LiberAzione

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25aprile

Collera e Luce

© Francisca Yáñez, Ana (Starry Night)

© Francisca Yáñez, Ana (Starry Night)

Io non dormo, ma è colpa mia. Sotto la luce fioca delle mie notti leggo un libro di fuoco che toglie il sonno. S’intitola “Collera e luce” e lo ha scritto Paolo Dall’Oglio.

È un libro che brucia le dita ad ogni giro di pagina e, forse, il fatto che l’autore sia stato inghiottito dalla guerra siriana rende ancora più difficile sostenere la lettura. Impressiona  l’assenza di retorica. Nulla. Neppure una briciola. Né retorica, né prudenza. Paolo non compie il minimo sforzo per rendere le sue parole accettabili e condivisibili, esse sono piuttosto come i coltelli dei lanciatori al circo, ma la bravura di Paolo non sta nello scansare il bersaglio bensì nell’infilzarne il cuore. Scrive con la forza di chi ha condiviso il cammino sofferto e tortuoso della rivoluzione siriana, chiama Bashar al Assad “assassino” e accusa senza remore la comunità internazionale di aver abbandonato il suo popolo; descrive le minoranze della società siriana, le attese della gente comune, i sogni dei giovani, racconta nei particolari più crudi lo scorrere dei giorni stretto nella morsa di una dittatura crudele ma furba a tal punto da prendersi gioco di tutti, degli stessi siriani, del mondo intero.

Di se stesso descrive il travaglio tragico, il mutare del cuore davanti alla morte sempre imminente, quella lenta e radicale metamorfosi del pensiero e dei sentimenti di fronte all’oppressione, alla violenza, alla paura. Come giganti dai piedi d’argilla le prese di posizione “per principio” vanno in frantumi, le teorie, i dogmi si sbriciolano, perfino il buon senso, spesso, non è sufficiente a cogliere e scegliere il bene ed il bene cambia faccia, a seconda delle circostanze e i valori assoluti abbandonano i tratti rigidi e netti per assumere la forma del corpo dei giovani, delle donne, dei bambini massacrati dal regime, il colore del sangue offerto dai siriani per la libertà. Non fa sconti Paolo, alla complessità della vicenda: la Siria è divenuta il fronte di molte, troppe guerre; davanti a tale complessità l’occidente ha abdicato, trasformando quel territorio in una porzione d’inferno e sacrificando un intero popolo sull’altare degli interessi economici e politici dei singoli stati.

Ieri sera, prima di (non) dormire, ho letto il capitolo che Paolo dedica alla descrizione delle torture. Le parole scorrevano sotto i miei occhi e il mio cuore non provava nulla. Così, insensibile, ho spento la luce e chiuso i miei occhi, aprendomi al buio. Questa mattina, al risveglio, ho capito cosa aveva pietrificato il mio cuore: l’attesa. Si, mi sono resa conto che nella sofferenza sia fisica sia morale, spirituale o psicologica, s’impone la presa di coscienza del bisogno e l’attesa che qualcuno/qualcosa venga a sollevarci dal dolore, che qualcuno si addentri nel perimetro della nostra vita, mettendosi con noi alla ricerca di una soluzione. Quando è il corpo a patire sappiamo cosa fare, chiamiamo un medico, corriamo al pronto soccorso, quando invece la sofferenza è ormai cronica o d’altra natura, allora è più difficile capire a chi rivolgerci e spesso rimaniamo muti e smarriti, ancorati alla speranza che qualcuno ci raggiunga lì dove ci siamo perduti. Ecco, è sul palcoscenico dell’assenza che il dramma della Siria si sta svolgendo. Ieri, leggendo del giovane violentato e crocifisso nelle prigioni di Assad o di quell’uomo ucciso dai militari perché il suo volto torturato e sfigurato era divenuto insopportabile alla vista dei suoi stessi aguzzini, immedesimandomi nella donna arrestata mentre portava il pane ai partigiani del suo popolo, stuprata, torturata e uccisa, ho capito cosa significhi per la Siria la mia, la nostra assenza. Fossi stata io quel giovane, quell’uomo, quella donna, fossi io un bambino affamato nel campo profughi assediato dall’Isis, fossi io anziana e sola, senza casa, servizi igienici, conforto, fossi io, pregherei in ogni istante di veder arrivare qualcuno, cercherei fra le macerie l’orizzonte, lo fisserei, aspettando, aspettando. E non vedendo arrivare nessuno? Forse lascerei al rancore il permesso di divorarmi il cuore, mi nutrirei di rabbia e rassegnazione, forse smetterei di seppellire i morti, forse impugnerei le armi per farmi giustizia. O forse no, magari reagirei alla tragedia cercando di costruire ovunque piccoli istanti di pace, sorriderei senza alcuna logica ai miei bambini affamati, nutrendoli di fiducia e coraggio davanti alla morte imminente. Sotto le macerie della mia casa e della mia vita potrei ancora parlare di libertà? Sognare per la mia terra un futuro di pace?

Guardo con preoccupazione alla polemica sempre imperante nel nostro paese, al tentativo di cercare in ogni cosa il marcio per sabotare gli slanci generosi di bene, la memoria delle lotte, ogni speranza nel domani. L’incoerenza della vita e della storia ci paralizza, le contraddizioni risucchiano la forza, non riusciamo a tenere insieme ciò che vorremmo essere con quello che realmente siamo, vorremmo estirpare da noi quello che ci ferisce e ci stanca, guardiamo con sospetto ogni lato oscuro che ci abita senza  lasciarci  attraversare dal dubbio che lì, nella penombra del non conosciuto, possa celarsi una risorsa invece di una ferita. Quale politica salverà la Siria io non lo so, se Paolo farà mai ritorno a casa, io non lo so, cosa si possa fare per quel popolo abbandonato ai demoni e agli spettri che noi stessi abbiamo creato, io non lo so. Quello che posso fare, però, è dilatare i confini della mia attesa, far spazio alla speranza dei siriani nella mia quotidiana speranza e chiedermi, senza posa, finché avrò luce agli occhi e fiato e collera per il cuore: Da dove arriverà l’aiuto?

(Paolo Dall’Oglio, Collera e Luce. Un prete nella rivoluzione siriana, EMI, Bologna 2013)

Non c’è pace senza pietà

Aleppo, 20 settembre 2012. Foto di Manu Brabo Al povero stendi la tua mano, perché sia perfetta la tua benedizione. La tua generosità si estenda a ogni vivente e al morto non negare la tua grazia. Non evitare coloro che piangono e con gli afflitti mostrati afflitto. Non indugiare a visitare un malato, perché per questo sarai amato. In tutte le tue opere ricordati della tua fine e non cadrai mai nel peccato (Siracide 7,32-36).

In seguito Gesù si recò in una città chiamata Nain e facevano la strada con lui i discepoli e grande folla. Quando fu vicino alla porta della città, ecco che veniva portato al sepolcro un morto, figlio unico di madre vedova; e molta gente della città era con lei. Vedendola, il Signore ne ebbe compassione e le disse: «Non piangere!». E accostatosi toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Giovinetto, dico a te, alzati!». Il morto si levò a sedere e incominciò a parlare. Ed egli lo diede alla madre. Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi e Dio ha visitato il suo popolo». La fama di questi fatti si diffuse in tutta la Giudea e per tutta la regione (Lc 7,11-17).

Al povero stendi la tua mano (Sir 7,32). Il verbo ἐκτείνω, scelto dall’autore di Siracide, è il verbo utilizzato per indicare il movimento della mano stesa, tesa a raggiungere chi sta di fronte. Il Siracide invita a non evitare il contatto, a non restare “dietro” coloro che piangono, ma a porsi di fronte per portare insieme il peso dell’afflizione. La prima preoccupazione non è quella di trovare una soluzione, ma quella di condividere una condizione, di accorciare il perimetro della solitudine attorno a chi soffre. Avere pietà vuol dire sconfiggere la pigrizia, il testo di Siracide usa proprio ὀκνέω, il verbo dell’indugio causato da preoccupazione o prudenza, dalla pigrizia e dal timore per se stessi, il rallentare del passo frenato dalla paura. A questo verbo si contrappone ἐπισκοπέω “fare visita”, usato nella Scrittura per indicare Dio che visita il suo popolo. É il farsi presente del Signore. Gli evangelisti lo pongono in bocca alla gente che segue Gesù e che vede e riconosce nel suo dire/agire la vicinanza di Dio: «Un grande profeta è sorto tra noi e Dio ha visitato il suo popolo» (cfr. Lc 7,16). Gesù stesso al cap. 25 del vangelo secondo Matteo lo utilizza per coloro che visitano i carcerati e sfamano gli affamati senza neppure immaginare di stare facendo qualcosa per Dio: «Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (cfr. Mt 25, 37-40). La pietà, infatti, nasconde la presenza del Signore, la custodisce senza pretendere che venga svelata, essa si fonda in prima istanza sul riconoscimento dell’uomo nell’uomo, nel poter scorgere in chi sta di fronte “un altro come se stesso” (cfr. Calogero Peri, L’uomo è un altro come se stesso, Salvatore Sciascia, Caltanissetta-Roma 2002).

Nel testo del vangelo Gesù non solo si ferma davanti al dolore, ma si fa raggiungere da esso. La donna, segnata da doppio lutto, piange nel figlio la perdita della concretezza dell’amore. I suoi due termini relazionali, il marito e il figlio le sono stati sottratti dalla morte e lei piange il vuoto irrimediabile dell’assenza. Tra il vuoto e la donna, però, ecco che si frappone la potenza insita nell’incontro, una potenza rigeneratrice che non sta soltanto nel fatto di ritrovarsi insieme nello stesso luogo quanto nel mettere in atto l’esserci per l’altro. Gesù καὶ ἰδὼν αὐτὴν “vedendo lei” – dice il testo – ὁ κύριος ἐσπλαγχνίσθη ἐπ’ αὐτῇ (cfr. Lc 7,13). La vista dell’altro provoca in Gesù qualcosa, un movimento delle viscere. Il pianto della donna arriva al, meglio, nel corpo di Gesù. Non è una commozione del cuore o una presa di coscienza razionale della difficoltà dell’altro. Questi elementi devono pure esserci, ma ciò che spinge all’azione è il corpo nel quale l’altro si fa presenza. E il corpo non dimentica. Rielabora, risignifica, ma non dimentica. Il movimento delle viscere, sottolinea l’evangelista, è “su di lei”, quasi ad indicare plasticamente un piegarsi di Gesù sul dolore della donna: “non piangere”, le dice.

Il brano continua raccontando di Gesù che “tocca” la bara del figlio. Nei vangeli Gesù stende la mano per toccare e guarire, per afferrare, per raggiungere, per creare contatto. Gesù, durante gli anni della sua predicazione, tocca continuamente e chiunque, soprattutto gli intoccabili secondo la società ebraica del tempo (lebbrosi, prostitute, peccatori), lo fa con la mano tesa, sopratutto, ma anche con la bocca, perfino con la saliva (cfr. Mc 7, 31-37) oltre che con lo sguardo. Tocca e si fa toccare. In questo brano Gesù tocca la bara del figlio della donna e gli parla, e il ragazzo si solleva e comincia a parlare a sua volta. È importante questo particolare: la parola è la forma principale della comunicazione e, dunque, della relazione. Gesù restituisce alla madre il figlio vivo e parlante. Dona lui a lei, viene ristabilita la potenzialità dell’avere qualcuno “di fronte”.

La pietà, allora, si configura come movimento delle viscere che ci fa capaci di vedere l’altro e, soprattutto, di vederci nell’altro, di scoprire in chi ci sta di fronte qualcosa che ci appartiene, come realtà in atto o come intuizione e possibilità. Ma può accadere che la pietà non nasca spontaneamente, anche in questo senso si può scorgere la sua esigenza di reciprocità. Non è soltanto la capacità di “accorgersi”, la pietà sta anche nel bisogno che diventa invocazione, grido, nel desiderio quasi disperato d’esser visti, nella solitudine divenuta oramai insopportabile che si trasforma in consapevole richiesta d’aiuto: “Guardami Signore, volgi i tuoi occhi verso di me, accorgiti che esisto, renditi conto della situazione in cui mi trovo e agisci! Fa qualcosa per me”, sembrano dire i salmi: Pietà di me, Signore: vengo meno;risanami, Signore: tremano le mie ossa (Sal 6,3); Abbi pietà di me, Signore, vedi la mia miseria, opera dei miei nemici, tu che mi strappi dalle soglie della morte (Sal 9,14); Volgiti a me e abbi misericordia, perché sono solo ed infelice (Sal 24,16); Ascolta, Signore, la mia voce. Io grido: abbi pietà di me! Rispondimi. (Sal 26,7). Chiedere pietà è domanda di una presenza attiva, quasi un richiamare l’altro alla propria identità di custode (cfr. Gn 4,9), è una dilatazione dell’essere che diventa senza dis-perdersi: “esserci per”. È la verbalizzazione di una speranza, l’esigenza gridata di un bisogno.

Ciò che sconvolge nei conflitti di cui siamo oggi spettatori più che testimoni è proprio l’assenza di pietà, la negazione del riconoscimento reciproco, sostituito dalla ferocia, dalla perversione delle fedi, dalla putrefazione delle ideologie. Forse uno dei mille motivi per cui questo avviene risiede nel fatto che per poter riconoscere se stessi negli altri bisogna prima avere occhi capaci di posarsi con pietà su se stessi. Avere pietà di se stessi è la capacità di guardare con speranza alle personali zone d’ombra, è toccare la propria piaga, è rendersi conto, è decidersi per la cura, sempre. Anche davanti allo sgomento provocato dalla consapevolezza di aver mancato il bersaglio della nostra vita. Può succedere, e bisogna imparare a fare i conti con tutte le gradazioni del fallimento e del dolore, così come del successo e della gioia.

Mi pare importante, infine, fare una distinzione tra il termine “conflitto” e il termine “guerra”. Il conflitto è l’urtare di una cosa con un’altra, l’inevitabile scontro fra ciò che fuori e dentro di noi si trova in contrapposizione e ha come fine intrinseco ed esito finale lo stabilirsi di nuovi equilibri; la guerra, invece, possiede come fine intrinseco la vittoria, la supremazia da raggiungere attraverso l’eliminazione dell’altro, a qualsiasi prezzo. La guerra è l’opposto della pietà. La pace, allora, può essere forse costruita attraverso l’esercizio della pietà come grido che avviene in noi stessi e che ci rende abili a percepire e intendere il grido dell’altro. La pietà è rimedio alla paura provata nei confronti di ciò che siamo, di ciò che abbiamo fatto o anche nei confronti di ciò che c’hanno fatto e che muta il nostro sguardo trasformando l’altro in nemico, in colui che ha potere d’aggiungere dolore a dolore. In una delle pagine più belle scritte da Paolo Dall’Oglio (http://www.popoli.info/EasyNe2/Idee/Abbattere_i_muri.aspx), egli utilizza parole schiette e dure, ma molto vere e drammaticamente attuali: «È ora d’inoltrarsi in spazi di empatia inesplorati. Opposti fondamentalismi ci costringono ad abbattere il muro d’odio: etnico, nazionale, dogmatico, misogino, omofobico, schifato delle povertà indecenti, odio di se stessi in nome della natura, della norma, dell’ordine sacro e maschio». La pietà, invece, ristabilisce l’equilibrio, ricuce lo strappo relazionale e restituisce ciascuno di noi, vivo e parlante, nelle mani del fratello.

Attraverso Kobane

Non so quanto io abbia il diritto di esultare per la liberazione di Kobane, dato che apprendo la notizia comodamente seduta sul divano di casa mia, eppure non voglio autoprivarmi della gioia che questa notizia porta con sé.

Kobane è diventata un simbolo di lotta per la libertà, forse perché a lottare contro il califfato delle tenebre è stata una minoranza etnica, forse perché le donne hanno avuto in questa battaglia un ruolo fondamentale, forse perché il web ci ha permesso di vivere la riconquista metro dopo metro.

La Siria è il fronte di tante guerre, un territorio sacrificato sull’altare di troppi idoli. L’unico paese, fra quelli coinvolti nelle primavere arabe, ad avere più di centomila morti e quasi tre milioni di profughi. Ma tante vittime non hanno ancora saziato la fame delle ragioni politico-economiche che tengono vergognosamente in piedi il regime di Bashar al-Assad. Il fallimento della politica estera internazionale ha generato il mostro Isis, contro il quale impieghiamo oggi tante forze e risorse. Piangiamo, giustamente, gli uccisi in terra d’occidente e sentiamo sul collo il fiato della minaccia jihadista.

Gli incubi dei nostri adolescenti sono popolati da bandiere nere lanciate alla conquista delle nostre sicurezze e le parole di conforto che rivolgiamo loro non rassicurano nessuno, neppure noi stessi: “Prof., non può capire quanto sto male per queste notizie di morte e di guerra! Sono delusa, ma non so bene da cosa. E’ che non mi sento protetta, non sono sicura di poter contare sullo Stato e sono, sopratutto, confusa. Sta succedendo qualcosa che è più grande di noi, qualcosa di grave, eppure mi pare che nessuno faccia nulla di veramente efficace per difendere la gente”.

Nei ragazzi sensazione e istinto sono ancora strumenti funzionanti, suonano, non stonano. Sono alleati preziosi nel faticoso tentativo d’interpretare la realtà. Con le loro feste per i diciotto anni tutte da organizzare, pieni di entusiasmo, paure e speranze, compiono il difficile passaggio che li condurrà fuori dalle mura. Adesso si rendono conto, si avvicina il tempo in cui ciò che si crede vero e giusto bisogna farlo, per averlo, non basta desiderarlo. Mi auguro che, un giorno, si ricorderanno delle ore passate a scuola studiando l’intricata vicenda siriana, le religioni e la storia dolorosa di una piccola città al confine con la Turchia, data per spacciata ma tornata alla libertà: “L’arco dei forti s’è spezzato, ma i deboli sono rivestiti di vigore”, canta così, nella Bibbia, una donna umiliata dai potenti e difesa da Dio (1Sam 1,49). Quel giorno, forse, potrò sentire di appartenere anch’io al vento che muove a festa le bandiere a colori sulle colline di Kobane.

Io, lo faccio con te

Caro Abuna Paolo,
a un anno e quattro mesi dal tuo rapimento torno a fare la cosa più inutile che posso: scriverti. Lo faccio perchè è il tuo compleanno, mentre il mondo intero con la preghiera o con un pensiero, con la stima e con l’affetto ti abbraccia, silenzioso e presente.

Alla mia prima lettera, scritta il giorno dopo la tua scomparsa per le strade di Raqqa, avevo affidato parole di sconcerto, parole di rabbia.
La rabbia, quella forza che mantiene in vita in mezzo a qualunque inferno, fino a quando si intravede, seppur lontana, una possibile via di uscita. Quando l’orizzonte si è ormai oscurato, quando le macerie superano in distruzione ciò che resta in piedi, allora alla rabbia deve far posto il coraggio, deve subentrare la pietà.
La Siria è morta.
Ci avevi avvertiti, lo hai fatto in ogni modo, hai urlato, pregato, parlato ovunque, cercando di richiamare l’attenzione di tutti, poi hai deciso di andar da solo per provare a resituire ai Siriani la loro pace e a te stesso quella promessa di Dio che è tutta la tua vita.

Ci vorranno decenni per ricostruire il paese, e anche quando le case saranno di nuovo in piedi, il popolo erediterà a lungo, di parto in parto, le ferite del nostro abbandono e della violenza subita.
Ti penso ogni giorno, e ho paura. Mi spaventa di più saperti vivo e consapevole della tragedia, con il cuore colmo di un dolore senza guarigione, che pensarti morto a questa terra ma vivente, faccia a faccia con il tuo Dio.

Ho desiderato di vederti tornare, di poterti avvistare all’orizzonte, ombra gigante da abbracciare, pensavo: quando tornerà sarà bellissimo! Ora, io voglio imparare a desiderare ciò che tu desideri. E tu, Paolo, cosa desideri?

Tagliano le teste. Rapiscono le donne. Cancellano l’infanzia. Sono bestie feroci. E a tanta violenza noi rispondiamo con le bombe dal cielo, privi di ogni pudore trasformiamo il luogo della speranza in pioggia di fuoco.
Possediamo parole che sono barattoli di latta, rumore e ruggine .
Per sembrare affidabili e ancora potenti abbiamo taciuto, armato gli eserciti e fatto scorta di munizioni.
Ricordi? Dicevi che il conflitto fa parte della realtà, che sottrarsi ad esso, fuggire, non affrontarlo, non assumerlo nella nostra esitenza rende ideologi, xenofobi e violenti.

Il desiderio di libertà del tuo popolo è stato troppo per noi. Cosa potevamo fare, così occupati come siamo a contare, spicciolo dopo spicciolo, i nostri euro e i nostri dollari agonizzanti! Rischiare forse? Perdere quello che avevamo per condividere il pane della democrazia e della pace? Potevamo mettere da parte la nostra ben delineata appartenenza religiosa, per mischiare i nostri abiti buoni della domenica ai vostri piedi nudi? Potevamo forse impegnarci a capire cos’è l’Islam, che pulsa e lotta per sopravvivere alle spalle di un estremismo dal volto coperto?

Paolo, a scuola parlo di te. Parlo di te e della Siria davanti a giovani vite dagli occhi vergini,  capaci di visione, come dici tu. E dico loro che, al di là della devastione, esistono ancora le persone, esistono i siriani, e che da essi si deve poter ricominciare. Lo faccio per non perdermi, per rimanere ancorata alla speranza di un mondo diverso. Lo faccio per non perderti, perchè il bene di chi ci ama ci strappa ogni giorno alla fame della morte.
Buon compleanno Abuna Paolo. Ovunque tu sia e qualunque sofferenza tu stia patendo, resta con gli occhi negli occhi del tuo Signore. E se è la vita che vuoi, invocala! Sii forte. Fagli sentire in faccia il fiato e la saliva delle tue grida, giorno e notte. Io, lo faccio con te. E se è la morte che vuoi, se sei stanco, Paolo, chiedila, fuori dalle barricate della dottrina, dove hai sempre vissuto, con la confidenza dei vecchi amici, con la dolcezza degli amanti, come solo può fare chi ha intrecciato la sua sorte all’esistenza di Dio. Io, lo faccio con te.

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