La scuola è (s)finita?

(foto di Nino Migliori, 1957)

(foto di Nino Migliori, 1957)

La  cosa che confonde è che l’ultimo giorno finisce come tutti gli altri, come il primo, come quelli di mezzo: suona la campanella e stop. Non è una campanella speciale, non ha un suono diverso, una durata estesa, no. Niente che aiuti a pensare scendendo le scale: “Ehi, ma è finita la scuola? E che cosa vuol dire per me?”. Beh, certo il caldo aiuta a capire che si è alla fine, così come i pantaloncini dei ragazzi e le magliette strette strette, senza spalline, delle ragazze. Ma percepire qualcosa non ha nulla a che vedere con il ritrovarsela davanti, reale e compiuta, senza appello.

Mi viene da pensare che, probabilmente, per i colleghi di ruolo questo benedetto suono della campanella rappresenti più che altro un tassello della propria esperienza lavorativa; per noi precari, invece, è come un’apocalisse, una sensazione a metà fra liberazione e devastazione. Così alunni e insegnanti, incontrando nel corridoio il docente precario, chiedono sorridendo: “Ci sarai l’anno prossimo?”. E il docente precario risponde: “Mah, speriamo…non dipende da me”, abbozzando un sorriso cordiale, anche se, intanto, avrà fissa in mente la pagina online dei suoi “saldi e movimenti”, dalla quale vedrà scalare inesorabile lo stipendio ricevuto durante l’anno, senza avere idea di cosa ne sarà della sua vita e della propria pseudoindipendenza economica. Pensiero che getterà un’ombra costante sul sol leone dell’estate.
Non parliamo poi dell’insegnante “precario di Religione” (che sarei io), che vede lottare animatamente i colleghi delle altre materie invidiandone la brezza del dissenso, totalmente inutile, invece, nella sua condizione di “prescelto” dalle curie diocesane, per le quali il dissenso è spesso una categoria non pervenuta, qualunque forma esso possa assumere.

Ma oltre che con il futuro dalle fauci spalancate, l’ultima campanella fa fare i conti con il vissuto, appena divenuto passato. Non so quale sia statisticamente la riflessione più riccorrente, posso solo parlare per me ed ammettere di aver pensato: “E’ finita? Ma come diamine ho fatto?”. La sorpresa è di riscoprirmi sopravvissuta! Non del tutto messa fuori gioco dai più di duecento alunni che di settimana in settimana son passati davanti ai miei occhi. Il fatto è che non son passati soltanto sotto gli occhi, ma anche attraverso gli occhi, in mezzo alle viscere, dentro ai pensieri. Perché il maledetissimo o benedetissimo (ancora non l’ho capito) punto di questo mestiere sta proprio qui: sta nel fatto di avere a che fare con gente viva e, come se non bastasse, di esserne in qualche modo responsabile, di essere lì proprio per loro, a loro favore. E il paradosso è che per vivere questa consapevolezza attivamente ci si deve proprio lottar contro prima di riuscire a lottare al loro fianco. Lottare per farsi accettare, per far accadere il miracolo del “vedersi” reciproco, del riconoscersi alleati e non nemici.

Ci son giorni, infatti, che è proprio una guerra di sopravvivenza. Giorni in cui la fatica sembra, e lo è, al di sopra delle forze. Come quando si entra in classe e viene il sospetto di essere invisibili: ognuno continua a fare quanto stava facendo (cioè confusione) e nulla cambia fino a quando in un impeto di disperazione  le corde vocali impongono il silenzio. Oppure, come quando non si possiede, per le leggi che attanagliano l’insegnamento della Religione, una valutazione da dare che rientri nell’orizzonte del loro linguaggio, un voto che sia strumento di dialogo, insomma. “Ma Religione fa media? Ma si può essere rimandati in Religione?”, cercando ogni santo giorno di costruire lezioni capaci di rendersi gratuitamente interessanti. Quando poi ci si deve liberare dalla zavorra delle esperienze pregresse è davvero un’angoscia: “Ma io alle scuole medie non facevo niente! Ma io il compito di Religione non l’ho fatto mai”, etc etc… L’apice dello sfinimento si raggiunge dopo essere riuscita, in qualche modo, a insegnare delle cose, o, meglio ancora, a fornire degli strumenti perché possano guardare al fenomeno religioso attraverso una lente differente, e poi, però, sentirsi raccontare che il parroco pretende per la celebrazione del 25° anniversario del matrimonio dei genitori, la confessione sacramentale dei figli! Allora, prendendo fiato, si prova a trovare una risposta sensata (che non c’è) per non venir fuori con un deciso e genuino: “Ma che cazzo!”. Già.

Quando ero studentessa io mica pensavo che una prof.ssa potesse alzarsi al mattino e, prima di andare a scuola, sedersi ai piedi del letto sussurrando: “Non ci voglio andare, non ci voglio andare, non ci voglio andare!”. Invece, si. Succede. E ora, a scuola finita, se dovessi chiedermi dove ho trovato la forza di alzarmi e andare…direi che… non l’ho trovata. Perché, secondo me, non si va avanti con la forza, ma nella speranza, quella di trovare il senso delle cose facendole accettando che riescano, anche se diversamente da come le si erano programmate. Perché nelle programmazioni che ad inizio anno si presentano in segreteria non si può certo prevedere che G. il quale non ti ha cagato per metà anno, all’improvviso, dopo una lezione sulla difficoltà delle relazioni (venuta chissà come e da dove!), incontrandoti in corridoio si apra ad un sorriso che è tutto per te! E no, non si può prevedere. E neppure che la classe che il mercoledì dalle 14.15 alle 15.15 ti ha purificato da tutti i peccati passati, presenti e futuri, resti in assoluto silenzio mentre racconti di te a 12 anni che vivi la morte di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e don Pino Puglisi come se avessero abbattuto all’improvviso e per sempre le fondamenta del tuo tranquillo mondo di pre-adolescente.

Quando ascoltano in silenzio è una cosa da brivido. Tutti i loro occhi sono per te e le labbra socchiuse un po’ per la meraviglia, un po’ per le parole che ancora non riescono a trovare pur volendole dire, fan tremare le gambe. Sarà strano adesso, a scuola finita, rimodulare la fatica e la stanchezza, la paura e lo stupore, non doversi più sedere ai piedi del letto a cercare affannosamente la speranza.

Questo non è il lavoro che vorrei fare. Ma è quello che mi trovo a fare, è la vita che non mi aspettavo e che ad ogni incarico mi piomba addosso senza sapere se ringraziare Dio o chiedergli a quale gioco sta giocando. Eppure i ragazzi sono vivi, ed io, viva tra i vivi, non ho potuto che sfinirmi in questa ricerca affannosa della speranza, di una strada, di una direzione che valga la pena percorrere prima e proporre, poi. Sbagliando, di certo, infinite cose ed infinite volte e accettando a denti molto stretti che questa cosa dello sbagliare sia proprio parte integrante della vita.

Di cose pesanti e difficili ne ho raccolte molte, mi servirà l’estate intera per svuotarne lo zaino, diciamo così. Per le cose belle mi bastano le tasche dei jeans, piccole, ma strette, in modo che nulla si perda: il suono di una risata, imparata a memoria, come si fa con la canzone preferita, un bacio appiccicato sulla guancia in una mattina d’inverno, l’aver contribuito alla pronunzia di un sonoro “no”, detto con consapevolezza e quelle righe scritte di fretta su un foglietto messo di nascosto in mano: “Prof. certo che sto Gesù, era un gran figo”.

Siediti composto

(foto di Osamu Yokonami)

(foto di Osamu Yokonami)

Non dovrei affatto star qui a scrivere. Dovrei lavorare alla tesi, stirare, lavare i piatti del pranzo, finire le programmazioni e rifare il letto, magari, così, last minute. Il fatto è che oggi è stata una giornata troppo strana per non raccontarla, una di quelle in cui capita di vedere e ascoltare come dentro ad una visione. Si, una di quelle giornate nelle quali pare di stare al mondo con i cinque sensi spinti al massimo.

Esco di casa e ricordo di aver lasciato sopra il letto la corazza che difende, da tutto, i tappi per le orecchie, il velo sugli occhi.

Corro in macchina, sono in ritardo, accendo la radio, De Gregori è lì e Nino sta ancora imparando a non aver paura di un calcio di rigore. I semafori al mattino sono una metafora perfetta della vita: li vedi verdi, da lontano, accelleri. Ma quando arrivi lì davanti ed è il tuo turno, scatta il rosso, ti fermi. Ad un semaforo pedonale, di quelli che appena il pedone li accarezza con lo sguardo e pensa soltanto di voler premere il pulsante, ti fa piantare i freni sull’asfalto, alzo lo sguardo: da una parte una suora e una mamma con un passeggino, dall’altra una persona anziana e due adolescenti con gli zaini eastpak lenti sulla schiena. Li vedo attraversare ed incrociarsi e mi pare di assistere ad un raffinatissimo gioco di prestigio: la suora al posto degli adoloscenti, l’anziana signora al posto della mamma, scambio di sponda, una di qua, gli altri di là, la suora era giovane, la mamma sarà vecchia, il bambino sul passeggino andrà a scuola, gli adolescenti avranno un bambino. Tutto è veloce, la vita è veloce. Suonano, è verde, riparto.

Arrivo a scuola, posteggio. Ho davanti a me sei lunghissime ore. Io ho sonno, loro hanno sonno. Io non posso dirlo, loro si. Spiego, urlo. Li guardo. Fino alla terza ora rimango salda, tutta d’un pezzo.

Sono adolescenti come lo sono stata anch’io. Oggi, però, siamo su due sponde diverse, , stiamo su due marciapiedi opposti. Mi guardo attorno: nessun semaforo per attuare uno scambio. Interrogo chi era impreparato la scorsa settimana: “Ah prof., ma che sempre a me?”: Mi fermo. Cerco di capire perchè gli sembra assurdo quello che a me appare normale: “Scusa, ma non ti ho detto che dovevi recuperare?”. Silenzio. Poi uno scatto di orgoglio, ci prova: “Lo shabbat ricorda…” – silenzio…silenzio – “ricorda il riposo di Dio dopo la creazione” – silenzio. “Si, giusto, e poi? Cosa fa e cosa non fa un ebreo durante lo shabbat, lo abbiamo spiegato, ricordi? Abbiamo fatto lo schema alla lavagna, ricordi?” – silenzio…silenzio…silenzio. Mi arrendo, interrogo qualcun altro. Un paio di minuti e la vittima dello shabbat mi chiede: “Ah prof, ma quanto ho preso?” – “Eh?” – rispondo io – “Si, perchè?  Non ho risposto?” – dice lui – silenzio…silenzio…silenzio, ed è il mio questa volta.

Suona la campanella. E’ ricreazione. La ricreazione è il fronte. Venti contro uno. Li vedo alzarsi e sfoderare le armi: merendine, pizze rosse, pizze bianche. Vengono verso di me, tutti, compatti, un corpo solo, e ad una sola voce esclamano: “Ah prof., posso anda’ in bagno? E’ urgente!”. Organizzo i turni. Devo guardare tutto, stare attenta a tutto, non devono cadere, non devono farsi male, non si devono strozzare, non devono infilzarsi con le forbici, non devono usare i cellulari, non devono infilarsi i tappi delle penne dentro al naso. Niente pugni, niente calci.

Risuona la campana. Mi aspetta una classe “difficile”. Terza media, ma qualcuno di loro ha la barba. Dovrebbero stare al liceo. E invece sono lì, alla scuola dell’obbligo. “Che espressione triste” – penso. Si sentono obbligati, infatti, si sentono scoppiare. Comincia il mio rosario: “siediti, calmati, fermati, apri il libro, apri il quaderno, siediti composto”. Siediti composto…ho lasciato la mia armatura sul letto e i cinque sensi sono tutti spinti al massimo. Sie-di-ti com-pos-to… La frase mi muore sulle labbra mentre penso a come pranzo e ceno, io. Sul divano, con le gambe incrociate o a terra, con le spalle poggiate al divano. Li guardo. Ripenso alla mia stanza alla loro età. I libri per terra, i vestiti sulla scrivania, le scarpe nell’armadio. La necessità di dare un posto tutto mio alle cose, di cambiare l’ordine dei fattori convinta com’ero che il prodotto sarebbe cambiato. “Siediti composto…”.

Sono in pochi nella mia classe difficile. Circondano la cattedra. Parliamo. Tra un calcio, un cazzotto, un insulto, il più gettonato di sempre: “Tua madre!”. Li convinco: le madri e le sorelle restano fuori dal ring. Prendono in giro il ragazzo rumeno. Sono spietati. Chirurghi dello sfottimento. Con occhio clinico individuano il punto debole e lì affondono la lama, tagliente, amputano ogni forma di dialogo, la possibilità di conoscersi davvero. Infieriscono sulla debolezza altrui per non sentir ringhiare la propria. Li rimetto seduti. Li guardo. Li guardo e penso che non devo dimenticare mai più la mia corazza sul letto. Provo a far parlare loro. Parlano. Parliamo di rabbia. Chiedo cosa li fa arrabbiare, come fanno a smaltirla, loro, la rabbia. “Quanno è morto mi nonno, ho dato un pugno ar finestrino de na macchina. S’è rotto, me so rotto anch’io. Me uscito tutto er sangue, ma non me so fatto male prof., non sentivo dolore, solo la rabbia”. Silenzio…silenzio. “Ah prof., quanno è morta mi madre io nun ce so andato ai funerali. So andato a scola. Sette anni c’avevo ma me la ricordo pure ora, era dentro a bara, era tutta bianca prof., me so arrabbiato io, so andato a scola”. Silenzio.

Quando sono arrabbiati, devono “mena’ quarcuno” – mi dicono. “Se uno me insulta io gli meno a prof., e che devo fa?”. Le mie orecchie ascoltano, i miei occhi vedono. “Ah prof., ma a casa s’arrabiano con noi, mo’ basta che sbatti na porta e stanno tutti a strilla’! L’altra vorta mi padre mi ha detto: aò, sarvanno to madre sei proprio un figlio de na mignotta”. La realtà allarga le sue maglie, io socchiudo gli occhi, guardo attraverso, li vedo. “Ah prof., ma uno se deve sfoga’. Mi padre ad esempio, quanno va o stadio, se porta e bandiere, e poi però ce leva a bandiera e se mette sotto braccio er bastone! Ah prof., a o stadio ce  stanno e guardie, mica pe niente, è per precauzione”.