LiberAzione

Immagine

25aprile

A Giovanni

Maledetti noi
mostri a due teste,
con una bocca annunciamo la pace
e con l’altra succhiamo avidi il sangue dei poveri.

Maledetti  noi
demoni a due facce
su di una, lacrime di vetro
e sull’altra il ghigno feroce dei forti.
Vuoto è il torace, deserto
custode del nulla.

Beati  gli esseri umani
di parole lievi e mani operose,
beate le labbra dei muti,
con gli occhi consolano
e offrono il corpo alla fame dei deboli.

Beati i ribelli
di gambe veloci,
beato è chi esagera!
Beati coloro che vanno dove non devono
e voltano le spalle al buon senso.
Beati coloro che infrangono gli argini.

Beata la terra bagnata dal sangue dei giusti
come gambe di donna nel giorno del parto.
Beato l’urlo della madre,
il dolore che spoglia i violenti,
esposti allo sguardo del mondo
lavate la vostra vergogna con scuse di fango.

Finita è l’attesa,
dal salvatore è giunta la morte.
A mani nude scaviamo la polvere,
cerchiamo con occhi ciechi di pianto
la vita che sgorga dal buio.

 

 

Sulle rive di confine

(foto di  Hiroshi Sugimoto)

(foto di Hiroshi Sugimoto)

Vita mia,
non piangere, te ne prego. Non è tutto perduto. Tutto deve ancora cominciare. La notte crede di aver vinto, le tenebre assistono mute alla nostra discesa, lenta, nel ventre del mare, ma non è finita.

Io ho i tuoi occhi impressi ovunque nella mia carne e se pure i pescecani mi faranno a brandelli, tu resterai tutta intera con i tuoi occhi in ogni frammento di me. Lo so che t’avevo promesso un futuro migliore, giorni di pane e notti d’abbracci, al sicuro, Lo so. Ce l’ho messa tutta, te lo giuro amore mio. Sapevo di dover stare attento lungo la traversata, di dovermi guardare da tutti, perchè paura, fame e disperazione strappano dagli uomini il cuore, trasformando in nemici i fratelli. Ma il mare…dal mare non ci si può difendere: durante il giorno è luce accecante, che confonde la mente e brucia gli occhi e la notte è come un mostro nero con la bava alla bocca e le sue onde sono artigli da cui non si può fuggire.

Non stare in pena per me, qui sotto siamo in tanti, non patirò solitudine e disperazione, no. Della disperazione e della solitudine ho svuotato i serbatoi del mondo nei minuti che hanno preceduto la mia morte: le urla e il buio e la consapevolezza di essere arrivato troppo presto al capolinea del mio viaggio, senza di te. L’acqua fredda e il sale e l’angoscia del corpo che non sapeva cosa fare, le mani ad afferrare il mare; stringevo forte i pugni, amore, ma il mare scappava via ed io scivolavo, sempre più a fondo, in un silenzio senza appigli. Ero così stanco…ma pensavo a te, alle tue mani e al sorriso, alla prima volta che abbiam fatto l’amore, in fretta, prima che la guerra raggiungesse il nostro letto e rapisse la nostra giovinezza. Il pensiero di te mi ha reso lieve la morte, perchè la morte solo dell’amore ha paura.

Adesso cammino con le mani in tasca dentro al blu di questo cimitero fra Africa e resto del mondo e se alzo lo sguardo vedo uomini bianchi dalla faccia dura. Poveri uomini sazi, che mangiano tre volte al giorno, che non conoscono i rumori della guerra, che litigano seduti sulle poltrone degli studi televisivi. Il loro cuore è marcio ed emana cattivo odore, sono morti e puzzano più di 700 cadaveri corrosi dal sale. Poveri uomini bianchi, l’ignoranza ha rubato loro il mare e ogni volta che lo guarderanno uno dei nostri corpi salirà a galla per turbare la festa e le nostre facce senza naso e bocca, le nostre mani scure usciranno fuori dal ventre dei pesci a macchiar di sangue le loro tavole imbandite. Tu, invece, vita mia dolcissima, un giorno porterai i nostri bambini sulle rive di confine e dirai loro che in quel mare, fra le correnti e i fondali di corallo il loro papà li ha amati fino alla fine. Così il mare sarà per gli uomini e le donne dell’altra velenosa sponda segno di orrore e vergogna e per noi, invece, memoria di lotta e libertà.

Si credono forti e potenti, le loro donne hanno labbra morbide e capelli di seta, giocano con la vita e temono la morte come il peggiore dei mali. Come giocolieri fanno ruotare in aria le parole e confondono verità e menzogna, dignità e vergogna e non sanno nulla di noi. Non sanno che sulle tue labbra ruvide di sole e di deserto io ho trovato la forza di sfidare la morte, non sanno che nei grumi di polvere tra i tuoi capelli io mi sono ubriacato di vita e di speranza. Si consolano gli uni gli altri dicendo con occhi bassi e voce severa: “Cosa potevamo fare noi?”. Sono convinti che il loro buon Dio li assolverà, che non gli accadrà nulla. Ma non sanno che il loro Dio cammina qui con noi sui fondali del Mediterraneo e che il giudizio sarà senza misericordia per tutti coloro che non hanno avuto di noi misericordia.

Vita mia, luce dei miei occhi, che illuminerai per sempre il buio di questi abissi, la nostra, la mia morte non è la fine di tutto, io veglierò, insieme ai miei compagni di sventura assisterò al crollo del mondo antico, alla rovinosa frana della loro arroganza. Hanno seminato ignoranza, indifferenza e morte e il frutto che ne verrà sarà veleno ad ogni morso, cadranno così, a poco a poco. Quel giorno amore mio, te ne prego, apri il tuo cuore, salvali, abbi pietà.

Giorno per giorno

(Opera di Elisa Nicolaci)

(Opera di Elisa Nicolaci)

 

“E t’amo, t’amo ed è continuo schianto”.

(G. Ungaretti)

Collera e Luce

© Francisca Yáñez, Ana (Starry Night)

© Francisca Yáñez, Ana (Starry Night)

Io non dormo, ma è colpa mia. Sotto la luce fioca delle mie notti leggo un libro di fuoco che toglie il sonno. S’intitola “Collera e luce” e lo ha scritto Paolo Dall’Oglio.

È un libro che brucia le dita ad ogni giro di pagina e, forse, il fatto che l’autore sia stato inghiottito dalla guerra siriana rende ancora più difficile sostenere la lettura. Impressiona  l’assenza di retorica. Nulla. Neppure una briciola. Né retorica, né prudenza. Paolo non compie il minimo sforzo per rendere le sue parole accettabili e condivisibili, esse sono piuttosto come i coltelli dei lanciatori al circo, ma la bravura di Paolo non sta nello scansare il bersaglio bensì nell’infilzarne il cuore. Scrive con la forza di chi ha condiviso il cammino sofferto e tortuoso della rivoluzione siriana, chiama Bashar al Assad “assassino” e accusa senza remore la comunità internazionale di aver abbandonato il suo popolo; descrive le minoranze della società siriana, le attese della gente comune, i sogni dei giovani, racconta nei particolari più crudi lo scorrere dei giorni stretto nella morsa di una dittatura crudele ma furba a tal punto da prendersi gioco di tutti, degli stessi siriani, del mondo intero.

Di se stesso descrive il travaglio tragico, il mutare del cuore davanti alla morte sempre imminente, quella lenta e radicale metamorfosi del pensiero e dei sentimenti di fronte all’oppressione, alla violenza, alla paura. Come giganti dai piedi d’argilla le prese di posizione “per principio” vanno in frantumi, le teorie, i dogmi si sbriciolano, perfino il buon senso, spesso, non è sufficiente a cogliere e scegliere il bene ed il bene cambia faccia, a seconda delle circostanze e i valori assoluti abbandonano i tratti rigidi e netti per assumere la forma del corpo dei giovani, delle donne, dei bambini massacrati dal regime, il colore del sangue offerto dai siriani per la libertà. Non fa sconti Paolo, alla complessità della vicenda: la Siria è divenuta il fronte di molte, troppe guerre; davanti a tale complessità l’occidente ha abdicato, trasformando quel territorio in una porzione d’inferno e sacrificando un intero popolo sull’altare degli interessi economici e politici dei singoli stati.

Ieri sera, prima di (non) dormire, ho letto il capitolo che Paolo dedica alla descrizione delle torture. Le parole scorrevano sotto i miei occhi e il mio cuore non provava nulla. Così, insensibile, ho spento la luce e chiuso i miei occhi, aprendomi al buio. Questa mattina, al risveglio, ho capito cosa aveva pietrificato il mio cuore: l’attesa. Si, mi sono resa conto che nella sofferenza sia fisica sia morale, spirituale o psicologica, s’impone la presa di coscienza del bisogno e l’attesa che qualcuno/qualcosa venga a sollevarci dal dolore, che qualcuno si addentri nel perimetro della nostra vita, mettendosi con noi alla ricerca di una soluzione. Quando è il corpo a patire sappiamo cosa fare, chiamiamo un medico, corriamo al pronto soccorso, quando invece la sofferenza è ormai cronica o d’altra natura, allora è più difficile capire a chi rivolgerci e spesso rimaniamo muti e smarriti, ancorati alla speranza che qualcuno ci raggiunga lì dove ci siamo perduti. Ecco, è sul palcoscenico dell’assenza che il dramma della Siria si sta svolgendo. Ieri, leggendo del giovane violentato e crocifisso nelle prigioni di Assad o di quell’uomo ucciso dai militari perché il suo volto torturato e sfigurato era divenuto insopportabile alla vista dei suoi stessi aguzzini, immedesimandomi nella donna arrestata mentre portava il pane ai partigiani del suo popolo, stuprata, torturata e uccisa, ho capito cosa significhi per la Siria la mia, la nostra assenza. Fossi stata io quel giovane, quell’uomo, quella donna, fossi io un bambino affamato nel campo profughi assediato dall’Isis, fossi io anziana e sola, senza casa, servizi igienici, conforto, fossi io, pregherei in ogni istante di veder arrivare qualcuno, cercherei fra le macerie l’orizzonte, lo fisserei, aspettando, aspettando. E non vedendo arrivare nessuno? Forse lascerei al rancore il permesso di divorarmi il cuore, mi nutrirei di rabbia e rassegnazione, forse smetterei di seppellire i morti, forse impugnerei le armi per farmi giustizia. O forse no, magari reagirei alla tragedia cercando di costruire ovunque piccoli istanti di pace, sorriderei senza alcuna logica ai miei bambini affamati, nutrendoli di fiducia e coraggio davanti alla morte imminente. Sotto le macerie della mia casa e della mia vita potrei ancora parlare di libertà? Sognare per la mia terra un futuro di pace?

Guardo con preoccupazione alla polemica sempre imperante nel nostro paese, al tentativo di cercare in ogni cosa il marcio per sabotare gli slanci generosi di bene, la memoria delle lotte, ogni speranza nel domani. L’incoerenza della vita e della storia ci paralizza, le contraddizioni risucchiano la forza, non riusciamo a tenere insieme ciò che vorremmo essere con quello che realmente siamo, vorremmo estirpare da noi quello che ci ferisce e ci stanca, guardiamo con sospetto ogni lato oscuro che ci abita senza  lasciarci  attraversare dal dubbio che lì, nella penombra del non conosciuto, possa celarsi una risorsa invece di una ferita. Quale politica salverà la Siria io non lo so, se Paolo farà mai ritorno a casa, io non lo so, cosa si possa fare per quel popolo abbandonato ai demoni e agli spettri che noi stessi abbiamo creato, io non lo so. Quello che posso fare, però, è dilatare i confini della mia attesa, far spazio alla speranza dei siriani nella mia quotidiana speranza e chiedermi, senza posa, finché avrò luce agli occhi e fiato e collera per il cuore: Da dove arriverà l’aiuto?

(Paolo Dall’Oglio, Collera e Luce. Un prete nella rivoluzione siriana, EMI, Bologna 2013)