Dovete avere una grande fiducia nella vostra capacità di visione, un’enorme fiducia nel vostro desiderio.
Paolo Dall’Oglio.
Dovete avere una grande fiducia nella vostra capacità di visione, un’enorme fiducia nel vostro desiderio.
Paolo Dall’Oglio.
Caro Abuna Paolo,
in questi giorni tutti parlano di te. Vengono dette molte cose, diverse tra loro, contraddittorie, confuse, presuntuose. Neppure in questo ti è toccato in sorte un destino diverso da quello toccato alla Siria e alla sua gente.
Ci si chiede se sei vivo, se sei morto, e quale senso abbia sperare che tu possa venir fuori come Lazzaro dal sepolcro, fra le macerie di un paese offerto in sacrificio sotto gli occhi di tutti, sull’altare di sistemi infami e di un mondo troppo troppo ingiusto.
Ti si rimprovera d’essere andato a morire, inutilmente. Che pensavi di fare? Parlare con Al Baghdadi? Riuscire in mediazioni fallite (ma mai veramente provate?) dai più alti corpi diplomatici internazionali? Far liberare i prigionieri? Riportare gli estremisti all’Islam della pace? Volevi fare meglio di Gesù forse? Riuscire a disinnescare la miccia della guerra, il furore dell’odio?
Ma il punto, io credo, non è questo, il punto non è cosa volevi fare quel 29 luglio di quattro anni fa, tornando clandestinamente a Raqqa. Il punto è quel che avevi fatto nei trent’anni precedenti, quando tutti i riflettori sulla Siria erano spenti e tu vivevi tra le montagne rosa di un paese oppresso si, ma vivo, attivo e bellissimo.
In quel viaggio assurdo che ti ha inghiottito chissà dove e chissà per quanto, hai cercato di non disperdere i frutti di una vita. Non volevi assistere alla morte dei ragazzi che avevi visto crescere e con i quali avevi parlato, studiato, lavorato perché la Siria diventasse libera, unita, colta, spirituale oltre qualunque intolleranza religiosa, perché la convivenza e la reciproca conoscenza sono le fondamenta della pace e tu lo sapevi già e tu lo vivevi già.
Non potevi guardare dalla poltrona della tua casa di Roma, dove il regime ti aveva esiliato, lo sfacelo di un sogno per il quale avevi comunque già offerto la tua vita.
Basta leggerti ed ascoltarti per capire che in te e nella tua storia personale di equilibrato non c’è nulla. Tu stesso lo dici di essere cresciuto tra “collera e luce”. E per paura di mancare l’obiettivo e il senso della tua esistenza, sei stato probabilmente puntuale all’appuntamento, incomprensibile per molti, con la tua morte.
Ma, caro Paolo, tu che all’appuntamento con la mia personale rivoluzione umana e spirituale sei stato di una puntualità disarmante, tu che hai polverizzato con la forza della tua esperienza l’idea di un cristianesimo chiuso, sempre in trincea, autoreferenziale, ridicolmente e pericolosamente asservito ai giochi feroci di dominio di pochi piccoli uomini, tu che hai fatto moltiplicare il frutto dei miei studi biblici e dato senso alla faticosa ricerca su quelle parole antiche, sapienti e difficili, tu non puoi certo pensare che io mi rassegni così alla tua morte.
Tu devi tornare per forza. Perché in questi quattro anni tanti di noi si sono preparati, come hanno potuto e saputo, a ricostruire la Siria, tanti giovani e meno giovani, in occidente, oggi sanno e fanno cose che prima sarebbero state impensabili: studiano l’arabo, leggono il Corano, si informano e si formano cercando di capire il mondo arabo e l’islam, costruendo il dialogo, tendendo le loro mani.
Abbiamo fatto e continuiamo a fare quel che possiamo, perfino in un paese come il nostro Paolo, dove le ingiustizie sembrano non suscitare sdegno. Lo abbiamo fatto e lo facciamo nelle scuole dove insegniamo da precari, nelle librerie indipendenti che lottano per una cultura plurale e libera, nei circoli Arci, nei comitati antirazzisti, lo facciamo da giornalisti freelance sottopagati, seppur bravissimi.
Cosa è questo a fronte di un milione di morti e undici milioni di sfollati? A fronte delle torture nelle carceri di Bashar al Assad? A fronte dei gas che uccidono i bambini? A fronte dei morti nel mar Egeo e nel mar Mediterraneo? A fronte di potentissime forze politiche e militari, delle loro bombe, delle loro tattiche sporche? A fronte delle divisioni interne al mondo arabo, antiche e dolorosissime? A fronte del dilagare di una sottocultura fascista che si nutre di ignoranza e che scansa la fatica di qualsivoglia conoscenza?
Niente. Non è niente. Ma lo stiamo facendo lo stesso.
Però, Paolo, se tu, da solo, pensavi di poter evitare la distruzione della Siria, noi, siriani e non siriani, arabi e occidentali, cristiani, atei e musulmani, noi che, prima di tutto, ci sforziamo di lavorare alla consapevolezza dei nostri cuori e poi alla pace tra le persone, tra le infinite contraddizioni della condizione umana e i più svariati errori, rivendichiamo il diritto alla speranza, rivendichiamo il diritto di vederti, parlarti, ascoltarti, di nuovo.
Chi potrà guarire le ferite che tanta morte, abbandono, ingiustizia e violenza hanno provocato? Davvero, non lo so. Non so se sia possibile, non so neppure se Dio sia capace di sanare tanto dolore. Ma so che la pace può essere invocata e credo, oltre il limite di ogni ingenuità, che la consolazione e la grazia della vita sono risorse inesauribili perfino nel cuore degli umani più feriti.
Lo vedo negli occhi, nelle parole, nelle azioni dei genitori di Giulio Regeni, per esempio, così come negli occhi, nelle parole e nelle azioni delle famiglie siriane giunte nella mia città. I loro bambini giocano con i miei nipoti e la loro speranza di riuscire a ri-vivere incontra l’impegno e la tenacia di coloro che non considerano inutile lottare contro i giganti. Proprio come hai fatto tu, prima abbandonato dai tuoi, in quell’isolamento che la “struttura chiesa” riserva ai profeti colmando, con la malizia e la menzogna, la distanza che c’è tra il compimento della giustizia e la propria sclerocardia e poi vessato dal regime, ma tenacemente convinto della forza del popolo siriano e della potenza di quel vangelo di pace che le comunità credenti ovunque nel mondo continuano ad annunciare.
Quindi, Paolo, ora basta, adesso è tempo di tornare.
E nell’attesa che non demorde, intanto, As Salaam alaykum fratello mio, ovunque tu sia.
“Un giorno ci sarà una grande festa alla quale parteciperanno i bambini diventati adulti e gli adulti ridiventati bambini. Sarà una festa su tutta la Terra Santa, come la chiamano i cristiani; Benedetta, la proclamano i musulmani; Promessa, la sperano gli ebrei. Dall’Hermon a Gaza, da Tiberiade al Negev, dal mare al fiume, da Gerusalemme a Hebron, a Ramallah, a Nazareth… Il muro verrà abbattuto e non si saprà più dov’era prima. Le vie di acquartieramento delle colonie saranno viali e i reticolati siepi fiorite.
Ismaele abbraccerà Isacco e questi bagnerà di lacrime di gioia il petto di suo fratello. Si terranno per mano e si siederanno insieme vicino alla tomba di Abramo, dalla quale scaturirà un canto di lode, un inno di giubilo. Solo l’amore esclusivo per la casa del Signore, l’Amico degli uomini, abiterà il cuore di Sara e solo le lacrime di gioia e di consolazione solcheranno le guance di Agar. L’ospitalità reciproca sarà la legge del paese. I matrimoni misti diventeranno innumerevoli. I bambini giocheranno insieme, non si lanceranno più né pietre né insulti, non li capiranno neanche più, né in arabo né in ebraico. A Gaza si sentirà giurare per il Dio di Mosè e a Tel Aviv per quello di Muhammad. Chi ritorna dalla Mecca incontrerà chi scende da Gerusalemme, gli abitanti del mondo intero esclameranno: Guardate come si amano!
Anche i discepoli del Nazareno avranno deposto l’orgoglio e si saranno messi a servizio dei pellegrini: Li accompagneranno lodando Dio in Spirito e verità. Le ossa dei suicidi e dei martiri saranno lavate dal perdono, gli assassini soccomberanno alla contrizione e tutti rinasceranno nell’unico abbraccio del Padre”.
(da “Collera e luce” di Paolo Dall’Oglio)
Io non dormo, ma è colpa mia. Sotto la luce fioca delle mie notti leggo un libro di fuoco che toglie il sonno. S’intitola “Collera e luce” e lo ha scritto Paolo Dall’Oglio.
È un libro che brucia le dita ad ogni giro di pagina e, forse, il fatto che l’autore sia stato inghiottito dalla guerra siriana rende ancora più difficile sostenere la lettura. Impressiona l’assenza di retorica. Nulla. Neppure una briciola. Né retorica, né prudenza. Paolo non compie il minimo sforzo per rendere le sue parole accettabili e condivisibili, esse sono piuttosto come i coltelli dei lanciatori al circo, ma la bravura di Paolo non sta nello scansare il bersaglio bensì nell’infilzarne il cuore. Scrive con la forza di chi ha condiviso il cammino sofferto e tortuoso della rivoluzione siriana, chiama Bashar al Assad “assassino” e accusa senza remore la comunità internazionale di aver abbandonato il suo popolo; descrive le minoranze della società siriana, le attese della gente comune, i sogni dei giovani, racconta nei particolari più crudi lo scorrere dei giorni stretto nella morsa di una dittatura crudele ma furba a tal punto da prendersi gioco di tutti, degli stessi siriani, del mondo intero.
Di se stesso descrive il travaglio tragico, il mutare del cuore davanti alla morte sempre imminente, quella lenta e radicale metamorfosi del pensiero e dei sentimenti di fronte all’oppressione, alla violenza, alla paura. Come giganti dai piedi d’argilla le prese di posizione “per principio” vanno in frantumi, le teorie, i dogmi si sbriciolano, perfino il buon senso, spesso, non è sufficiente a cogliere e scegliere il bene ed il bene cambia faccia, a seconda delle circostanze e i valori assoluti abbandonano i tratti rigidi e netti per assumere la forma del corpo dei giovani, delle donne, dei bambini massacrati dal regime, il colore del sangue offerto dai siriani per la libertà. Non fa sconti Paolo, alla complessità della vicenda: la Siria è divenuta il fronte di molte, troppe guerre; davanti a tale complessità l’occidente ha abdicato, trasformando quel territorio in una porzione d’inferno e sacrificando un intero popolo sull’altare degli interessi economici e politici dei singoli stati.
Ieri sera, prima di (non) dormire, ho letto il capitolo che Paolo dedica alla descrizione delle torture. Le parole scorrevano sotto i miei occhi e il mio cuore non provava nulla. Così, insensibile, ho spento la luce e chiuso i miei occhi, aprendomi al buio. Questa mattina, al risveglio, ho capito cosa aveva pietrificato il mio cuore: l’attesa. Si, mi sono resa conto che nella sofferenza sia fisica sia morale, spirituale o psicologica, s’impone la presa di coscienza del bisogno e l’attesa che qualcuno/qualcosa venga a sollevarci dal dolore, che qualcuno si addentri nel perimetro della nostra vita, mettendosi con noi alla ricerca di una soluzione. Quando è il corpo a patire sappiamo cosa fare, chiamiamo un medico, corriamo al pronto soccorso, quando invece la sofferenza è ormai cronica o d’altra natura, allora è più difficile capire a chi rivolgerci e spesso rimaniamo muti e smarriti, ancorati alla speranza che qualcuno ci raggiunga lì dove ci siamo perduti. Ecco, è sul palcoscenico dell’assenza che il dramma della Siria si sta svolgendo. Ieri, leggendo del giovane violentato e crocifisso nelle prigioni di Assad o di quell’uomo ucciso dai militari perché il suo volto torturato e sfigurato era divenuto insopportabile alla vista dei suoi stessi aguzzini, immedesimandomi nella donna arrestata mentre portava il pane ai partigiani del suo popolo, stuprata, torturata e uccisa, ho capito cosa significhi per la Siria la mia, la nostra assenza. Fossi stata io quel giovane, quell’uomo, quella donna, fossi io un bambino affamato nel campo profughi assediato dall’Isis, fossi io anziana e sola, senza casa, servizi igienici, conforto, fossi io, pregherei in ogni istante di veder arrivare qualcuno, cercherei fra le macerie l’orizzonte, lo fisserei, aspettando, aspettando. E non vedendo arrivare nessuno? Forse lascerei al rancore il permesso di divorarmi il cuore, mi nutrirei di rabbia e rassegnazione, forse smetterei di seppellire i morti, forse impugnerei le armi per farmi giustizia. O forse no, magari reagirei alla tragedia cercando di costruire ovunque piccoli istanti di pace, sorriderei senza alcuna logica ai miei bambini affamati, nutrendoli di fiducia e coraggio davanti alla morte imminente. Sotto le macerie della mia casa e della mia vita potrei ancora parlare di libertà? Sognare per la mia terra un futuro di pace?
Guardo con preoccupazione alla polemica sempre imperante nel nostro paese, al tentativo di cercare in ogni cosa il marcio per sabotare gli slanci generosi di bene, la memoria delle lotte, ogni speranza nel domani. L’incoerenza della vita e della storia ci paralizza, le contraddizioni risucchiano la forza, non riusciamo a tenere insieme ciò che vorremmo essere con quello che realmente siamo, vorremmo estirpare da noi quello che ci ferisce e ci stanca, guardiamo con sospetto ogni lato oscuro che ci abita senza lasciarci attraversare dal dubbio che lì, nella penombra del non conosciuto, possa celarsi una risorsa invece di una ferita. Quale politica salverà la Siria io non lo so, se Paolo farà mai ritorno a casa, io non lo so, cosa si possa fare per quel popolo abbandonato ai demoni e agli spettri che noi stessi abbiamo creato, io non lo so. Quello che posso fare, però, è dilatare i confini della mia attesa, far spazio alla speranza dei siriani nella mia quotidiana speranza e chiedermi, senza posa, finché avrò luce agli occhi e fiato e collera per il cuore: Da dove arriverà l’aiuto?
(Paolo Dall’Oglio, Collera e Luce. Un prete nella rivoluzione siriana, EMI, Bologna 2013)
Al povero stendi la tua mano, perché sia perfetta la tua benedizione. La tua generosità si estenda a ogni vivente e al morto non negare la tua grazia. Non evitare coloro che piangono e con gli afflitti mostrati afflitto. Non indugiare a visitare un malato, perché per questo sarai amato. In tutte le tue opere ricordati della tua fine e non cadrai mai nel peccato (Siracide 7,32-36).
In seguito Gesù si recò in una città chiamata Nain e facevano la strada con lui i discepoli e grande folla. Quando fu vicino alla porta della città, ecco che veniva portato al sepolcro un morto, figlio unico di madre vedova; e molta gente della città era con lei. Vedendola, il Signore ne ebbe compassione e le disse: «Non piangere!». E accostatosi toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Giovinetto, dico a te, alzati!». Il morto si levò a sedere e incominciò a parlare. Ed egli lo diede alla madre. Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi e Dio ha visitato il suo popolo». La fama di questi fatti si diffuse in tutta la Giudea e per tutta la regione (Lc 7,11-17).
Al povero stendi la tua mano (Sir 7,32). Il verbo ἐκτείνω, scelto dall’autore di Siracide, è il verbo utilizzato per indicare il movimento della mano stesa, tesa a raggiungere chi sta di fronte. Il Siracide invita a non evitare il contatto, a non restare “dietro” coloro che piangono, ma a porsi di fronte per portare insieme il peso dell’afflizione. La prima preoccupazione non è quella di trovare una soluzione, ma quella di condividere una condizione, di accorciare il perimetro della solitudine attorno a chi soffre. Avere pietà vuol dire sconfiggere la pigrizia, il testo di Siracide usa proprio ὀκνέω, il verbo dell’indugio causato da preoccupazione o prudenza, dalla pigrizia e dal timore per se stessi, il rallentare del passo frenato dalla paura. A questo verbo si contrappone ἐπισκοπέω “fare visita”, usato nella Scrittura per indicare Dio che visita il suo popolo. É il farsi presente del Signore. Gli evangelisti lo pongono in bocca alla gente che segue Gesù e che vede e riconosce nel suo dire/agire la vicinanza di Dio: «Un grande profeta è sorto tra noi e Dio ha visitato il suo popolo» (cfr. Lc 7,16). Gesù stesso al cap. 25 del vangelo secondo Matteo lo utilizza per coloro che visitano i carcerati e sfamano gli affamati senza neppure immaginare di stare facendo qualcosa per Dio: «Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (cfr. Mt 25, 37-40). La pietà, infatti, nasconde la presenza del Signore, la custodisce senza pretendere che venga svelata, essa si fonda in prima istanza sul riconoscimento dell’uomo nell’uomo, nel poter scorgere in chi sta di fronte “un altro come se stesso” (cfr. Calogero Peri, L’uomo è un altro come se stesso, Salvatore Sciascia, Caltanissetta-Roma 2002).
Nel testo del vangelo Gesù non solo si ferma davanti al dolore, ma si fa raggiungere da esso. La donna, segnata da doppio lutto, piange nel figlio la perdita della concretezza dell’amore. I suoi due termini relazionali, il marito e il figlio le sono stati sottratti dalla morte e lei piange il vuoto irrimediabile dell’assenza. Tra il vuoto e la donna, però, ecco che si frappone la potenza insita nell’incontro, una potenza rigeneratrice che non sta soltanto nel fatto di ritrovarsi insieme nello stesso luogo quanto nel mettere in atto l’esserci per l’altro. Gesù καὶ ἰδὼν αὐτὴν “vedendo lei” – dice il testo – ὁ κύριος ἐσπλαγχνίσθη ἐπ’ αὐτῇ (cfr. Lc 7,13). La vista dell’altro provoca in Gesù qualcosa, un movimento delle viscere. Il pianto della donna arriva al, meglio, nel corpo di Gesù. Non è una commozione del cuore o una presa di coscienza razionale della difficoltà dell’altro. Questi elementi devono pure esserci, ma ciò che spinge all’azione è il corpo nel quale l’altro si fa presenza. E il corpo non dimentica. Rielabora, risignifica, ma non dimentica. Il movimento delle viscere, sottolinea l’evangelista, è “su di lei”, quasi ad indicare plasticamente un piegarsi di Gesù sul dolore della donna: “non piangere”, le dice.
Il brano continua raccontando di Gesù che “tocca” la bara del figlio. Nei vangeli Gesù stende la mano per toccare e guarire, per afferrare, per raggiungere, per creare contatto. Gesù, durante gli anni della sua predicazione, tocca continuamente e chiunque, soprattutto gli intoccabili secondo la società ebraica del tempo (lebbrosi, prostitute, peccatori), lo fa con la mano tesa, sopratutto, ma anche con la bocca, perfino con la saliva (cfr. Mc 7, 31-37) oltre che con lo sguardo. Tocca e si fa toccare. In questo brano Gesù tocca la bara del figlio della donna e gli parla, e il ragazzo si solleva e comincia a parlare a sua volta. È importante questo particolare: la parola è la forma principale della comunicazione e, dunque, della relazione. Gesù restituisce alla madre il figlio vivo e parlante. Dona lui a lei, viene ristabilita la potenzialità dell’avere qualcuno “di fronte”.
La pietà, allora, si configura come movimento delle viscere che ci fa capaci di vedere l’altro e, soprattutto, di vederci nell’altro, di scoprire in chi ci sta di fronte qualcosa che ci appartiene, come realtà in atto o come intuizione e possibilità. Ma può accadere che la pietà non nasca spontaneamente, anche in questo senso si può scorgere la sua esigenza di reciprocità. Non è soltanto la capacità di “accorgersi”, la pietà sta anche nel bisogno che diventa invocazione, grido, nel desiderio quasi disperato d’esser visti, nella solitudine divenuta oramai insopportabile che si trasforma in consapevole richiesta d’aiuto: “Guardami Signore, volgi i tuoi occhi verso di me, accorgiti che esisto, renditi conto della situazione in cui mi trovo e agisci! Fa qualcosa per me”, sembrano dire i salmi: Pietà di me, Signore: vengo meno;risanami, Signore: tremano le mie ossa (Sal 6,3); Abbi pietà di me, Signore, vedi la mia miseria, opera dei miei nemici, tu che mi strappi dalle soglie della morte (Sal 9,14); Volgiti a me e abbi misericordia, perché sono solo ed infelice (Sal 24,16); Ascolta, Signore, la mia voce. Io grido: abbi pietà di me! Rispondimi. (Sal 26,7). Chiedere pietà è domanda di una presenza attiva, quasi un richiamare l’altro alla propria identità di custode (cfr. Gn 4,9), è una dilatazione dell’essere che diventa senza dis-perdersi: “esserci per”. È la verbalizzazione di una speranza, l’esigenza gridata di un bisogno.
Ciò che sconvolge nei conflitti di cui siamo oggi spettatori più che testimoni è proprio l’assenza di pietà, la negazione del riconoscimento reciproco, sostituito dalla ferocia, dalla perversione delle fedi, dalla putrefazione delle ideologie. Forse uno dei mille motivi per cui questo avviene risiede nel fatto che per poter riconoscere se stessi negli altri bisogna prima avere occhi capaci di posarsi con pietà su se stessi. Avere pietà di se stessi è la capacità di guardare con speranza alle personali zone d’ombra, è toccare la propria piaga, è rendersi conto, è decidersi per la cura, sempre. Anche davanti allo sgomento provocato dalla consapevolezza di aver mancato il bersaglio della nostra vita. Può succedere, e bisogna imparare a fare i conti con tutte le gradazioni del fallimento e del dolore, così come del successo e della gioia.
Mi pare importante, infine, fare una distinzione tra il termine “conflitto” e il termine “guerra”. Il conflitto è l’urtare di una cosa con un’altra, l’inevitabile scontro fra ciò che fuori e dentro di noi si trova in contrapposizione e ha come fine intrinseco ed esito finale lo stabilirsi di nuovi equilibri; la guerra, invece, possiede come fine intrinseco la vittoria, la supremazia da raggiungere attraverso l’eliminazione dell’altro, a qualsiasi prezzo. La guerra è l’opposto della pietà. La pace, allora, può essere forse costruita attraverso l’esercizio della pietà come grido che avviene in noi stessi e che ci rende abili a percepire e intendere il grido dell’altro. La pietà è rimedio alla paura provata nei confronti di ciò che siamo, di ciò che abbiamo fatto o anche nei confronti di ciò che c’hanno fatto e che muta il nostro sguardo trasformando l’altro in nemico, in colui che ha potere d’aggiungere dolore a dolore. In una delle pagine più belle scritte da Paolo Dall’Oglio (http://www.popoli.info/EasyNe2/Idee/Abbattere_i_muri.aspx), egli utilizza parole schiette e dure, ma molto vere e drammaticamente attuali: «È ora d’inoltrarsi in spazi di empatia inesplorati. Opposti fondamentalismi ci costringono ad abbattere il muro d’odio: etnico, nazionale, dogmatico, misogino, omofobico, schifato delle povertà indecenti, odio di se stessi in nome della natura, della norma, dell’ordine sacro e maschio». La pietà, invece, ristabilisce l’equilibrio, ricuce lo strappo relazionale e restituisce ciascuno di noi, vivo e parlante, nelle mani del fratello.
Caro Abuna Paolo,
a un anno e quattro mesi dal tuo rapimento torno a fare la cosa più inutile che posso: scriverti. Lo faccio perchè è il tuo compleanno, mentre il mondo intero con la preghiera o con un pensiero, con la stima e con l’affetto ti abbraccia, silenzioso e presente.
Alla mia prima lettera, scritta il giorno dopo la tua scomparsa per le strade di Raqqa, avevo affidato parole di sconcerto, parole di rabbia.
La rabbia, quella forza che mantiene in vita in mezzo a qualunque inferno, fino a quando si intravede, seppur lontana, una possibile via di uscita. Quando l’orizzonte si è ormai oscurato, quando le macerie superano in distruzione ciò che resta in piedi, allora alla rabbia deve far posto il coraggio, deve subentrare la pietà.
La Siria è morta.
Ci avevi avvertiti, lo hai fatto in ogni modo, hai urlato, pregato, parlato ovunque, cercando di richiamare l’attenzione di tutti, poi hai deciso di andar da solo per provare a resituire ai Siriani la loro pace e a te stesso quella promessa di Dio che è tutta la tua vita.
Ci vorranno decenni per ricostruire il paese, e anche quando le case saranno di nuovo in piedi, il popolo erediterà a lungo, di parto in parto, le ferite del nostro abbandono e della violenza subita.
Ti penso ogni giorno, e ho paura. Mi spaventa di più saperti vivo e consapevole della tragedia, con il cuore colmo di un dolore senza guarigione, che pensarti morto a questa terra ma vivente, faccia a faccia con il tuo Dio.
Ho desiderato di vederti tornare, di poterti avvistare all’orizzonte, ombra gigante da abbracciare, pensavo: quando tornerà sarà bellissimo! Ora, io voglio imparare a desiderare ciò che tu desideri. E tu, Paolo, cosa desideri?
Tagliano le teste. Rapiscono le donne. Cancellano l’infanzia. Sono bestie feroci. E a tanta violenza noi rispondiamo con le bombe dal cielo, privi di ogni pudore trasformiamo il luogo della speranza in pioggia di fuoco.
Possediamo parole che sono barattoli di latta, rumore e ruggine .
Per sembrare affidabili e ancora potenti abbiamo taciuto, armato gli eserciti e fatto scorta di munizioni.
Ricordi? Dicevi che il conflitto fa parte della realtà, che sottrarsi ad esso, fuggire, non affrontarlo, non assumerlo nella nostra esitenza rende ideologi, xenofobi e violenti.
Il desiderio di libertà del tuo popolo è stato troppo per noi. Cosa potevamo fare, così occupati come siamo a contare, spicciolo dopo spicciolo, i nostri euro e i nostri dollari agonizzanti! Rischiare forse? Perdere quello che avevamo per condividere il pane della democrazia e della pace? Potevamo mettere da parte la nostra ben delineata appartenenza religiosa, per mischiare i nostri abiti buoni della domenica ai vostri piedi nudi? Potevamo forse impegnarci a capire cos’è l’Islam, che pulsa e lotta per sopravvivere alle spalle di un estremismo dal volto coperto?
Paolo, a scuola parlo di te. Parlo di te e della Siria davanti a giovani vite dagli occhi vergini, capaci di visione, come dici tu. E dico loro che, al di là della devastione, esistono ancora le persone, esistono i siriani, e che da essi si deve poter ricominciare. Lo faccio per non perdermi, per rimanere ancorata alla speranza di un mondo diverso. Lo faccio per non perderti, perchè il bene di chi ci ama ci strappa ogni giorno alla fame della morte.
Buon compleanno Abuna Paolo. Ovunque tu sia e qualunque sofferenza tu stia patendo, resta con gli occhi negli occhi del tuo Signore. E se è la vita che vuoi, invocala! Sii forte. Fagli sentire in faccia il fiato e la saliva delle tue grida, giorno e notte. Io, lo faccio con te. E se è la morte che vuoi, se sei stanco, Paolo, chiedila, fuori dalle barricate della dottrina, dove hai sempre vissuto, con la confidenza dei vecchi amici, con la dolcezza degli amanti, come solo può fare chi ha intrecciato la sua sorte all’esistenza di Dio. Io, lo faccio con te.
http://www.paolodalloglio.net/
Ciao Abuna Paolo.
Eccomi qui, mentre mi appresto a fare la cosa più inutile che posso, quella che meno può servire alla tua vita e al paese che hai scelto come tuo: scrivere una lettera.
Parole inabili. Incapaci. Parole senza braccia per venirti a liberare, senza gambe per aiutare i bambini a scappare dalle bombe, che nell’attesa che arrivino ti frantumano dentro e che, quando atterrano, ti frantumano il corpo.
Parole.
Ma porta pazienza, ti prego, perchè solo parole mi pare di possedere, e di tenermele tutte scomposte dentro al cuore, non ho più forza e pazienza.
La prima volta che ti ho sentito parlare ero in RAI. Le domande sapienti di Gabriella Caramore ti hanno reso agile, con la sola forza della voce, dire chi sei. La radio l’amo per questo, perchè fra i cinque sensi l’udito regna. In radio quello che dici è davvero più importante di come appari. (http://www.radio3.rai.it/dl/radio3/programmi/puntata/ContentItem-f86e393a-2749-4a48-be17-7809f1b8802d.html)
Ti ho ascoltato. E mentre ti ascoltavo mi pareva si agitasse in me il mostro multiforme dell’inquetudine. Quello che si odia perchè rende zoppo il trascorrere quotidiano dei giorni, quello che non si riesce a domare, perchè costringe la vita ad occhi aperti e insonni.
In poche battute hai raccontato di te e del tuo cammino, da Roma all’oriente, dal centro del cattolicesimo all’islam, dal dogma alla vita, esperienza di relazioni meticce. L’ossessione della religione pura: pericolosa, viscida tentazione. Ordine contro il disordine di mense condivise, definizioni e teorie contro bambini musulmani e cristiani che giocano la domenica, alle porte del monastero di Mar Musa. E mentre a colpi di dottrina Roma tentava di mettere i puntini sopra le “i” della fede in forma teorica, in Siria, insieme ai tuoi, mangiavi il pane dei credenti in Allah.
Pane, e polvere di deserto tra i piedi.
Abuna Paolo, dicono che fra qualche giorno bombarderanno la Siria. Ed io ti chiedo scusa. Il fallimento politico pesa come pietra dura sullo specchio fragile della nostra democrazia. Quasi un milione di morti è costata la nostra attesa. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha preso tempo per verificare l’utilizzo di armi chimiche da parte dell’esercito di Assad. Abbiamo preso il tempo e ne abbiamo esasperato la relatività. Un minuto è per l’ONU un tempo pressochè inutile. In Siria, in un minuto, muoiono più di 300 persone. La somma dei minuti presi dall’ONU per “valutare” non ha condotto a soluzione alcuna. La somma degli stessi minuti ha fatto 90mila morti in terra di Siria.
Il potere economico di Cina e Russia tiene in ostaggio la comunità internazionale.
In questi giorni guardo spesso in giro per casa, credo che la maggior parte delle cose che possiedo siano made in China. E mi pare che ogni oggetto corrisponda a uno di quei cadaveri avvolti fra le lenzuola, in fila, a turno, verso una vita migliore.
Ti chiedo scusa. Per quello che non ho potuto e non so fare. Sono incapace di dare forma allo sdegno, alla rabbia, a quel poco di senso di giustizia fuggito all’anestetico di cui, volente o nolente, mi nutro ogni giorno. Per sopra–vivere, per passare cioè sopra la superficie della vita, scivolarci sopra senza passarci dentro, perchè se alla vita ci passi dentro non sai se ne esci vivo.
E così ti abbiamo nutrito di solitudine e tu sei diventato un gigante.
L’ho sentito con le mie orecchie. Ti criticano in molti e chissà da quanto tempo. Hai fatto un gravissimo errore, quello che sempre meno viene perdonato: ti sei schierato. Hai detto a tutti, gridandolo, da che parte stavi! Ma è mai possibile che nessuno ti abbia detto che schierarsi uccide? A schierarsi si resta nudi e si diventa bersagli. Tutti saranno pronti a mostrarti la follia della tua scelta, l’imprudenza, la non ragionevolezza. E poi è fin troppo facile dimostrare il tuo errore. Nel fitto groviglio della situazione Siriana, nel delicato gioco di equilibri di un paese in guerra, tu ti sei schierato. A fianco di amici, di gente che sono il volto della tua vita quotidiana, ma che per noi sono una massa poco definita di ribelli. Un miscuglio di estremismo e di pericolo, fondo torbido e opaco di quel pozzo nero che noi chiamiamo Islam. Hai scelto di stare con coloro che noi consideriamo assasini, mercenari, estremisti, mine pronte a scoppiare sotto il culo dell’occidente.
Io mica lo so se tu hai ragione. Perchè da qualunque parte della vita ti fermi a guardare la realtà ti dicono sempre che è la parte sbagliata. Ci sono cose che non sai, ci sono cose che non vedi, sfumature che guardate da altra angolazione permettono di avere la visione opposta.
Sempre, ti ritrovi sempre dalla parte sbagliata. E così tutto è vero e falso allo stesso tempo e non ti resta che arrenderti alle ragioni del più forte.
“I cristiani vogliono Assad” – dicono. Hai sempre affermato che non è così.
Ti abbiamo nutrito di solitudine e sei diventato un gigante.
Tu dici di te stesso che se fossi rimasto a fare il gesuita in Italia saresti scoppiato. E infatti per rimanere fedele a quanto avevi percepito vero, dai gesuiti te ne sei andato. E poi sei tornato. O ti hanno riammesso. Dipende da quale parte ti metti a guardare, appunto.
Sei strano – dicono – inquieto. Un po’ matto. Sei uno che se ne frega delle cose così come dovrebbero essere. E, infatti, ti sei incamminato tra sentieri di guerra. Sei tornato da dove ti avevano espulso per provare a far dialogare chi è incapace di comunicare se non a colpi di arma da fuoco. Hai fatto quello che non spettava a te, secondo quella distinzione di ruoli e responsabilità che ci rende tutti colpevoli e tutti innocenti. Un’invasione di campo, la tua.
Ti abbiamo nutrito di solitudine e sei diventato un gigante.
E la politica, che di pane e di polvere tra i piedi non se ne intende, adesso aggiungerà sangue a sangue. Un’addizione che non aumenta, ma sottrae vite alla vita. Anche la nostra democrazia non conosce che il rombo cupo delle armi per curare l’anemia di dialogo.
La comunità internazionale ha fallito. Ancora, di nuovo. E le comunità cristiane? Forse solo i tuoi compagni di vita sparsi per il mondo si sono messi insieme per capire, conoscere e pregare.
Io non ho sentito di parrocchie senza sonno, a vegliare per implorare la pace in Siria. O semplicemente di comunità che durante la celebrazione dell’Eucarestia pregano, insieme, come “corpo”, consapevolmente, per la Siria e per la pace. Non ho ascoltato di omelie a suscitare pietà dei morti e dei vivi di questa guerra assurda. Leggiamo fiumi di articoli sulle parole e l’operato di Papa Francesco. Sappiamo tutto, cosa porta nella sua borsa personale quando viaggia, sappiamo dove va, cosa fa, cosa mangia, cosa dice, cosa pensa e a chi telefona e perchè. Ci stupiamo della sua “normalità”, ne facciamo notizia, abituati come siamo a pensare che “religioso” voglia dire diverso, speciale, altro. Tutto il contrario di Gesù che è uguale, umano, vicino. E l’ignoranza del popolo di Dio riguardo alla sorte di milioni di persone in Siria, come in Egitto, come in Somalia o come nelle periferie delle nostre città è una ignoranza sempre meno sopportabile. La scissione tra liturgia e vita e destino del mondo attorno a noi è una ferita che rischia di farci morire dissanguati, tutti.
Allora, ti prego, resisti Abuna Paolo, torna. Dobbiamo tutti rimproverarti per la tua imprudenza, per i tuoi schieramenti extramagisteriali e troppo biblici. Torna a prenderti le nostre critiche e a darci in cambio il tuo sorriso, la tua vita esagerata, il tuo modo di essere eccessivo, imbarazzante, inopportuno.
Le nazioni usano le armi. Noi proviamo a riporre la nostra fiducia nel Signore della storia, così, piccoli come siamo, invochiamo pace e dialogo e pietà.
“Sono forse io il custode di mio fratello?” (Gen 4,9). Si Caino, sei proprio tu il custode di tuo fratello.