La chiave

Sicilia, estate 2017

Sicilia, estate 2017

Tutto quello di cui avevo bisogno mi si era manifestato in un frammento di secondo, come se di colpo sapessi tutte le risposte o la strada esatta per una destinazione impossibile.
Vidi tutto quello che avevo davanti, in un istante che immediatamente scomparve, lasciando però il segno.
Intuii che quando sarei stata pronta avrei avuto la chiave.

  • Patti Smith, Devotion.

Stralunata

Patti e Jackson Smith

Patti e Jackson Smith

La sera, perfino la sera quando senti che stai per morire di stanchezza, spettinata e in pigiama, stralunata e tramortita. Perfino quando hai dolori e pensi: “Fottiti malattia del cazzo…però aspe’ non mi ammazzare per favore”, perfino quando non riesci a scrivere per mesi, a pensare per settimane, a parlare per giornate intere e perfino quando il bagno è social e la solitudine bandita, perfino allora stare con il tuo bambino può essere Rock and Roll.

Io l’ho capito oggi, quando ho visto la foto di Patti Smith con il piccolo Jackson e gliel’ho subito inviata alla mia amica Valentina la foto, ma le ho solo saputo dire: Vale, Vale, Vale!!

Stasera invece, mentre veglio sul mio bambino che dorme in macchina, che pare di pasta di mandorla per quanto è bello, proprio qui in un parcheggio del supermercato al tramonto, capisco.

Patti e Fred avevano comprato una barca per vivere sul mare e pescare i gamberetti. Poi Patti ha scoperto d’essere incinta. E allora la barca l’hanno messa in giardino e ci andavano a leggere e a prendere il thè.

Perché bisogna essere morbidi, avere sogni morbidi, flessibili, rimodellabili. E avere un’officina nel cuore e cercare la poesia come fosse pepita d’oro, con l’amore per setaccio, l’amore e il desiderio, desiderio ovunque: dentro, fuori,sulla pelle, sul cuore, in testa, sui genitali, sulle mani, nello stomaco, in mezzo ai piedi.

Lo devo dire a Valentina.

 

Una scoperta

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Sono alla finestra di una casa di campagna, piove. Piove sull’erba secca e calda, su strade senza asfalto né traffico né via vai di persone. Piove con gocce pesanti d’acqua, che fanno tremare le foglie ad ogni colpo e che battono la terra con decisione. Il silenzio è quasi assoluto. Forse questo contesto fa da sfondo e contrasto perfetto ad un articolo letto oggi sul Corriere, uno scritto inedito di Fernanda Pivano su New York, uno scritto lucido e amarissimo (http://www.corriere.it/cultura/17_luglio_14/fernanda-pivano-testo-inedito-bompiani-7b663a7e-68aa-11e7-a661-7b83dfae73a6.shtml) che mi ha fatto pensare a molte cose.

Di tutto l’articolo il passaggio che ha scatenato il mio piccolo temporale interiore è stato questo: Dal lato di Wall Street, dal lato dove si estendono i villages, il sole sta battendo contro i grattacieli di banche e della Borsa e da qua sembrano veramente dei mostri, come lo sono in realtà. Mostri tenutari delle anime di tutta questa gente pigiata in questi enormi edifici. Oppure queste abitazioni qui sotto, non più palazzi di uffici, ma sempre con la gente incassata in piccole celle da alveari. È un’immagine consumata finché si vuole, però è difficile trovarne un’altra se non la si vuole sostituire con quella delle celle delle prigioni. Se si vuole si potrebbe pensare alle celle degli antichi monaci, ma qui c’è poco di ascetico. Qui c’è una specie di sacrificio della vita umana fatto per un egoismo tale che non ha neanche una giustificazione, non ha neanche in sé una possibilità di riscatto. Se si vuole una cosa sbagliata come il denaro e il potere, si ha quello che si merita: la distruzione della propria anima dentro a queste celle, sicché casomai è un ascetismo pagato a caro prezzo, non raggiunto come un premio… Ma in questo momento nessuno immaginerebbe che questi muri quasi disfatti da questa luce rosata possano nascondere gli orrori, la fame, le insidie, le manipolazioni.

A desiderare, purtroppo, non ce lo insegna nessuno. E’ assurdo se si pensa che intorno a ciò che desideriamo si muove l’intera nostra vita. Certamente nel desiderio esiste qualcosa di istintivo, di primordiale, ma il resto s’impara, perché l’essere umani, l’essere se stessi non è affatto un sapere innato, va scoperto, imparato, con immensa fatica e tenace pazienza.

Le conseguenze dei desideri sbagliati, non veramente nostri, indotti, forzati sono devastanti. Questi provocano una serie di ferite che si diffondono come epidemia attraverso i nostri contatti, le relazioni, le cose che facciamo e perfino quelle che evitiamo.
E non mi riferisco soltanto ai soldi e al potere e a tutte le loro ramificazioni, mi riferisco ai desideri legati all’idea che ci siamo fatti di noi stessi o alla confusione che abbiamo su noi stessi, ai desideri legati alle aspettative degli altri su di noi o a quanto noi vorremmo testardamente per la nostra realizzazione.

Non abbiamo la pazienza dell’attesa necessaria a capire se il desiderio che percepiamo abbia veramente a che fare con quel che siamo. E’ la fretta di determinarsi, è il bisogno di potersi e sapersi definire, il più delle volte rispetto al mondo che ci circonda. Avere una serie di cose o fare una serie di cose, appunto ben definite, ci permette di stare davanti agli altri con una certa sicurezza. Ma se quelle cose che facciamo, abbiamo e siamo non c’entrassero con noi? Se soddisfanno una serie di criteri definiti da altri, ma in verità ci fossero profondamente estranei?

Non lo so.

Quel che però intuisco è che legare la propria personale identità a sogni o progetti dai contorni tracciati fa di noi degli schiavi. E ci si sente persi, falliti e insoddisfatti se questo sogno tarda a realizzarsi, se questo o quel progetto incontra troppi ostacoli e perde di forza o di senso nel tempo o se tutto crolla all’improvviso.

Forse l’identità non è una definizione, è un processo. E nel processo tutto è mutevole. E i desideri dovrebbero mutare con noi, come se la cosa più importante, in fondo, fosse desiderare e non realizzare. Anzi, meglio, come se la cosa più importante fosse iniziare a costruire qualcosa, sulla base di quel che vogliamo, che poi, alla fine, possa essere perfino totalmente diversa dall’idea che ci eravamo fatti in partenza, ma che pure ci sembri bellissima e corrispondente, aderente e calzante al nostro divenire. Come se la realizzazione del nostro desiderio, nostro sul serio però, istintivo, consapevole  potesse essere, alla fin fine, uno svelamento, una scoperta.

Ora lo so, può succedere.

(foto di Karim Bouchetata)

(foto di Karim Bouchetata)

Pensavo fosse un fotomontaggio all’inizio. Poi ho verificato la notizia, ed era vera: ha nevicato nel deserto del Sahara. Mi è sembrata una cosa bellissima, non solo esteticamente, per l’arancio della sabbia ricoperta di neve bianca e gelata, ma per la rappresentazione plastica di opposti che si conciliano, di cose assai lontane fra loro, eppure insieme.

In fondo, tutti, prima o poi, cerchiamo di mettere assieme, appunto, cose, situazioni, relazioni, sogni che sembrano non poter coesistere. La maggior parte delle volte non ci si riesce, ma quasi mai è un fallimento poiché quel che s’impara lungo il tragitto diviene spesso più prezioso dell’intento ultimo che si portava in cuore.

Arrendersi. Resistere. Persistere. Lasciar perdere. Cambiare.

Portiamo dentro svariate possibilità. Ma quasi mai, ammettiamolo, la realtà si piega a quel che vorremmo. Facciamo sogni, immaginiamo progetti, forziamo noi stessi, cerchiamo di portar gli altri dove vogliamo noi, con i migliori sentimenti possibili, per il raggiungimento di un bene che realmente crediamo la cosa migliore che si possa vivere.

A volte accade di realizzare la visione, molto spesso al prezzo di trasformazioni e compromessi che la rendono diversa dall’archetipo, ma comunque bellissima e molto vera. Altre volte, invece, si diventa rigidi, tanto che ogni cosa si distrugge sotto il peso di tale durezza, sotto il torchio di una ostinazione che inghiotte gli orizzonti e sacrifica l’ossigeno.

Bisogna perdere per vincere in alcuni momenti della vita, pare.

La vita.

In questi giorni mi hanno dato un buon consiglio, mi hanno detto che il miglior modo di realizzare un sogno è preparare le condizioni della sua realizzazione. Dentro di noi, in primo luogo e attorno a noi, anche. E aspettare.
Mi piace questo consiglio, anche se spesso è difficile mettersi in attesa, affidarsi alla vita, fidarsi dell’amore e accettare di non legare se stessi ad un sogno unico, ad un obiettivo solo, ad un sentire specifico che mette gli altri in secondo piano.
Bisogna piantare semi in abbondanza, ovunque, e crescere come i cespugli o come i rami degli alberi, allargarsi, cercar spazio, intersecarsi ad altre piante, creare un giardino.

E non chiudere mai il cuore alla possibilità che accada  come ad Ain Sefra, in Algeria.

Forse dentro ciascuno di noi esiste un deserto che aspetta la neve. E ora lo so, può succedere.

http://www.repubblica.it/ambiente/2016/12/21/foto/neve_sul_deserto_del_sahara_non_succedeva_da_37_anni-154588341/1/?ref=HRESS-6#1

“Roma è avida di passi” (Resoconto dei miei primi due anni a Roma)

Una valigia per due mesi. Sembrava dover essere un soggiorno breve e intenso. Corsi per il Dottorato, piccola esperienza in Rai. Dopo, ancora Sud. Per terminare la mia tesi, velocemente e bene. Come avevo sempre fatto. Oggi 30 aprile festeggio il mio secondo anno di vita a Roma. Quei due mesi si sono dilatati, la valigia è diventata stanza in affitto in una, due, tre case differenti. La tesi è ricoperta da centimetri di polvere. In Rai mi hanno aperto un numero di matricola (evento definito giustamente “miracoloso”), ma, di fatto, senza che sia colpa di nessuno, la mia matricola si è atrofizzata dentro a qualche archivio di viale Mazzini. Le hanno sicuramente detto di mettersi in un angolo, al sicuro dalla crisi economica, in attesa di essere richiamata in servizio. Povera! Soffrirà di malinconia, non certo di solitudine. Però un lavoro ce l’ho e pure uno stipendio. Giuro. Precario, ovviamente. Il fatto è che proprio non riesco a farmelo piacere. Il lavoro dico, non lo stipendio, ovviamente.

Due anni. Due anni come due minuti dentro ad un frullatore. Tutto spezzato e trasformato. Tutto diverso. Tra la prima valigia e lo stipendio di oggi ci stanno ventidue mesi e molte cose. Tra la prima valigia e il mio presente c’è una città, una città affollata di gente, di eventi, di robe da piazza, di viicoli stretti, di palazzi, di chiese e monumenti, di manifestazioni, di politica e potere, di spaghetti cacio e pepe, di librerie, di tramonti mozzafiato, di cupolone, di fiorai, di derby, di turisti in canottiera e di bus affolati. Roma. Le persone, le cose, le parole, gli incontri. Ad uno sguardo di insieme, distante, distratto sembra confusione, traffico, caos. Ma a guardare con più attenzione Roma è gente venuta a portare qualcosa nella mia vita: una parola, una possibilità. Gente venuta ad aprire porte chiuse da tempo, o che si accosta, con andatura determinata e costante per dirmi qualcosa di me che ancora non so.

Roma ti deruba di forza. Roma è avida di passi. Accade allora di sentire la stanchezza e di non avere voglia di ributtarsi nella mischia. Pensi: Ma dove vado? Ma cosa sto facendo? Ti pare che il tuo volto si confonda con quello degli altri e che nessuno lo riconosca come unico. E, mentre stai seduto sul gradino del marciapiede ed osservi le ginocchia del mondo che ti passa accanto, alzi lo sguardo, pensi di intravedere “qualcuno” tra la folla e ti assale una malinconia che rende quel luogo insopportabile e la fatica per restarci dentro, inutile. Il luogo da dove vieni si trasforma. I ricordi delle cose “normali” diventano sacri e anche il pensiero di un pranzo in famiglia assume i contorni di un racconto mitologico fatto di eroi, di divinità, di vittorie.

La distanza da casa e l’incertezza del futuro, la vita che cambia e non capisci, i desideri che si trasformano e non riconosci, i compromessi che ti rincorrono, la nostalgia di ciò che desideri diventare, le novità che ti sorprendono, le persone che ti travolgono, tutto ti scava dentro uno spazio. Uno spazio inatteso, non previsto, di cui ti accorgi solo dopo, quando già esiste. E ci guardi dentro e ne vedi la profondità e ti chiedi cosa mai potrai metterci lì dentro, come riuscire a riempirlo. Già. Cosa? Capita di pensare, allora, dopo questi due anni per le strade di Roma, che quello per cui sei arrivata fin qui è diventato altro e che bisogna cambiare programma. Capita di pensare che si, magari la tesi di dottorato la finirai pure ma tocca reinventarsi la vita. E anche se ti rabbrividisce il freddo e l’umidità che arriva da quel vuoto che la città con la sua vita ti ha scavato dentro, speri di poter trovare, da qualche parte, pensieri nuovi, speranze durature, sogni diversi o, forse, sogni rinnovati, cambiati di abito, tirati a lucido. Che la vita è bizzarra, dicono. E i sogni vanno tenuti allennati, ben oleati, con la revisione fatta, con il tagliando in regola. Pronti a ripartire, in qualsiasi momento. Perchè Roma non è solo “guerra”, la tua crociata per conquistare e difenderti la vita. Roma è già vittoria. È la pagina che si gira, è l’attesa di sapere come finirà la storia. “…A me pure piace girare per le strade di Roma… soprattutto in estate.. di sera… verso le sette e mezza, otto… e sentire il rumore delle posate che vengono disposte sulla tavola… e pensare alle famiglie che si stanno preparando a cenare… e sentirmi leggero….

Tramonto romano 1° Maggio 2011

Tramonto romano 1° Maggio 2011