La vita dentro

still-02_a-walnut-tree

Ieri sera a Palermo ha preso il via il Sole Luna Doc Film Festival, una rassegna cinematografica che cerca di promuovere, come ponte fra le culture, la conoscenza reciproca, la solidarietà, il rispetto.
Tra i primi film in gara è stato proiettato presso lo Spazio Arena dei Cantieri culturali A walnut tree “Un albero di noci”. Il regista Ammar Aziz racconta la nostalgia di un anziano strappato al suo villaggio, in Pakistan, dal conflitto fra esercito e talebani e costretto a vivere in un campo profughi con la sua famiglia.
Baba, così viene chiamato il protagonista, è un maestro e un poeta, un uomo misurato, dalla barba bianca e lo sguardo profondo. Poggiato ad un muretto di mattoni che ne sostiene la fatica e la disperazione narra ai nipoti della terra che ama e nella quale, però, non è potuto restare, “una terra piena di giardini”, trasformata in terreno di sanguinose guerre fratricide, in terra arida dove è feroce la sete della lotta.

Si aggira nel campo in cerca di confronto e conforto, ma lì “non esistono più persone, solo storie”. Esiste solo il passato da ricordare, per molti di loro il presente è troppo duro e il futuro un lusso fuori portata. I bambini bevono acqua mista a fango e sporcizia ed hanno i capelli unti di inconsapevole disperazione.

I lunghi silenzi aiutano a comprendere e a rendere il dramma dei giorni tutti uguali e i dialoghi fanno venire alla luce la distanza tra le generazioni. Lì dove i giovani resistono in attesa di un futuro migliore gli anziani disperano non tollerando oltre l’esilio, la sofferenza, la solitudine.

Baba recita per farsi coraggio una poesia su un albero di noci piantato dal padre, simbolo di appartenenza ad una terra, ad una comunità. Non poterne aver cura, non poterne passare la custodia a figli e nipoti è un dolore troppo grande da sopportare, uno sradicamento che rende il pensiero della morte più tollerabile della vita vissuta in quelle condizioni.

Baba piange lo strazio della sua condizione, davanti al figlio, ai nipoti, alla giovane nuora dice di voler tornare al villaggio e non servono a nulla le ragionevoli opposizioni della sua famiglia, a nulla giova ricordargli delle bombe, delle case distrutte, dei funerali quotidiani, dei bambini senza braccia e gambe, del terrore, dell’odio fratricida. “Voglio tornare – dice singhiozzando – non provate a fermarmi”.

E il desiderio di tornare, di fuggire da una vita che umilia  l’identità è davvero più forte di tutto. Baba scappa. Ancora oggi risulta disperso. Il figlio ha provato a raggiungerlo, ma non lo ha trovato. Ciò che trova sono le macerie della scuola dove lui era cresciuto, dove suo padre aveva insegnato.

Prima di fuggire Baba aveva raccontato delle dodici ore di viaggio tra le montagne, per fuggire ai talebani. Dodici ore durante le quali un fratello spara alla sorella disabile su sua disperata richiesta, perché portarla sulle spalle durante la fuga era impossibile, dodici ore in cui i bambini muoiono di stenti e dove le madri partoriscono figli sotto la pioggia battente.

A walnut tree è una potente poetica narrazione che descrive la forza inarrestabile del viaggio verso la vita che si porta dentro: “La terra di Dio è vasta, troveremo un luogo per vivere in pace”.

A walnut tree

 

Uomini di frontiera

Il vocabolario etimologico dice che la FRONTIERA è il territorio di confine di uno Stato che sta DI FRONTE a quello di un altro Stato. Stare “di fronte” vuol dire guardarsi, è l’esatto contrario di “dare le spalle”.

Oggi, giornata mondiale per i rifugiati, provo a riflettere sulla parola “frontiera”, a capire perché il tempo che stiamo vivendo è un tempo inabile alla “frontalità”.
Siamo capaci di “affrontare” cioè assalire il nemico (spesso quello sbagliato), ma non di restare “di fronte”. Chiudere le frontiere è un paradosso. E’ porre tra i due elementi che stanno fronte a fronte, un ostacolo, una barriera. E’ impedire lo sguardo reciproco, è evitare la conoscenza. E’ prendere la decisione di mostrare di sé, all’altro, le spalle, non la fronte, appunto. Niente occhi, nessun volto, nessuna comunicazione, nessuno scambio.

Le ragioni di questo rinnegamento sono diverse, complesse. Le radici affondano la loro presa nelle profondità velenose di guerre antiche, di violenze inferte ad interi popoli, di sfruttamento di risorse non nostre; anche allora incapaci di restare “di fronte”, abbiamo messo i piedi sulle loro terre, calpestato i loro corpi, coperto gli occhi di chi non poteva difendersi dal saccheggio. Abbiamo aggredito alle spalle. Oggi, travolti dalle conseguenze della nostra devastazione, innalziamo muri, disponiamo armi, seminiamo di morti il mare.

Ma nessuna consapevolezza storica muterà il presente e nessun senso di colpa ci renderà abili a sostenere i loro sguardi. Solo l’esperienza d’esser “mancanti”, noi più di loro, di qualcosa, di qualcuno. Ci accorgeremo, un giorno, di essere rimasti soli, senza nessuno “di fronte”. Se solo fossimo capaci di guardare i volti di chi cerca un rifugio, se solo fossimo in grado di sostenere i loro racconti, di familiarizzare con gli occhi, di condividere il pane! Non più massa informe che destabilizza, ma lineamenti precisi, riconoscibili, familiari. Fossimo capaci di spartire il peso dell’esperienza, la loro fuga diventerebbe la nostra, le nostre vite il loro primo rifugio.

Non ci rendiamo conto di cosa vorrà dire crescere i nostri figli nell’assenza irrimediabile di 100.000 siriani, spazzati via da una guerra infame (solo uno dei tragici esempi possibili), in un mondo barricato e spaventato che s’illude d’essere autonomo, forte, civile. Viviamo come prigionieri in preda al delirio. Se non troviamo il modo di recuperare il senso e il ruolo delle nostre frontiere, la capacità propria dell’essere uomano di stare uno di fronte all’altro, di tendere le mani, di posare lo sguardo su qualcuno e di poterci riconoscere esistenti, vivi, proprio grazie agli occhi di chi sta di fronte e ci guarda, saremo noi quelli che non troveranno né rifugio né salvezza.

A Giovanni

Maledetti noi
mostri a due teste,
con una bocca annunciamo la pace
e con l’altra succhiamo avidi il sangue dei poveri.

Maledetti  noi
demoni a due facce
su di una, lacrime di vetro
e sull’altra il ghigno feroce dei forti.
Vuoto è il torace, deserto
custode del nulla.

Beati  gli esseri umani
di parole lievi e mani operose,
beate le labbra dei muti,
con gli occhi consolano
e offrono il corpo alla fame dei deboli.

Beati i ribelli
di gambe veloci,
beato è chi esagera!
Beati coloro che vanno dove non devono
e voltano le spalle al buon senso.
Beati coloro che infrangono gli argini.

Beata la terra bagnata dal sangue dei giusti
come gambe di donna nel giorno del parto.
Beato l’urlo della madre,
il dolore che spoglia i violenti,
esposti allo sguardo del mondo
lavate la vostra vergogna con scuse di fango.

Finita è l’attesa,
dal salvatore è giunta la morte.
A mani nude scaviamo la polvere,
cerchiamo con occhi ciechi di pianto
la vita che sgorga dal buio.

 

 

Mare ingordo, deserto ladro.

“Abbiamo perso le scarpe nel deserto”. E’ la frase pronunciata dalle donne migranti arrivate in questi giorni, scalze, al porto di Trapani.
Io il deserto lo conosco a granelli sparsi, portati dallo scirocco sui balconi della mia città. E senza scarpe lo sono spesso nei sogni, nei sogni brutti, nei sogni che danno sfogo e offrono chiavi d’interpretazione alle inquetudini del giorno. Senza scarpe lo sono sulla sabbia del mare, quando l’estate diventa vacanza e granite al limone. Se corro sulla sabbia è per giocare, per non bruciarmi i piedi, dall’ombrellone al mare.
Mi chiedo cosa si provi a partire dalla propria casa con le scarpe e a raggiungere una terra straniera a piedi nudi.
Il deserto non è fatto per correrci dentro, il deserto se ci corri dentro si mangia le scarpe.
Il deserto non è fatto per la paura né per la fretta. Il deserto, la paura e la fretta spogliano i piedi. Nel deserto la disperazione è un carburante, fa macinare i Km. Così raccontano, le donne senza le scarpe. Raccontano di fuga, di granelli infiniti come la disperazione.
Il viaggio dall’Africa all’Italia è fatto di sabbia e acqua, di deserto e mare. Di contrari e di eccessi, dune e onde, calura e notti fredde. E di buio. Perchè il buio del deserto è come il buio del mare, è il buio più scuro che c’è. Attraversare il deserto, attraversare il mare. Il deserto ruba le scarpe, il mare si mangia gli amici, le amiche, i mariti, i figli, le figlie, i fratelli e le sorelle. Mare ingordo, deserto ladro!
Le donne che attraverano il deserto hanno i piedi scalzi, lasciano andare via le scarpe per arrivare alla meta. Tengono stretti i bambini fra le braccia e i loro uomini attaccati agli occhi, per non perdersi, per non raggiungere da vedove le sponde della speranza. Nel deserto il mondo si capovolge: non si fugge per vigliaccheria, si scappa per overdose di coraggio. E non si corre lontani dalla morte, gli si va incontro per un corpo a corpo, a viso scoperto.
A cosa si penserà mai su quei gommoni, senza spazio, senza corpo, senza voce e senza scarpe; quale potenza possiede la vita quando la sopravvivenza è il maggior desiderio possibile?
Quando muore qualcuno, qui, da noi, pensiamo, nel dolore, ad occuparci del corpo: noi vestiamo i morti, cerchiamo di dar loro un aspetto dignitoso, compriamo le bare, organizziamo i funerali. Le donne senza scarpe no. Non vestono nessuno, non si occupano del corpo. Quando si muore sulla barca gli scafisti buttano i cadaveri in mare, quando si muore in mare i pesci vedono la morte invadere, prepotente, i loro abissi. I pesci non hanno le scarpe, neppure loro. Non hanno i piedi e non hanno le braccia. “Se solo i pesci avessero le braccia!”. Forse pensano questo le donne mentre vedono gli amici e i mariti, le sorelle, i figli e i fratelli affogare, giù. “Se solo gli uomini avessero un cuore!”, pensano forse i pesci, mentre la morte nera prende possesso della loro vita blu. 185944312-1e9c55fe-bc3d-401f-8fb5-b45a9041d00e
Chissà cos’altro hanno perduto quelle donne nel deserto. Forse i loro ricordi di bambine, i giochi per le strade, le voci delle loro nonne. Forse hanno perduto gli odori delle loro terre, il suono della loro lingua sempre più flebile, correndo dentro al deserto.
Forse il deserto oltre alle scarpe ruba pure i ricordi, così come gli scafisti rubano i documenti. Il viaggio dall’Africa all’Italia ruba le scarpe, gli amici, i ricordi, i documenti. Il viaggio dalla disperazione alla speranza divora identità.
Eppure quando attraccano ai nostri porti le donne a piedi nudi mi sembrano giganti e quasi vorrei io attraccare a quel desiderio di vita che straripa abbondante dagli occhi, forte, come i blocchi di pietra che arginano il mare. Non sanno ancora le donne-giganti a piedi nudi d’essere arrivate in un’Europa abitata da nani deboli, a volte meschini, naufraghi infelici nel loro mare di scarpe.