Risate di ragazza

(illustrazione di Thomas Danthony)

(illustrazione di Thomas Danthony)

Dalla finestra di casa mia sento ridere una ragazza. Quasi ogni sera, sempre a quest’ora.

Non so chi sia, ma ride in un modo che è impossibile non andarle dietro, almeno con un sorriso, mentre dopo cena si rimettono a posto i piatti.

E’ strano come da una risata si possa riuscire a determinare la fascia di età di una persona. Lei, la ragazza, dovrebbe avere circa vent’anni, glieli sento negli acuti e nel fiato, nella durata e nell’intensità del suono.

Succede d’estate di scoprire suoni nuovi oppure nascosti in altre stagioni.
Cambia il sottofondo delle nostre vite con le finestre spalancate alla bella stagione.

Io son fortunata, il mio sottofondo estivo è fatto di grilli, uccelli notturni, ululato di cani e risate di ragazza.

E’ una partitura bellissima. E lei è la voce solista.

Anche quello che non è nostro e che non possiamo controllare, può renderci felici. Anzi, forse proprio perché non c’è spazio di possesso che il cuore si sente libero di partecipare e quindi, lieto.

Oramai l’aspetto ogni sera. Siamo amiche io e la sua risata.

Dovremmo ridere tutti con le finestre aperte nelle sere d’estate.

Ad occhio nudo

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Ho scelto il mare tra le pietre. Lontano dalle spiagge attrezzate, affollate, martoriate. Qualche scalino diroccato per accedere a scogli biforcuti come lingue pietrificate di rettili. Pietre ostili ed abbandonate. Pietre che costringono a premeditare i passi, uno ad uno. Tra gli scogli trovo tutta la miseria del nostro popolo: cassette di polistirolo gettate dai venditori ambulanti di pesce. Scendono tra gli scogli a cercare alghe per ornare i pesci comprati al mercato tutti in fila ed eguali, per farli sembrare figli unici rubati al mare. Poi, a vendita avvenuta, quel che rimane lo buttano via insieme alle cassette, perché se una cosa non la si vede, non c’è. Si dissolvono le responsabilità. La preoccupazione di farla franca è più forte della bellezza e dell’armonia, più forte delle meraviglie che ci sono toccate in sorte. Non ci lasciamo educare dalla bellezza. La bellezza ci terrorizza, perché possiede una energia vitale che tutto coinvolge. E così le cassette coi resti di pesce si, erano oscene, ma drammaticamente familiari. Brandelli di animali a soddisfare quel senso della morte che noi siciliani portiamo nel DNA come anello immutabile, di generazione in generazione.

L’aria era fresca, il sole caldo, il mare leggermente increspato, il suo profumo ovunque. Nonostante fossi in compagnia sono rimasta a lungo in silenzio, un silenzio pieno, comunicativo, sereno. Ma non sono riuscita a pensare a nulla, perché tutta l’immobilità delle pietre si è animata, piano piano, esigendo la mia attenzione. Quando si guardano le stelle nelle notti d’estate, più si osserva il cielo più aumenta il numero di stelle che ad occhio nudo si riescono a guardare. L’occhio nudo. Una nudità antica, fragile, ma tenace.

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A tener fisso lo sguardo sugli scogli, a lungo, si scoprono mille piccole, piccolissime vite a prima vista invisibili: i pomodori di mare, rossi e morbidi, strane lumache con un guscio a piramide che camminano lentamente e costantemente da una parte all’altra, senza mostrare mai il proprio corpo. Sembra solo un guscio mobile, con un segreto dentro. Poi ci sono i granchi, piccoli, neri o color della pietra. Sono veloci e buffi, spariscono dentro i fori di quelle rocce modellate dall’acqua, piene di nascondigli e luoghi inaccessibili. E infine gli insetti: piccoli e grandi, con le ali, senza ali, neri o colorati. Colonie intere che si sono disperse non appena ci siamo accampati su una delle pietre meno ostili, per poi tornare sporadici e in pace, a cercar di recuperare il proprio spazio, le proprie attività.

In mare, vicino agli scogli che sprofondano in acqua nuotano pesci invisibili: li si vede solo se ci si ferma a guardare per minuti lunghi e senza fretta. Piccoli pesci quasi trasparenti, altri perlati, altri ancora neri e marroni, qualcuno rosso. Molti nuotano con disinvoltura senza una direzione precisa, almeno così pare. Destra sinistra, destra sinistra…senza metà. Altri restano aderenti agli scogli e più che nuotare, strisciano. Delle pietre assumono i colori e con le stesse si confondo stando fermi, immobili.

In cielo, i gabbiani. Uno di loro ci ha tenuto compagnia. Aveva avvistato i resti di pesce. Davanti a noi ha eseguito una serie di manovre di ammaraggio perfette. Planava leggero, aerodinamico, preciso. Pian piano ha preso confidenza, ha capito che noi non eravamo armati di nessun odio o istinto di morte nei suoi confronti, solo di un po’ di invidia per la sua leggerezza, per la possibilità di spiccare il volo diretti ovunque. Due, tre, quattro saltelli, poi in un baleno ha preso il pesce e penzolante dal becco lo ha portato un po’ a largo per consumare il simbolo del nostro animo decadente in santa pace.

L’acqua era fredda e pulita. Il corpo timido.

Io ho paura del mare, anche se ho un passato di nuotatrice. In mare non ci sono i confini delle piscine olimpiche e l’acqua è troppo, troppo leggera. Si nuota con minore fatica e maggior pensiero. In piscina, durante i km di allenamento il cervello riposa, i pensieri lasciano il posto alla gestione dello sfinimento, della stanchezza, dei muscoli doloranti. Quando nuoto in mare il mio cervello resta vigile, in allerta. Il mare è incontrollabile. E’ pieno di vite che non conosco, di cui percepisco e so la presenza, ma che non vedo. Mi sento guardata dalla forza primordiale del mondo e mi spavento.
Lo amo e lo temo, come nelle migliori delle tradizioni.
“Il mare è traditore”, si dice. Ma forse è semplicemente molto molto molto più grande e potente di noi. L’occhio, l’occhio nudo non lo può comprendere, anzi, il mare è a perdita d’occhio. Ne possiamo scegliere una porzione, piccola, tra le pietre, osservare il suo mondo attorno, perfino dentro, ma non di più.

Tra uno scoglio e l’altro c’era una piccola cavità. Ad ogni spinta del mare verso terra la cavità si riempiva d’acqua e quando l’acqua si ritirava appena, si svuotava. Sembrava come un ventricolo. Anche le pietre respirano.

La sera a casa il sole a picco sulle spalle restituiva il calore. La nostra è una pelle fragile. Non voliamo, non nuotiamo nelle profondità, non possiamo esporci a lungo al sole che riflette sull’acqua. Siamo inadatti al mare e per poterlo vivere dobbiamo attrezzarci di molti strumenti.

Esercita su di noi il fascino delle cose grandi, e come l’acqua tra gli anfratti degli scogli, il mare arriva dentro, lì dove si annidano i sentimenti migliori, i sogni grandi, gli amori mai sopiti. Il mare placa la rabbia che corrode e restituisce il senso della misura delle cose. E le cose, le situazioni, gli stati d’animo e i pensieri, sono molti, diversi, come i pesci e le lumache di mare sono invisibili ad uno sguardo frettoloso e disattento. Tutto sembra uguale, ma niente lo è davvero. Abbiamo bisogno di tempo, di calma, di pazienza e di curiosità per permettere all’occhio nudo di guidarci nel mare aperto delle nostre complessità.

Che salpino le navi…

Sogno: dal latino SOMNIUM, sonno. Immagini che vengono nella mente durante il sonno oppure “finzione, cosa passeggera”.

Visione: dal latino VIDERE, vedere. Funzione sensoria per la quale gli occhi pongono gli uomini e gli animali in rapporto con il mondo esteriore, con l’intermedio della luce”.

Realtà: dal latino RES, cosa. Oggetto che esiste, sostanza, verità.

Dilatare: da DIS(che indica separazione) e LATUS, esteso spazioso. Accrescere in estensione e ampiezza.

SOGNO di VEDERE la REALTA’.
VEDO la REALTA’ da SOGNARE
DILATO coi SOGNI la REALTA’.

Fuoco pazzo

(Giovanni Falcone - Francesca Morvillo)

(Giovanni Falcone – Francesca Morvillo)

Il mondo è fatto così – , rivelò. – Un mucchio di gente, un mare di fuocherelli.
Ogni persona brilla di luce propria in mezzo a tutte le altre. Non esistono due fuochi uguali. Ci sono fuochi grandi e fuochi piccoli e fuochi di tutti i colori. C’è gente di fuoco sereno, che non si cura del vento, e gente di fuoco pazzo, che riempie l’aria di faville. Certi fuochi, fuochi sciocchi, non fanno lume né bruciano. Ma altri ardono la vita con tanta passione che non si può guardarli senza strizzare gli occhi; e chi si avvicina va in fiamme.
                                                                                                               Eduardo Galeano

Darsi pace

(foto di Carlo Columba)

(foto di Carlo Columba)

La notte che fa paura ai bambini e spaventa gli ammalati, mette in fuga le finzioni ed inghiotte con le luci le sue ombre!

I bus tornano al deposito lenti, mentre sfrecciano le auto di ragazzi in fuga dal mondo, almeno per una sera.

Nessuno è innocente e la notte nasconde tutti.

La luce che a tratti ci fa bello lo sguardo, nella notte allunga le radici. E’ frutto di molti silenzi, della veglia prolungata a forza cercando di rimettere insieme  pezzi di corpo e cuore o di dar senso a ciò che spezzato non torna intero.

(foto di Carlo Columba)

(foto di Carlo Columba)

Al sonno si mescola rabbia, solitudine, l’amarezza dei giorni infelici oppure la pace di una felicità tutta da sbocciare, ancora, al riaffacciarsi del sole. Vorremmo che la luce svelasse al nostro sguardo un mondo diverso, sogniamo di poter mutare noi col mondo lasciando alle strade deserte della sera quel che possediamo e non vogliamo.

Temiamo che all’alba appaia immutato il muro scrostato dell’animo, quel lento sgretolarsi di polveri che lascia intravedere il cemento, vivo e grezzo, che tutto può ri-diventare, ma che non riesce ad essere altro.

La notte, laboriosa e nascosta, cantina di sogni che invecchiano col vino di raccolti antichi, lasciati troppo a lungo a macerare nelle botti. E’ l’aceto amaro di ogni buona cosa rimandata, sempre a domani.

La notte accorcia le distanze: gli amanti si pensano, gli amori si toccano, i figli cercano le madri e chiedono il seno con l’istinto buono e senza parole che la vita essenziale possiede. Nel sonno si allungano le mani in cerca del contatto.

(foto di Carlo Columba)

(foto di Carlo Columba)

Affiora alla coscienza quel che con il giorno non pensiamo, non domiamo. La notte apre i cancelli delle gabbie e lascia camminare in unico spazio, fianco a fianco, le belve e le prede.

La notte ruba il riposo agli artisti. E’ tempo di visioni. In cielo volano i mammiferi e gli uccelli, tacciano. Si ribaltano i sensi ed è al contrario che bisogna porsi, voltare le spalle a se stessi per poterli ri-afferrare. Il bene è il bene? E il male cos’è?

La notte è breve per chi impasta il pane, ha i pensieri vivi, di carne, tra le dita delle mani. Le mani dei filosofi non parlano, invece, e la notte è per loro come un giro di valzer che non sa fermarsi.

Le luci di chi non dorme si accendono come torce di solidarietà agli insonni del mondo.

Bisogna darsi pace: se ne andrà, la notte. E poi, tornerà ancora.

Ma a se stessi, la pace.

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Rispirari in funn’o mare

(foto di Maggie Hood)

(foto di Maggie Hood)

Aprire qui https://www.youtube.com/watch?v=wFZ4aaPVVIQ

Un canto di gioia in lingua straniera

(Foto di Carlo Columba)

(Foto di Carlo Columba)

Ha occhi di satiro che incantano i cani. Gli girano attorno come una festa.
Tra i capelli una burrasca e in gola le voci di venti lontani. Non ha casa né patria, ma non si allontana oramai oltre il rumore della risacca. Ovunque ha bisogno, come aria, del canto del mare.

A mani nude ne coglieva i frutti, a pelo d’acqua e giù, più a fondo, dove gambe di ragazzo lo spingevano a cercare il punto di congiunzione tra la vita e la morte. Lì, tra i polpi e le roccia, privo di aria e di fiato, sentiva l’eco di sé bambino e manteneva il contatto con gli avi e con i semi futuri.

Sugli alberi la notte cercava riparo, aveva un cuore solitario che parlava una lingua straniera, diversa dalla sua. Si comprendevano a gesti, un linguaggio muto di segni segreti filtrato dalle foglie e dalle rughe profonde delle cortecce. Le fronde lo riparavano dalla luce bianca e blu riflessa dal mare, perché lui sempre volgeva lo sguardo dove gli occhi di altri non potevano posarsi a lungo. Sul far della sera cantava coi merli e con le braccia forti si dondolava fra i rami, sempre in equilibrio tra cadute rovinose e salti da acrobata.

Una notte volle misurarsi nella corsa, fare diversamente, saltare la caccia dei ricci tra l’acqua e il sale, l’apnea che gli era familiare, le fronde del riparo e il canto notturno degli uccelli. Corse a perdifiato, fu bravo. Era veloce anche a terra e i piedi si abituarono presto al suolo e alle pietre d’inciampo. Corse troppo veloce però,  e si ritrovò lontano dal mare e dagli alberi, perse il richiamo della risacca e si spense in lui la luce del satiro. Mancarono di forza le braccia e i polmoni si abituarono all’aria. I cani lo seguivano in fila, muti. Riuscì tuttavia ad amare la terra, i sassi, la luce fioca, ma il cuore smise di parlare la sua lingua straniera e non c’erano più merli a salutare la notte.

Fu un vento venuto da lontano a riportarlo a casa, in un giorno di fitto silenzio. Soffiava dal mare verso il centro della terra, soffiava, soffiava e gli riportò alle orecchie la risacca, il sale e il guizzo di pesci nelle acque profonde.
All’improvviso cominciò a correre, di nuovo, senza pensare, come sospinto da un incantesimo atteso, come un’urgenza di vita a trapassargli di ardore e dolore le membra. Correva a perdifiato, anche questa volta, ma nella direzione opposta. Pativa la stanchezza, la paura del richiamo, il pensiero di non trovare nulla di quanto avesse lasciato. Invece, il mare, era lì. Accecante di bianco e di blu. Lo fissò a lungo e dall’agitarsi festoso dei cani capì di aver riaperto lo sguardo alla luce del satiro. Si arrampicò a fatica su un albero e senti il cuore intonare un inno di gioia in lingua straniera.

Da allora il mare lo richiama ogni notte. Ma lui, ogni notte, aspetta. Il ragazzo che stringeva tra le mani i polpi vivi e ne succhiava la vita con la bocca di labbra carnose, si era perduto. Non poteva tornare in acqua prima di ritrovarlo. Ad ogni tramonto, sul far della sera, con suono cristallino i merli ne invocano unanimi il ritorno e tutte le creature del mare attendono di rivederli insieme, per ricongiungere gli avi ai semi futuri.