Una perla di ragazza

(foto di Barry Feinstein)

(Janis Joplin, foto di Barry Feinstein)

Da quando gli anni ’70 hanno fatto irruzione nella mia vita attraverso la storia di chi era un ragazzo in quegli anni, ho imparato, conosciuto e cominciato ad amare molte, moltissime cose e ho compreso che quegli anni esistono come una traccia genetica, inconscia, ma fortissima nella vita di chiunque sia arrivato dopo.

Janis Joplin fino a qualche mese fa era per me uno dei tanti nomi leggendari della musica: Jim Morrison, Bob Dylan, Jimi Hendrix, John Lennon…. Questa estate, invece, percorrendo le assolate strade del Portogallo, ho scoperto chi fosse. Osannata per la sua voce blues, particolarissima in una donna bianca, capace di interpretare brani dal folk al rock and roll (per esempio: https://www.youtube.com/watch?v=sfjon-ZTqzU) e morta come tutte le stars della musica a 27 anni.

Ma della sua storia, più di tutto, mi ha impressionato il disagio e l’inquietudine che l’hanno quasi costretta ad una ricerca continua di se stessa e alla gestione di una sofferenza molto molto profonda.
Dicevano che non fosse bella e pensava anche lei di non esserlo. Grassa per tutta la durata della sua maledetta adolescenza e con la pelle del viso rovinata dall’acne era il bersaglio perfetto per quella massa di idioti presenti nelle scuole di ogni tempo. Janis pativa la solitudine e desiderava essere amata da tutti, tutti, senza distinzione. Scappò via dalla cittadina del Texas dove era nata, da un futuro scritto che la voleva sposata ad un brav’uomo e insegnante in una scuola di provincia. A diciassette anni scoprì di saper cantare e da allora, fino alla morte, non fece altro che questo: cantare e desiderare l’amore.

Io solitamente ascolto Janis Joplin quando sono triste o quando ho bisogno che la malinconia prenda una forma. Possiede una strana forza Janis: quella di portare in corpo un grande tormento e di riuscire a condividerlo come un dono. E’ graffiante ed è dolce. Sfacciata a volte e timida come una bambina. Ascoltare Janis Joplin è come partecipare ad un dolore che è di tutti e cantare con lei aiuta a capire che la fragilità non è una colpa e che nello sguardo di ciascuno si può ritrovare un frammento di qualcosa che ci appartiene.

Janis entrava ed usciva dai tornanti dell’eroina continuamente, era la sua tragica metafora della vita. Vi entrava per amore e vi usciva per amore. Janis ha fatto tutto per amore. Non si è accorta di morire e questo mi consola quando la penso spaventata per la sua solitudine. Forse aveva troppa vita addosso per attraversare l’esistenza  camminando su sentieri già battuti: “Lei non riusciva a trovar il modo per essere come tutti gli altri. Grazie al cielo”, raccontano i suoi amici.

Tra le mie canzoni preferite c’è “To love somebody” ( https://www.youtube.com/watch?v=fkGUt4QYc08; testo e traduzione: http://www.theblacksnack.com/to-love-somebody-janis-joplin/). Mi piace perché descrive bene la sua paura di non poter essere veramente amata da qualcuno. Janis era emotivamente onesta. Patty Smith che l’ha conosciuta e frequentata durante la permanenza al Chelsea Hotel, racconta: Janis trascorse gran parte della festa in compagnia di un bel ragazzo che le piaceva, ma poco prima dell’orario di chiusura il tizio se la svignò con una delle sue leccapiedi più carine. Janis ne fu sconvolta: “Capita sempre a me. Un’altra notte da sola”. Io la riportai in camera. Quando feci per andarmene si guardò allo specchio, e sistemò i boa di piume: “Come ti sembro amica?”.  “Una perla – le risposi. Una perla di ragazza”. (da Just Kids di Patti Smith).

Nel 2005 al 72° Festival di Venezia è stato presentato un documentario che ripercorre la sua storia, guardatelo se potete (https://www.youtube.com/watch?v=UI3NxZIcd2A). E’ molto bello. Viaggerete con lei tra le vie tortuose, tragiche e bellissime dell’animo umano, tra la California e Manhattan, fino al compimento di una vita che sembra spezzata solo in superficie. Nel montaggio è inclusa la lettura di alcune sue lettera. Quella che amo in particolare si conclude con una esclamazione che è forse un grido, forse una bestemmia, ma che a me sembra davvero una delle più belle preghiere che abbia mai sentito in vita mia: “Cristo, quanto cazzo vorrei essere felice!”.