Crocevia

(Golfo di Mondello, foto di Carlo Columba)

(Golfo di Mondello, foto di Carlo Columba)

Lo vedo ogni giorno, vicino alla casa in cui vivo.
Quando prendo l’auto per andare dal mare alla città lui è lì, al semaforo di una piazzetta circondata da aranci amari, piccole aiuole e sparute panchine quasi arrugginite.

Si chiama Hatef e viene dal Bangladesh.
Non so capire quanti anni abbia, è come se non fosse né giovane né anziano.
Lo ha conosciuto per primo l’uomo che mi vuol bene, poi me lo ha presentato.
Loro spesso si salutano stringendosi la mano, a me, invece, Hatef rivolge un gesto a volte con la testa a volte alzando il braccio. Ha un portamento elegante, perfino quando offre il pacco di fazzoletti o quando domanda se può lavare i nostri parabrezza. Non l’ho visto mai insistere e neppure nascondere lo sconforto per il moltiplicarsi dei dinieghi.

E’ elegante ed è malinconico. A Natale si è tagliato i capelli e si è messo in ordine, aveva il collo come quello dei bambini, nudo e pulito. Hatef possiede un vecchio cellulare e da sette anni non fa ritorno a casa. Ci ha raccontato di avere una moglie e dei figli, il più piccolo di sette anni, appunto, e da come ne parla credo che lui questo figlio non lo abbia mai visto.

Non so con esattezza a che ora cominci a passeggiare su e giù per quell’incrocio, ma verso le tredici fa la pausa pranzo. Appena qualche giorno fa l’abbiamo visto seduto su una di quelle panchine arrugginite, mentre mangiava con evidente appetito da un porta pranzo di plastica e divideva il pane con uno stuolo di piccioni che arrivavano a lui, felici, da ogni dove. Sembrava che davvero fossero amici. E la sua solitudine era dignitosa, quasi romantica, senza apparente disperazione, piuttosto appariva come una condivisione di briciole che moltiplicava una comunione bizzarra tra esseri viventi. Emanava però anche un senso d’assenza assai profondo, impenetrabile.
Dopo pranzo Hatef riposa, sdraiato sulla solita panchina, con la testa infilata in una grossa scatola di cartone. Un po’ per pudore, credo, un po’ per proteggersi dai rumori. Poi, ripone in un angolo il cartone e la coperta e si rimette in piedi fra gli aranci, amari di lontananze e di quotidiana iniquità.

Ma la cosa che di più amo di Hatef è la sua girandola. Lui ne possiede una, di quelle con le eliche di plastica colorata che altri suoi connazionali vendono per pochi euro a semafori non distanti dal suo. Lui, invece, la possiede per se stesso e ogni volta che comincia a lavorare la pianta nelle aiuole umide di mare, per segnalare la sua presenza e sperare, forse, in un raccolto di buoni frutti per la sussistenza. La sera, quando se ne va, la tira via e se la mette sottobraccio, per portarla lì dove Hatef scompare lontano dai nostri sguardi.

(La girandola di Hatef)

(La girandola di Hatef)

Io non lo so qual è la sua storia, so che quest’uomo crede e spera in Allah, e che qualcosa di profondamente ingiusto lo ha strappato alla sua vita e alla sua terra portandolo dal golfo del Bengala al golfo di Mondello. Non so cosa patisce davvero né cosa sogna né tanto meno so se ha o se fa progetti per il suo futuro, se il futuro è per lui una categoria reale. Però, per me, quella girandola che si muove gioiosa sospinta dal vento, messa lì a segnalare a tutti la sua esistenza, è grido ed è canto, un’invocazione e una protesta.

Hatef è un grande poeta muto. E’ poeta d’azione, organizzazione e resistenza.
E i suoi gesti rendono il nostro mondo, che certo non gli sorride, un posto migliore affrettando, spero, il giorno in cui saremo capaci di comunione almeno quanto lo sono i piccioni.

Sereno Business a tutti!

(Viareggio, carro sul dramma delle frontiere chiuse, carnevale 2017)

(Viareggio, carro sul dramma delle frontiere chiuse, carnevale 2017)

Mentre guidavo verso scuola, giovedì mattina, in radio è passata la pubblicità di una società di assicurazioni, credo. Una di quelle realtà che coinvolgono ed interessano il mondo della finanza internazionale, il passaggio di merci e soldi da un paese all’altro. Quindi, io, in quanto docente precaria a tempo determinato pronta a rituffarmi nel campo di battaglia delle scuola, non le ho prestato alcun interesse o attenzione. Ero distratta, pensavo ad altro, a molte cose, ma di certo non ai capitali e al commercio.
Soltanto che la chiusura della pubblicità mi ha violentemente costretta all’ascolto:

“Guadagna sereno qualunque siano le tue rotte, con noi Il BUSINESS NON HA FRONTIERE!”

In Serbia, a un gruppo di migranti, che aveva con sé un bambino di 2 anni, era stato detto che sarebbero stati accompagnati in un centro di accoglienza profughi. La polizia li ha invece abbandonati in un bosco al confine con la Bulgaria in piena notte con temperature sotto lo zero. Sono sopravvissuti, ma quando li hanno trovati due erano in stato di ipotermia e privi di coscienza.

In un tribunale serbo alcuni migranti hanno espresso la volontà di richiedere asilo. La polizia che avrebbe dovuto accompagnarli in un centro di accoglienza, ha invece distrutto i documenti e li ha portati alla frontiera bulgara.

In Ungheria un ragazzo siriano di 22 anni ha visto respinta la sua richiesta di asilo in un processo dove non aveva rappresentanza legale e senza possibilità di appello.

“Invito tutta la gente d’Europa ad andare dalla polizia e dire: Aprite le frontiere!” (Aziz, afghano anni 8, bloccato in Serbia).

Ma i nostri capitali non hanno frontiere. Il Business viaggia sicuro. Siete sereni?

Venite a Palermo

Il post di oggi, non può ignorare la lunga veglia dell’Election Night americana. E proprio per questo, oggi, si resta nella mia città: Palermo.

Questa notte mi ha svegliata il temporale, ho dato un’occhiata alla pagina dell’ANSA, dal cellulare, e non ho più potuto prendere sonno. Pensavo a troppe cose. E me ne chiedevo altrettante. Sono stata disattenta e poco lungimirante credendo che Donald Trump non avrebbe mai potuto vincere. Proprio io che per più di metà della mia vita ho vissuto in un paese guidato da un uomo come Silvio Berlusconi, anzi…che per più di vent’anni ho fatto parte di un popolo capace di votare ad oltranza Silvio Berlusconi.

La gente non vota qualcuno che la possa “rappresentare”, la gente vota chi simboleggia le frustrazioni e le mancanze: denaro, potere, arroganza, possibilità di soddisfare ogni desiderio, capacità di cancellare e non di risolvere le paure.

Così a capo di una delle maggiori potenze mondiali ci ritroviamo un uomo, bianco, ricco, misogino, arrogante. Pensandoci ho quasi riso, sinceramente. Basta osservare un attimo il mondo che ci circonda, infatti, per capire che Donald Trump non rappresenta nessuno, non rappresenta nulla di quanto stia veramente accadendo e facendo la storia.

Per questo vi porto a Palermo, oggi. Per questo non vi racconterò nessun libro, dipinto, canzone, museo, scultura etc etc.., ma un’opera d’arte molto molto più grande.

Andiamo nel cuore della città: vicolo san Carlo, vicino piazza della Rivoluzione. E ci andiamo perché è lì che si trova uno dei centri di accoglienza della Caritas. E’ varcando quel portone che ho visto negli occhi i ragazzi che attraversano il mare e che approdano in questa isola grande e disperata. Li ho visti riuscire a giocare a calcio e biliardino, ridere e cantare nonostante siano minori non accompagnati con le radici spezzate e un futuro nero e profondo come il mediterraneo nei giorni di tempesta. E’ lì che ho portato gli abiti raccolti con generosità dai miei colleghi di scuola ed è lì che l’uomo che mi vuol bene mi accompagna con amore e fatica a trasportare quel che speranza e solidarietà riescono ogni tanto a mettere insieme.

Sono adolescenti, altissimi, magri, con la pelle scurissima e il sorriso di perla. Qualcuno ha lo sguardo triste, qualcun’altro ci osserva incuriositi, noi che possiamo entrare ed uscire quando vogliamo, noi con un documento di identità in tasca e uno Stato di cui lamentarci, noi che viviamo in pace, che possediamo le garanzie del diritto, che abbiamo un lavoro e delle radici, lì dove il seme è stato piantato.

A vicolo san Carlo si distribuiscono 200 pasti al giorno e le storie si intrecciano creando una rete di sostegno e protezione per lo smarrimento di chi cerca rifugio e nuove possibilità.

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Mensa Caritas vicolo san Carlo, Palermo

E poi, poi lasciamo il centro storico e andiamo verso il mare. Al Porto di Palermo sbarcano i salvati e i cadaveri. Ma sopratutto sbarcano le donne, quelle incinta o quelle con i piccoli nati durante la traversata o messi dentro una coperta nella speranza di sentirli piangere sulla riva dall’altro capo del mare. Sbarcano donne con il seno pieno di latte e una disposizione al sacrificio che solo l’istinto di sopravvivenza e la sete di vita possono creare e che è più forte, molto molto più forte di Donald Trump.

Palermo, solo uno dei tanti luoghi d’Europa in cui è visibile la trasformazione del mondo. Il futuro è loro: il futuro ha la pelle scura, la forza delle donne e un desiderio di vita che nessun muro, nessun populismo, nessun fascismo potranno fermare.

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Donald Trump è il rappresentante del mondo che muore.

Non spaventiamoci, dunque. Oppure facciamolo, ma solo se questo serve a prendere sul serio il tempo che stiamo vivendo, la nostra personale responsabilità e l’urgenza di aprire gli occhi sulla realtà. Non è restituendo potere agli ideali passati e sconfitti che colmeremo la paura per un cambiamento di cui non riusciamo ad immaginare la meta, ma il cui cammino non riusciremo in alcun modo ad arrestare.

Trump, Putin, Erdogan, il ristabilimento delle frontiere, il terrorismo, la guerra in Siria, il cambiamento climatico, la quotidiana nostrana povertà, i morti in mare, le armi nucleari….potrei continuare a lungo. Il senso di impotenza, paralizza. Sopratutto quando si è quotidianamente bombardati da un sistema di informazione corrotto e bugiardo, le cui responsabilità sono pesantissime e verso il quale sarà necessario prima o poi prendere una posizione.

Oltre le prime pagine dei giornali la vita vera delle persone vere fa il suo corso, in mezzo a multiformi difficoltà e infinite contraddizioni, ma scrivendo una storia molto differente rispetto a quella che il patinato Trump rappresenta, rispetto al tentativo di farci credere che egli sia tutta la realtà e tutto il pericolo.

L’elezione del miliardario americano non è la fine del mondo. Anzi, forse è l’occasione per aprire gli occhi, finalmente, e superare lo sconforto e il catastrofismo . Forse, con la vittoria di Hilary Clinton sarebbe rimasto ricoperto di polvere e rassegnazione il nucleo del problema che è dentro di noi prima d’essere fuori di noi. Ci saremmo convinti che l’elezione di una donna era il passo avanti necessario al cambiamento che tutti ci aspettavamo, così come abbiamo creduto che un presidente dalla pelle nera avrebbe portato la pace nel mondo.

Tutti siamo responsabili, in un modo o nell’altro, consapevoli e non, dell’ascesa al potere di Donald Trump. Staniamo in noi stessi l’ombra lunga della resa e della stanchezza, della rassegnazione e della lamentela fine a se stessa, dello scontento e dello sconforto. Togliamoci le mani dai capelli per questa vittoria/sconfitta che ci ha forse solo ipocritamente sorpresi e tendiamole verso noi stessi e verso chi può stringerla per bisogno e aiuto, paura, solidarietà senza farci promesse che poi tradirà perché non può annunciare nessuna ricompensa né distribuire il sogno di milioni di posti di lavoro.

Lasciate stare Trump, l’America e l’imminente fine del mondo: venite a Palermo, ce n’è una ovunque voi siate, in qualunque parte del mondo.

Il conto che non torna

(foto di Zein Al Rifai)

Oggi ho ascoltato il giornale radio mentre rientravo a casa. Hanno detto che Holland è andato a visitare il campo di Calais, quello che ospita 10.000 persone e che viene chiamato “Giungla” perché è una prigione di melma e fango, senza servizi igienici, dove impunemente avvengono stupri e ronde xenofobe. Ma…non è vero che Holland “ha visitato Calais”, come titolano i giornali. Ha visitato la città, non il campo ed ha promesso agli abitanti che la “giungla” sarà sgombrata, del tutto, per sempre. Come, però, non lo ha specificato. Ha specificato, di contro, di aver chiesto l’aiuto del Regno Unito: che paghino anche loro per riportare a Calais la civiltà! Ma il Regno Unito non vuole pagare, perché è già totalmente a sue spese la costruzione del muro che impedirà del tutto e per sempre, il passaggio dei migranti.
 
Poi, sempre al giornale radio, hanno parlato della Siria. Hanno detto che erano “brutte le notizie”, come se sulla Siria avessimo ascoltato altro se non cattive notizie dal 2011 ad oggi. I negoziati tra Russia e Stati Uniti per la ricerca di un accordo, di un cessate il fuoco e di una transizione politica sono compromessi – dicono i russi – “a causa del tono inaccettabile”, usato dagli Stati Uniti nei loro confronti. Ci sono uomini sensibili al Cremlino. E misurano le forze, come fanno le bestie, che segnano il territorio con urina ed escrementi per decidere chi nel branco è il più forte, il capo. E che importa se intanto 2 milioni di persone ad Aleppo sono senza elettricità e senza acqua e se i bambini bevono   dalle pozzanghere per porre fine al tormento della sete.
 
Ancora, è stata data la notizia del dibattito diretto fra Donald Trump e Hilary Clinton. Pare che il confronto avrà un numero di spettatori superiore al Super bowl, ah, gli americani… Trump oggi ha annunciato che farà di Gerusalemme la capitale indivisa di Israele e che la sua sicurezza sarà per gli USA una priorità. E chi aveva dubbi su questo: ingraziarsi i forti e calpestare i deboli, è lo sport più praticato dell’ultimo secolo.
 
Ah, poi hanno pure detto che il film-documentario di Gianfranco Rosi, “Fuocoammare”, interamente girato a Lampedusa sul tema dei migranti, è il film italiano scelto per concorrere all’Oscar.
 
Già.
 
E’ una bella notizia, certo! Però io, che pure in matematica non sono stata mai brava, mi rendo conto che i conti non tornano.
“Fuocoammare” agli Oscar e 10.000 profughi in mezzo al fango di Calais?
 

Forse il legame tra cultura e società civile è veramente oramai irrimediabilmente compromesso e l’arte, il cinema, la letteratura sono tutte nobili cose, ma ininfluenti, slegate dalla realtà, poiché incapaci di mutare il pensiero, interrogare le coscienze, innescare un cambiamento.

Ma che siamo tutti ottimi attori, è fuor di dubbio. Basta sorridere a favor di camera.

Tutto è nostro (ovvero il mio giro del mondo al “Gibellina Photoroad”).

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Ludovico Quaroni-Luisa Anversa Ferretti, Chiesa Madre, Gibellina (foto di Carlo Columba).

Ho fatto un giro intorno al mondo. Mi ci è voluto un pomeriggio d’estate e migliaia di chilometri macinati di buon passo sui sentieri interiori.

Il Festival internazionale di fotografia “Gibellina Photoroad” è un viaggio. Road, appunto, “la strada”. Un viaggio non solo perché le foto è così che sono: per strada, nelle piazze, dietro gli angoli, fra le mura degli edifici che fanno di Gibellina un posto unico al mondo, ma soprattutto perché le fotografie accompagnano nella sempre difficile e ardua operazione dell’introspezione guidata e sostenuta da un’opera d’arte. Non sono un critico, non capisco nulla di tecniche fotografiche, non conosco le avanguardie o i fotografi di tendenza, ma cerco di tenere gli occhi aperti, su me stessa e sulla storia che sto attraversando.

Il mio viaggio comincia da Baglio Di Stefano, tra canti di cicale e vento di campagna. Ci arrivo con il bagaglio delle parole intense scambiate durante il tragitto con l’uomo che mi accompagna, parole che demoliscono, parole che costruiscono, il dolce affanno del conoscere se stessi, del provare a conoscere l’altro. Entrare nel padiglione di arte contemporanea che custodisce le opere di Arnaldo Pomodoro è stato come metter piede in un mondo incantato. Muovermi tra le opere dello scenografo, tra le sue sculture geometriche di bronzi e ingranaggi, tra i dipinti e le installazioni di diversi artisti contemporanei, tra le foto della rassegna, è stato come avere una visione, non spaventarmi, attraversarla. Dalla vita notturna delle case, ritratta nelle foto bellissime di Turiana Ferrara, si passa, nel giro di pochi metri quadrati, a mondi diversi e complessi e a diversi e complessi modi di esprimere l’essere umani. Nessuna definizione a restringere lo spazio, nessun ruolo obbligato a determinare l’identità. Materiali diversi e le più disparate tecniche di realizzazione utilizzate per dar vita al proprio mondo, per dar sfogo al tormento o all’inquietudine, per creare spazi altri dove sperimentare l’esistenza così come accade e così come si vorrebbe che fosse.

Nel padiglione poco più lontano, molto luminoso e scarno, ci sono le foto di vari artisti, giunti sulle rovine di Gibellina ancora fresche di polvere e disperazione, subito dopo il sisma, a catturare i volti e le storie che il terremoto aveva seppellito mandando in frantumi la vita quotidiana di uomini e bestie. Tra le foto due si impongono ai miei occhi con forza fra gli scatti di Melo Minnella: una tendopoli e una donna con in braccio il suo bimbo. Potrebbero essere foto di oggi, frammenti di uomini e donne sparsi in uno fra i tanti campi profughi della terra: che brutta cosa  – penso – dimenticare il dolore fino a non saper più riconoscere quello che si ha sotto gli occhi negli occhi degli altri, ogni giorno. Come è corta la nostra memoria.

Nella piazza del Municipio c’è un bar che bisogna visitare se si va a Gibellina. Si chiama “Agorà” ed entrarci è come sentirsi catapultati in uno dei paesi della dittatura comunista del secolo scorso. Vedere per credere. In piazza le foto sono enormi, a grandezza naturale, foto di facciate di palazzi, di persone che tornano da lavoro, foto di città devastate e squallidi spazi abbandonati ripresi dall’alto. Spazi urbani che si alternano a volti, volti che contengono storie, storie che si deve esser disposti ad ascoltare per capire il senso degli spazi e le espressioni dei volti: un girotondo di sensazioni, una vertigine.

Era la mia seconda visita a Gibellina e l’ho amata molto. Le sue stranezze mi erano più famigliari e le sue pietre più comprensibili. La sfera di luce bianca della cattedrale mi è parsa bellissima e così gli angoli del giardino antistante fra le cui mura si trovavano le foto delle “Pietre di Palermo” di Ezio Ferreri. Palermo, la città dalle rovine mute che ancora oggi non si riescono a raccontare, rovine di malinconia feroce e decadente, dal cui peso ogni giorno proviamo a riemergere. Si può sostare al riparo, custoditi da spigoli pungenti, seduti su panche ruvide di muro orizzontale, con la sfera di luce incombente alle spalle  e il corpo di Cristo al di là del cemento armato, seduti a guardar le foto appese o a pensare o a raffinar l’olfatto per odorar la salvia e il rosmarino piantati a circondare la chiesa, forse nel tentativo di farla sentire una casa per tutti.

Le foto sparse nella città obbligano ad attraversamenti pedonali di piccola o media portata. E’ ancora estate e ci sono i ragazzi per strada. Ad ogni luogo la sua porzione di giovinezza: i bambini che giocano a pallone al Sistema delle piazze e gli adolescenti nella Piazza della memoria, i ragazzi che giocano a carte ai tavolini del bar e le ragazze che passeggiano, con gli smartphone in mano a causar distrazione e a far perdere la partita, fin da subito, a scanso di equivoci. Chissà se crescere in questo museo a cielo aperto che è Gibellina crea in loro un immaginario diverso. Chissà se le opere d’arte tra le quali giocano, camminano e crescono avranno la meglio sulla fantasia banale di orizzonti resi tutti uguali da facebook e dalla Tv. Chissà se lo spazio immenso, il silenzio e la luce di questo luogo li aiuteranno nelle scelte da fare per diventare adulti, chissà.

Alla fine del giro, tornando in auto, ripenso alle cose viste e capisco che due sono i lavori che ho particolarmente apprezzato. Il primo è di Giulio Piscitelli. Le sue foto ritraggono “quell’evento storico inarrestabile, quell’energia collettiva davanti alla quale si svelano le nostre meschinità” ovvero i viaggi dei migranti verso l’Europa. Le foto enormi costeggiano la strada e sono poste in alto. Bisogna alzare lo sguardo, quindi, con la testa leggermente indietro per poterle osservare. Sembra che ti vengano addosso e senti il mare e senti il deserto e senti la disperazione e vedi la paura, la vedi in quegli sguardi e sotto la tua pelle, anche se non hai da scappare con la morte alle calcagna e l’ignoto ad ogni passo.

Il secondo è di Issa Touma, un fotografo siriano, di Aleppo. Io a queste foto non ero preparata. Stavo ancora ammirando le geometrie e le asimmetrie delle Case Di Lorenzo realizzate dall’architetto Francesco Venezia, i muri color della terra e il cielo a stabilirne il confine, quando, voltato l’angolo, mi sono ritrovata davanti la guerra di Siria. Ritratti di giovani donne con una fascia bianca sugli occhi, donne violate proprio nell’intimo sacrario della propria identità: amici e parenti morti, lavoro perduto, le bombe sulla testa, l’impossibilità di progettare il futuro e di vivere il presente.  Non so se si può dire di aver visto il volto di qualcuno se non lo si può guardare negli occhi, ma forse quello che la fascia bianca posta dall’artista nasconde è svelato dalle poche parole riportate dietro ad ogni foto. Solo il nome e un pensiero breve: Dima, Zanous, Angela, Lama e molte altre.

Le loro parole le voglio riportare alla fine di questa piccola cronaca, perché si dice che sono le ultime parole quelle a rimanere più impresse. Prima voglio provare, se riesco, a rendere un momento di questa visita a Gibellina, un momento breve, quasi invisibile, ma importante. Era il crepuscolo, tirava un vento sottile e dappertutto attorno era silenzio. Passeggiando insieme all’uomo che mi ha accompagnata ho avuto la percezione netta di quanto fosse importante tornare a casa con la consapevolezza di dover non ricordare, ma metabolizzare le cose viste, le parole lette, le sensazioni provate, farle diventare parti del mio corpo, pezzi di me. Le foto del Gibellina Photoroad non sono al riparo fra le mura di un museo. Sono affidate alla strada, agganciate in gran numero solo dalla parte superiore: il vento le fa dondolare, il sole ci batte contro. Sono nascoste fra gli angoli, trovarle è una caccia al tesoro. Non ci sono custodi a difenderle, né riparo alcuno dai temporali estivi, dai vandali, dai gatti randagi. Mi davano l’idea di appartenere a chiunque ed io le ho sentite mie. Lui mi camminava accanto, ma in questo incedere non eravamo soli. Eravamo in cammino con tutti e niente di quanto quelle foto ci avevano raccontato poteva esserci davvero estraneo o indifferente: da una sensazione personale e privata ai grandi drammi sulle spalle dei popoli, tutto quello che avevamo visto era nostro.

E lo erano anche le parole delle giovani donne siriane. Andrebbero ripetute a voce bassa queste parole, a fior di labbra, come un rosario, fino a quando non sarà chiaro a ciascuno quella cosa piccola, piccolissima, forse inutile eppure da fare per porre fine a tanto insostenibile, ingiusto, inaccettabile dolore:

Hiba, 31 anni.
Dopo 13 anni di indipendenza economica, oggi sono terrorizzata di perderla se Aleppo dovesse cadere nelle mani degli estremisti. Sarei intrappolata nel mio appartamento, incapace di uscire se non accompagnata da un familiare di sesso maschile. Ho attacchi di panico quando penso di perdere la mia vita, il mio lavoro, solo perché sono una donna.

Angela, 35 anni.
Ho studiato farmacia in Russia. È terribile non essere in grado di dispensare medicine alle persone che ne hanno bisogno. Nel 2012-2013 le medicine erano particolarmente difficili da trovare. Non potevo stare ad Aleppo. Dopo tre anni di guerra sono tornata nel mio villaggio, lontano dal puzzo della città che muore.

Zanous, 26 anni.
Non ho paura di morire, ho paura di un handicap fisico o mentale. Credo che Dio sia il Salvatore onnipotente ed ho intenzione di rimanere qui ad Aleppo.

Dima, 21 anni.
Da quando è iniziata la guerra ho detto addio a tante persone. Allora ho smesso di incontrare persone così non avrei dovuto più dire addio. Ho perso ogni senso di vivere. Sono rimasta ad Aleppo per finire i miei studi e ogni notte conto le bombe che esplodono intorno a casa mia fino a quando non mi addormento.

Lama, 25 anni.
Non avevo paura della morte, perché non sapevo che cosa significasse. Quattro anni di guerra mi hanno cambiata. Ora vivo ad Aleppo, il luogo più pericoloso del mondo. Ma sono ancora determinata a sognare, vivere e godere di ogni atomo di aria fresca e nubi bianche. Se sopravvivo a questa guerra voglio visitare la grande muraglia in Cina, praticare la meditazione indiana e continuare a disegnare.

“Se sopravvivo a questa guerra”. Prima persona universale.

 

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Uomini di frontiera

Il vocabolario etimologico dice che la FRONTIERA è il territorio di confine di uno Stato che sta DI FRONTE a quello di un altro Stato. Stare “di fronte” vuol dire guardarsi, è l’esatto contrario di “dare le spalle”.

Oggi, giornata mondiale per i rifugiati, provo a riflettere sulla parola “frontiera”, a capire perché il tempo che stiamo vivendo è un tempo inabile alla “frontalità”.
Siamo capaci di “affrontare” cioè assalire il nemico (spesso quello sbagliato), ma non di restare “di fronte”. Chiudere le frontiere è un paradosso. E’ porre tra i due elementi che stanno fronte a fronte, un ostacolo, una barriera. E’ impedire lo sguardo reciproco, è evitare la conoscenza. E’ prendere la decisione di mostrare di sé, all’altro, le spalle, non la fronte, appunto. Niente occhi, nessun volto, nessuna comunicazione, nessuno scambio.

Le ragioni di questo rinnegamento sono diverse, complesse. Le radici affondano la loro presa nelle profondità velenose di guerre antiche, di violenze inferte ad interi popoli, di sfruttamento di risorse non nostre; anche allora incapaci di restare “di fronte”, abbiamo messo i piedi sulle loro terre, calpestato i loro corpi, coperto gli occhi di chi non poteva difendersi dal saccheggio. Abbiamo aggredito alle spalle. Oggi, travolti dalle conseguenze della nostra devastazione, innalziamo muri, disponiamo armi, seminiamo di morti il mare.

Ma nessuna consapevolezza storica muterà il presente e nessun senso di colpa ci renderà abili a sostenere i loro sguardi. Solo l’esperienza d’esser “mancanti”, noi più di loro, di qualcosa, di qualcuno. Ci accorgeremo, un giorno, di essere rimasti soli, senza nessuno “di fronte”. Se solo fossimo capaci di guardare i volti di chi cerca un rifugio, se solo fossimo in grado di sostenere i loro racconti, di familiarizzare con gli occhi, di condividere il pane! Non più massa informe che destabilizza, ma lineamenti precisi, riconoscibili, familiari. Fossimo capaci di spartire il peso dell’esperienza, la loro fuga diventerebbe la nostra, le nostre vite il loro primo rifugio.

Non ci rendiamo conto di cosa vorrà dire crescere i nostri figli nell’assenza irrimediabile di 100.000 siriani, spazzati via da una guerra infame (solo uno dei tragici esempi possibili), in un mondo barricato e spaventato che s’illude d’essere autonomo, forte, civile. Viviamo come prigionieri in preda al delirio. Se non troviamo il modo di recuperare il senso e il ruolo delle nostre frontiere, la capacità propria dell’essere uomano di stare uno di fronte all’altro, di tendere le mani, di posare lo sguardo su qualcuno e di poterci riconoscere esistenti, vivi, proprio grazie agli occhi di chi sta di fronte e ci guarda, saremo noi quelli che non troveranno né rifugio né salvezza.

Mare ingordo, deserto ladro.

“Abbiamo perso le scarpe nel deserto”. E’ la frase pronunciata dalle donne migranti arrivate in questi giorni, scalze, al porto di Trapani.
Io il deserto lo conosco a granelli sparsi, portati dallo scirocco sui balconi della mia città. E senza scarpe lo sono spesso nei sogni, nei sogni brutti, nei sogni che danno sfogo e offrono chiavi d’interpretazione alle inquetudini del giorno. Senza scarpe lo sono sulla sabbia del mare, quando l’estate diventa vacanza e granite al limone. Se corro sulla sabbia è per giocare, per non bruciarmi i piedi, dall’ombrellone al mare.
Mi chiedo cosa si provi a partire dalla propria casa con le scarpe e a raggiungere una terra straniera a piedi nudi.
Il deserto non è fatto per correrci dentro, il deserto se ci corri dentro si mangia le scarpe.
Il deserto non è fatto per la paura né per la fretta. Il deserto, la paura e la fretta spogliano i piedi. Nel deserto la disperazione è un carburante, fa macinare i Km. Così raccontano, le donne senza le scarpe. Raccontano di fuga, di granelli infiniti come la disperazione.
Il viaggio dall’Africa all’Italia è fatto di sabbia e acqua, di deserto e mare. Di contrari e di eccessi, dune e onde, calura e notti fredde. E di buio. Perchè il buio del deserto è come il buio del mare, è il buio più scuro che c’è. Attraversare il deserto, attraversare il mare. Il deserto ruba le scarpe, il mare si mangia gli amici, le amiche, i mariti, i figli, le figlie, i fratelli e le sorelle. Mare ingordo, deserto ladro!
Le donne che attraverano il deserto hanno i piedi scalzi, lasciano andare via le scarpe per arrivare alla meta. Tengono stretti i bambini fra le braccia e i loro uomini attaccati agli occhi, per non perdersi, per non raggiungere da vedove le sponde della speranza. Nel deserto il mondo si capovolge: non si fugge per vigliaccheria, si scappa per overdose di coraggio. E non si corre lontani dalla morte, gli si va incontro per un corpo a corpo, a viso scoperto.
A cosa si penserà mai su quei gommoni, senza spazio, senza corpo, senza voce e senza scarpe; quale potenza possiede la vita quando la sopravvivenza è il maggior desiderio possibile?
Quando muore qualcuno, qui, da noi, pensiamo, nel dolore, ad occuparci del corpo: noi vestiamo i morti, cerchiamo di dar loro un aspetto dignitoso, compriamo le bare, organizziamo i funerali. Le donne senza scarpe no. Non vestono nessuno, non si occupano del corpo. Quando si muore sulla barca gli scafisti buttano i cadaveri in mare, quando si muore in mare i pesci vedono la morte invadere, prepotente, i loro abissi. I pesci non hanno le scarpe, neppure loro. Non hanno i piedi e non hanno le braccia. “Se solo i pesci avessero le braccia!”. Forse pensano questo le donne mentre vedono gli amici e i mariti, le sorelle, i figli e i fratelli affogare, giù. “Se solo gli uomini avessero un cuore!”, pensano forse i pesci, mentre la morte nera prende possesso della loro vita blu. 185944312-1e9c55fe-bc3d-401f-8fb5-b45a9041d00e
Chissà cos’altro hanno perduto quelle donne nel deserto. Forse i loro ricordi di bambine, i giochi per le strade, le voci delle loro nonne. Forse hanno perduto gli odori delle loro terre, il suono della loro lingua sempre più flebile, correndo dentro al deserto.
Forse il deserto oltre alle scarpe ruba pure i ricordi, così come gli scafisti rubano i documenti. Il viaggio dall’Africa all’Italia ruba le scarpe, gli amici, i ricordi, i documenti. Il viaggio dalla disperazione alla speranza divora identità.
Eppure quando attraccano ai nostri porti le donne a piedi nudi mi sembrano giganti e quasi vorrei io attraccare a quel desiderio di vita che straripa abbondante dagli occhi, forte, come i blocchi di pietra che arginano il mare. Non sanno ancora le donne-giganti a piedi nudi d’essere arrivate in un’Europa abitata da nani deboli, a volte meschini, naufraghi infelici nel loro mare di scarpe.