perché? Perché per prima cosa, ogni volta che entro in classe, in alcune più che in altre, la prima cosa da fare è riuscire a metterli seduti, far sputare le gomme masticate a bocca aperta, con movimento antiorario costante della mascella; ripetere una quindicina di volte di tirar fuori i quaderni, le penne, i libri, ribadire, per il numero degli alunni moltiplicato per due, che non possono andare in bagno durante la spiegazione (perché ci sono quelli che te lo chiedono una volta e pensano che il tuo no sia a scadenza e, quindi, inoltrano nuovamente la richiesta, ogni dieci minuti). Fatto questo, tocca avere riflessi pronti ed inserirsi veloci, con scatto felino in una pausa di silenzio, catturarli e cominciare a dire con tono di voce elevato e occhio penetrante qualcosa che li spinga ad ascoltarti. Così, comincia la lezione. La loro capacità di attenzione ha la stessa durata dell’attesa che separa l’invio del messaggio dalla risposta del destinatario su whatsapp. E la domanda che più spesso mi è stata rivolta è: “Ah prof, ma perchè dovemo studia’ le cose di l’ebrei, io voglio sape’ le cose mia”. Giuro. Vero. Alla controrisposta: “Quali sarebbero le cose tua?”, ovviamente mi si dice: “E che ne so io!”. Continuo, settimana dopo settimana, sentendo dentro me gli smottamenti che precedono la valanga dello sconforto. E gli smottamenti, sappiatelo, non vanno mai mai ignorati! Infatti, il giorno in cui ho cominciato a parlare dell’antisemitismo: significato del termine, origine storiche, difficile e controverso rapporto della chiesa con il fascismo, qualcuno si è sentito in dovere di ridefinire i confini tra discipline esclamando: “Ah prof, ma che c’entrano ste cose co a religione, pare che stiamo a fa’ storia!”. Avrei voluto rispondere: “Zitto, cretino!”, dato che questo ho pensato, e, invece, con una pazienza da far invidia al più ascetico dei monaci tibetani, ho continuato la mia spiegazione fino a quando… Fino a quando mi sono accorta, nonostante stessi scrivendo alla lavagna, (perchè i professori in realtà con il tempo diventano esseri mutanti con occhi e orecchie ovunque: sulle spalle, dietro alla testa, nelle gambe, sui piedi, ovunque!) che due di loro, da una parte all’altra dell’aula, si insultavano reciprocamente dicendosi: “Ebreo, figlio di ebrei!”. A quel punto la valanga è arrivata: il gesso che cade di mano, il colon che si incendia, le mani che tremano. Ma anche questa volta sono riuscita a frenare le parole che affollavano, numerose e furiose il cervello cercando, con sguardo severo, quello che da solo riesce a creare silenzio, di fare uscire dalla mia bocca non un fuoco capace di incenerirli tutti in pochi secondi, bensì un discorso pacato che potesse aiutarli a capire quanto fossero totalmente deficienti, nella speranza di raggiungere il deposito, la sede della vergogna, che però, secondo me, non è stata data loro in dotazione. I due che si insultavano, ve li presento, sono: un ragazzo borderline che ha diritto al sostegno (ma giammai nell’ora di Religione, che, si sa, niente vale nella scuola e niente merita, noi sporchi privilegiati, figli meticci dei patti lateranensi), e un ragazzo di sedici anni circa, con la barba, che da grande – afferma – vuole fare il “pappone”. Credetemi, sia io che i miei colleghi, abbiamo fatto di tutto per far capire al futuro pappone che non può mettersi sullo stesso piano di un ragazzo che ha difficoltà di comportamento e di comprensione della realtà. Eppure, non devo essere stata particolarmente convincente, forse perchè penso che, comunque, il vero borderline bisognoso del sostegno sia il sedicenne futuro manager di prostutite.

Ve la faccio breve: il mio discorso non è servito a niente. Le mie lezioni non sono servite a niente. A niente la musica, a niente la pittura. I due ragazzi e il resto dei compagni continueranno ad insultarsi chiamandosi “Ebrei”! E basta leggere le scritte sui muri di Roma per spiegarsi certe radicate intolleranze.

Mi si potrebbe obiettare, anche a mo’ di consiglio, che, magari, quella è una realtà troppo lontana dalla vita che stanno vivendo, oggi, ora, e che invece, su altri argomenti, più vicini, più attuali, la loro risposta sarebbe diversa. Grazie del consiglio amici, ma ho provato, e non funziona. Ho iniziato l’anno scolastico parlando della Primavera araba e della guerra in Siria: “Ah prof, st’ arabi oh, ma che ce vengono a fa’ in Italia! Nun ci sta lavoro qui! Ma chi li vole oh!”. Giuro. Vero. E una volta ho parlato dell’Africa e dei km che i ragazzi della loro età fanno ogni giorno per poter raggiungere la scuola: “Ah prof, ma in Africa nun ce stanno l’arberghi pe i safari? Andasserò a fa’ li camerieri nell’arberghi”. Giuro. Vero.

Ora, di discorsi sull’inconsistenza dei giovani e delle nuove generazioni, sinceramente, ne ho piene le tasche. Ovviamente, i ragazzi non sono tutti così, ogni tanto cogli uno sguardo, una parola di qualcuno che senza parlare, ti dice: “Ok prof. Ci sono, ho capito, grazie”. Anche i discorsi sull’incompetenza degli insegnanti mi hanno stufato, sopratutto perché io li vedo lavorare i miei colleghi e tranne poche eccezioni, sono persone piene di idee che cercano di fare il proprio lavoro nonostante la scuola ormai sia come un corpo che sta per esalare il suo ultimo respiro. Io non lo so se esista qualcuno, qualcosa a cui si possa o si debba attribuire la colpa di tutto questo. Solo mi chiedo cosa posso fare io, con un’ora a settimana, senza poter mettere un voto che faccia media, sempre in bilico, ricattabile dal vicariato che continuamente valuta e verifica la mia idoneità all’insegnamento, attaccata dai colleghi di sinistra perchè non si deve insegnare religione a scuola (e magari non conoscono neppure il contenuto dei programmi che sono, tra l’altro, programmi ministeriali), attaccata dai colleghi di destra perchè sto troppo a sinistra, minacciata dai dirigenti perchè non devo lasciare i compiti nè mettere le insuffuficienze, altrimenti poi i genitori non iscrivono i figli nella nostra scuola e…l’azienda fallisce.

I genitori. Qualche settimana fa ho messo una nota (cosa che non faccio mai, dato che non gliene frega veramente nulla di ricevere una nota). L’ho ritenuto necessario, però, dato che, in una seconda media, due compagnetti, un maschietto e una femminuccia, non hanno avuto remora di litigare in mia presenza e di dirsi vicendevolmente: “Tua madre è buttana”. Ecco, la mamma del maschietto ha risposto alla mia nota sul diario scrivendo: “Ah Prof (pure le madri, no!) dica a B. (la compagna) di portare rispetto, altrimenti vengo direttamente io in classe”. Giuro. Vero. Ed io, dopo aver fatto ingoiare al mio fegato un kilo e mezzo di bile purissima di prima scelta, ho risposto: “Gentile signora, la sua presenza in classe è del tutto superflua. B. è tenuta al rispetto tanto quanto suo figlio, che più volte, con le mie orecchie, ho sentito insultare madri e sorelle dei compagni. Pensi a rimproverare suo figlio”. Così le ho scritto, anche se avrei tanto voluto dirle: “Gentile signora, cerchi di mettere in riga quel disgraziato e maleducato di suo figlio che ogni giorno a scuola, sei ore su sei, scassa continuamente la minchia a tutti!”.

Quale sia il nemico da combattere, dicevo, io non lo so. Non so neppure se esista realmente un nemico. Certo è che molti, alla scuola media, non arrivano  come ragazzini desiderosi di crescere. Molti di loro arrivano già a brandelli, fatti a pezzi da famiglia a pezzi, da relazioni taglienti come le schegge dei vetri infranti. Forse dovremmo davvero ripensare tutto, cambiare orari e materie, organizzare percorsi di istruzione e sostegno anche per le famiglie, rinunciare alle lezioni frontali, impegnarli fisicamente, insegnando un mestiere, un’attività manuale fin dalla tenera età.

Ricordare la Shoah è un dovere civile e morale imprescindibile. Guai a noi se smettismo di farlo. Ma la memoria è frutto di una semina che ha bisogno di terreno fertile per mettere radici. Non possiamo continuare a seminare sul cemento armato. Bisogna trovare il coraggio di ricominciare tutto daccapo, il coraggio di rimediare, se ancora possibile, agli errori passati e di evitare che si compiano quelli presenti, i disastri di cui tutti percepiamo con sgomento gli smottamenti. Prima di ricordare dobbiamo risanare. La mattanza della guerra in Siria, la pulizia etnica nella ex Jogoslavia e in Somalia, i cadaveri dei migranti che galleggiano sul mediterenneo. Se far memoria della Shoah non è servito ad evitare tutto questo allora forse abbiamo ricordato poco e abbiamo ricordato male. Forse il modo migliore di rendere omaggio ai sei milioni di ebrei morti durante la seconda guerra mondiale è evitare di costruire una società civile incapace di reagire alle ingiustizie, è non rassegnarsi ad una classe dirigente ignorante e corrotta, è creare sensibilità necessaria ad aver cura e rispetto della “cosa pubblica”. I ragazzi sono stanchi, sfiduciati e arrabbiati, cinici a volte, perchè noi adulti siamo arrabbiati, sfiduciati e cinici. Ma ad essere arrabbiati e cinici, questo si, non possiamo dimenticarlo, sono sempre i carnefici.

Siediti composto

(foto di Osamu Yokonami)

(foto di Osamu Yokonami)

Non dovrei affatto star qui a scrivere. Dovrei lavorare alla tesi, stirare, lavare i piatti del pranzo, finire le programmazioni e rifare il letto, magari, così, last minute. Il fatto è che oggi è stata una giornata troppo strana per non raccontarla, una di quelle in cui capita di vedere e ascoltare come dentro ad una visione. Si, una di quelle giornate nelle quali pare di stare al mondo con i cinque sensi spinti al massimo.

Esco di casa e ricordo di aver lasciato sopra il letto la corazza che difende, da tutto, i tappi per le orecchie, il velo sugli occhi.

Corro in macchina, sono in ritardo, accendo la radio, De Gregori è lì e Nino sta ancora imparando a non aver paura di un calcio di rigore. I semafori al mattino sono una metafora perfetta della vita: li vedi verdi, da lontano, accelleri. Ma quando arrivi lì davanti ed è il tuo turno, scatta il rosso, ti fermi. Ad un semaforo pedonale, di quelli che appena il pedone li accarezza con lo sguardo e pensa soltanto di voler premere il pulsante, ti fa piantare i freni sull’asfalto, alzo lo sguardo: da una parte una suora e una mamma con un passeggino, dall’altra una persona anziana e due adolescenti con gli zaini eastpak lenti sulla schiena. Li vedo attraversare ed incrociarsi e mi pare di assistere ad un raffinatissimo gioco di prestigio: la suora al posto degli adoloscenti, l’anziana signora al posto della mamma, scambio di sponda, una di qua, gli altri di là, la suora era giovane, la mamma sarà vecchia, il bambino sul passeggino andrà a scuola, gli adolescenti avranno un bambino. Tutto è veloce, la vita è veloce. Suonano, è verde, riparto.

Arrivo a scuola, posteggio. Ho davanti a me sei lunghissime ore. Io ho sonno, loro hanno sonno. Io non posso dirlo, loro si. Spiego, urlo. Li guardo. Fino alla terza ora rimango salda, tutta d’un pezzo.

Sono adolescenti come lo sono stata anch’io. Oggi, però, siamo su due sponde diverse, , stiamo su due marciapiedi opposti. Mi guardo attorno: nessun semaforo per attuare uno scambio. Interrogo chi era impreparato la scorsa settimana: “Ah prof., ma che sempre a me?”: Mi fermo. Cerco di capire perchè gli sembra assurdo quello che a me appare normale: “Scusa, ma non ti ho detto che dovevi recuperare?”. Silenzio. Poi uno scatto di orgoglio, ci prova: “Lo shabbat ricorda…” – silenzio…silenzio – “ricorda il riposo di Dio dopo la creazione” – silenzio. “Si, giusto, e poi? Cosa fa e cosa non fa un ebreo durante lo shabbat, lo abbiamo spiegato, ricordi? Abbiamo fatto lo schema alla lavagna, ricordi?” – silenzio…silenzio…silenzio. Mi arrendo, interrogo qualcun altro. Un paio di minuti e la vittima dello shabbat mi chiede: “Ah prof, ma quanto ho preso?” – “Eh?” – rispondo io – “Si, perchè?  Non ho risposto?” – dice lui – silenzio…silenzio…silenzio, ed è il mio questa volta.

Suona la campanella. E’ ricreazione. La ricreazione è il fronte. Venti contro uno. Li vedo alzarsi e sfoderare le armi: merendine, pizze rosse, pizze bianche. Vengono verso di me, tutti, compatti, un corpo solo, e ad una sola voce esclamano: “Ah prof., posso anda’ in bagno? E’ urgente!”. Organizzo i turni. Devo guardare tutto, stare attenta a tutto, non devono cadere, non devono farsi male, non si devono strozzare, non devono infilzarsi con le forbici, non devono usare i cellulari, non devono infilarsi i tappi delle penne dentro al naso. Niente pugni, niente calci.

Risuona la campana. Mi aspetta una classe “difficile”. Terza media, ma qualcuno di loro ha la barba. Dovrebbero stare al liceo. E invece sono lì, alla scuola dell’obbligo. “Che espressione triste” – penso. Si sentono obbligati, infatti, si sentono scoppiare. Comincia il mio rosario: “siediti, calmati, fermati, apri il libro, apri il quaderno, siediti composto”. Siediti composto…ho lasciato la mia armatura sul letto e i cinque sensi sono tutti spinti al massimo. Sie-di-ti com-pos-to… La frase mi muore sulle labbra mentre penso a come pranzo e ceno, io. Sul divano, con le gambe incrociate o a terra, con le spalle poggiate al divano. Li guardo. Ripenso alla mia stanza alla loro età. I libri per terra, i vestiti sulla scrivania, le scarpe nell’armadio. La necessità di dare un posto tutto mio alle cose, di cambiare l’ordine dei fattori convinta com’ero che il prodotto sarebbe cambiato. “Siediti composto…”.

Sono in pochi nella mia classe difficile. Circondano la cattedra. Parliamo. Tra un calcio, un cazzotto, un insulto, il più gettonato di sempre: “Tua madre!”. Li convinco: le madri e le sorelle restano fuori dal ring. Prendono in giro il ragazzo rumeno. Sono spietati. Chirurghi dello sfottimento. Con occhio clinico individuano il punto debole e lì affondono la lama, tagliente, amputano ogni forma di dialogo, la possibilità di conoscersi davvero. Infieriscono sulla debolezza altrui per non sentir ringhiare la propria. Li rimetto seduti. Li guardo. Li guardo e penso che non devo dimenticare mai più la mia corazza sul letto. Provo a far parlare loro. Parlano. Parliamo di rabbia. Chiedo cosa li fa arrabbiare, come fanno a smaltirla, loro, la rabbia. “Quanno è morto mi nonno, ho dato un pugno ar finestrino de na macchina. S’è rotto, me so rotto anch’io. Me uscito tutto er sangue, ma non me so fatto male prof., non sentivo dolore, solo la rabbia”. Silenzio…silenzio. “Ah prof., quanno è morta mi madre io nun ce so andato ai funerali. So andato a scola. Sette anni c’avevo ma me la ricordo pure ora, era dentro a bara, era tutta bianca prof., me so arrabbiato io, so andato a scola”. Silenzio.

Quando sono arrabbiati, devono “mena’ quarcuno” – mi dicono. “Se uno me insulta io gli meno a prof., e che devo fa?”. Le mie orecchie ascoltano, i miei occhi vedono. “Ah prof., ma a casa s’arrabiano con noi, mo’ basta che sbatti na porta e stanno tutti a strilla’! L’altra vorta mi padre mi ha detto: aò, sarvanno to madre sei proprio un figlio de na mignotta”. La realtà allarga le sue maglie, io socchiudo gli occhi, guardo attraverso, li vedo. “Ah prof., ma uno se deve sfoga’. Mi padre ad esempio, quanno va o stadio, se porta e bandiere, e poi però ce leva a bandiera e se mette sotto braccio er bastone! Ah prof., a o stadio ce  stanno e guardie, mica pe niente, è per precauzione”.

Colori nell’ombra

Chiaroscuro. Penombra. Sempre ho immaginato così lo spazio interiore nel quale prendono vita le nostre domande. Un gioco di luci ed ombre. Le domande nascono da intuizioni. Da qualcosa che comprendiamo ma non del tutto, frammenti di verità a cui vorremmo dar forma, spesso senza riuscirvi. Sono domande grandi, domande che molti rinunciano a farsi: la vita, la morte, il dolore, il perchè delle cose che siamo, il perchè di ciò che desideriamo, il perchè di quanto non comprendiamo. Di questi tempi poi…la crisi riduce gli orizzonti, dicono. I bisogni primari non sono soddisfatti. Si ha fame. E la fame del corpo divora i bisogni dell’animo. Dicono. Ma per i bambini forse non è così, non ancora. Il loro spazio di penombra è ampio. I bisogni sono tutti primari. Riempire la pancia e sapere perchè sei nato bambino e non cane, sono entrambi istinti in cerca di risposta. Meraviglia. Ho affidato ai miei alunni di prima media uno spazio di silenzio. Una porzione di tempo durante il quale andare a scovare e tirar fuori le domanade alle quali vorrebero abbinare una risposta, quelle che magari hanno timore di fare ai “grandi”. Ho detto loro che potevano chiedere tutto. E mi sono premurata di chiarire loro che non sarei stata in grado di rispondere. Soltanto mi sarei impegnata ad accogliere. Il risultato di questo piccolo esperimento dentro ad una piccola aula di una piccola scuola mi è sembrato avere proporzioni universali, ascoltare, una dopo l’altra le loro domande mi ha dato l’impressione di assistere ad una esplosione di colori che ha del tutto mutato il mio immaginario di chiaroscuro . Le domande sono colori nell’ombra.

Federica: Perchè io sono io?

Martina: C’è il paradiso dopo la morte oppure rimarremo polvere senza anima?

Tommaso: Perchè esiste la natura?

Luca: Perchè non possiamo rispondere alle domande?

Federico: Perchè esiste il mondo?

Leonardo: Perchè dopo aver raggiunto degli obiettivi non si sa più qual è il senso della vita?

Carlotta: Perchè certe volte sembra che Dio non ci assista?

Benedetta: Perchè si vive se poi bisogna morire?

Leyla: Perchè non possiamo vivere senza acqua e cibo?

Chiara: Perchè si sogna?

Davide: Perchè l’universo è infinito?

Leonardo: Perchè tanti uomini si fanno male da soli?

Francesca: Perchè sono nata e certi bambini no?

Lorenzo: Perchè Dio ha creato il mondo e noi?

Jonathan: Perchè non nasciamo tutti intelligenti?

Eleonora: Quando moriamo tutti, cosa succederà?

Filippo: Perchè il destino mi ha fatto fare certe cose?

Camilla: Esiste una vita dopo la morte?

Cristian: Quando moriamo cosa succederà?

Beatrice: Perchè esistono le malattie?

Giulia: Perchè sono uomo e non un animale?

Giacomo: Perchè si muore?

Marco: Perchè esiste la vita?

Simone: Perchè l’uomo cerca sempre la perfezione?

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