Nelle mani di tutti (riflessione sull’intervista a papa Francesco)

Arno Rafael, 1989

Arno Rafael, 1989

Ho appena finito di leggere la versione integrale dell’intervista che ieri Papa Francesco ha rilasciato al gesuita Antonio Spadaro. Ho cercato di leggere con attenzione, visto che, secondo i quotidiani di ieri e di oggi, questa intervista rappresenta la svolta progressista della Chiesa Cattolica.

Se qualcuno fosse stato spettatore della mia lettura, si sarebbe davvero confuso. Il mio volto, infatti, ha cambiato espressione centinaia di volte: ho sorriso, ho crucciato le sopracciglia, ho spalancato gli occhi, mi sono messa le mani nei capelli, ho sentito salire dalla pancia agli occhi una massiccia dose di tenerezza.

Le parole di papa Francesco sono soprattutto….le parole di papa Francesco. Voglio dire che, mi pare, prima d’ogni cosa, si evinca qualcosa di lui, della sua storia, della sua vita, delle cose che ama, di ciò che pensa e desidera. E, forse (ma questo non l’ho ancora capito), l’intenzione dell’intervista era proprio questa: far conoscere meglio papa Bergoglio (è così che inizia il dialogo: Chi è Jorge Mario Bergoglio?”). Parole, sentite, affidate, da gesuita a gesuita, certamente consapevoli, entrambi, che ad ascoltare sarebbero stati davvero in tanti. Tanti ad ascoltare. Ma ancora più numerosi coloro che, per mestiere, per dovere o per piacere, avrebbero non solo interpretato, ma inevitabilmente manipolato, le sue parole.

Il papa parla di molte cose, dunque. Dalle sue opere letterarie e musicali preferite si passa a questioni strettamente legate alla vita della Chiesa: il rapporto fra la Chiesa e l’uomo, l’annuncio del vangelo, la misericordia di Dio, le questioni scottanti come la famiglia, i divorziati, l’aborto, l’ecumenismo. Tante cose, troppe, forse, per considerare queste parole un “insegnamento” preciso su ciascuna di esse.

Nessua novità, infatti. Almeno dal punto di vista dottrinale l’intervista resta dentro ai binari percorsi da tempo. Quello che, pare mutare, è il modo di comunicare tale contenuto dottrinale. Potrei definire questa modalità: “occhi negli occhi”. Proprio così. Bergoglio confida al suo interlocutore la difficoltà che prova davanti alle masse, il disagio che gli provoca una comunicazione/relazione che non può essere diretta: “Io riesco a guardare le singole persone, una alla volta, a entrare in contatto in maniera personale con chi ho davanti. Non sono abituato alle masse“. E questo suo tentativo lo si percepisce chiaramente: le risposte personali alle lettere ricevute, le telefonate, il famoso “buongiorno/buon appetito”. Un linguaggio, una modalità di relazione che arriva a tutti, proprio perchè utilizzata da tutti, ogni giorno, all’interno del nostro rapportarci con il mondo che ci è prossimo.

Leggo con attenzione i passaggi dell’intervista che cercano di delineare l’identità del pontefice. Il percorso fatto, le figure che per lui sono state importanti, le letture, la formazione, i diversi compiti svolti all’interno della Compagnia di Gesù, gli errori fatti e le cose imparate dagli errori commessi. La sua storia. Le tappe che lo hanno portato lì dove è adesso. E mi piace la definizione del discernimento come il “sentire le cose di Dio dal suo punto di vista“: “Questo discernimento richiede tempo. Molti, ad esempio, pensano che i cambiamenti e le riforme possano avvenire in breve tempo. Io credo che ci sia sempre bisogno di tempo per porre le basi di un cambiamento vero, efficace. E questo è il tempo del discernimento […]. Il discernimento si realizza sempre alla presenza del Signore, guardando i segni, ascoltando le cose che accadono, il sentire della gente, specialmente i poveri. Le mie scelte, anche quelle legate alla normalità della vita, come l’usare una macchina modesta, sono legate a un discernimento spirituale che risponde a una esigenza che nasce dalle cose, dalla gente, dalla lettura dei segni dei tempi. […] La sapienza del discernimento riscatta la necessaria ambiguità della vita e fa trovare i mezzi più opportuni, che non sempre si identificano con ciò che sembra grande o forte “. Ho voluto riportare questo passaggio perchè, a mio parere, contiene una chiave di interpretazione importante.

Il tempo e il discernimento. Ecco di cosa, molti di noi, i mezzi di comunicazione, l’opinione pubblica sta privando papa Francesco: del tempo e del discernimento. Guardo con diffidenza il fenomeno mediatico che lo sta travolgendo. Non fa bene a lui, non fa bene alla Chiesa, non fa bene a chi cerca la verità. Mi chiedo quanti, tra i fedeli si siano seduti a leggere la lunga intervista del pontefice, non basando il loro consenso sugli spezzoni riportati dai giornali o, peggio, dai telegiornali. Mi chiedo quanti tra coloro che gridano alla svolta conoscano i documenti ufficiali sulle questioni affrontate nell’intervista. Il papa parla della Chiesa come popolo e cita la Lumen gentium. Ma quanti dei giornalisti che utilizzano le parole del papa sanno cosa sia e cosa contenga la Lumen gentium?

Non voglio dire che solo i teologi o i religiosi, o i preti hanno il diritto di esprimere la propria opinione sulle parole del pontefice. Dico soltanto che bisognerebbe avercela davvero un’opinione. Perchè? Perchè l’accoglienza delle donne che hanno abortito, dei divorziati, degli omosessuali, la faticosa fiducia nella “persona”, chiunque essa sia e qualunque cosa abbia fatto, la vicinanza, la pietà, la misericordia nel nome di Gesù esistono nella Chiesa da prima che arrivasse papa Bergoglio, da 2000 anni, circa, più o meno da quando un certo rabbi di Nazareth ha evitato la lapidazione di un’adultera e non ha sottratto i suoi piedi alle lacrime di una prostituta. E tutto questo esiste non solo tra i “religiosi”, ma anche, anzi sopratutto, tra la gente comune. Tra i credenti di “periferia”, per utilizzare proprio un’espressione cara al papa.

Quanti cristiani si sono trovati a dover discernere tra la dottrina ufficiale, recinto a volte troppo stretto per la Parola di Dio e per la vita, e la propria coscienza! Quanti hanno pagato e stanno pagando con la solitudine, la sofferenza, l’amarezza dell’incomprensione, la fatica e la coerenza dei propri studi teologici e delle convinzioni che ne scaturiscono? Quanti credenti, preti, religiosi e laici hanno curato le ferite e, sopratutto, testimoniato e insegnato, ascoltato, lottato, passato notti insonni perchè le ferite potessero anche non accadare, venissero evitate quando possibile?

Forse la Chiesa, quella che non finisce sui giornali, quella che non sempre riesce a scalfire il sentito dire, le cose che “si sono fatte sempre così”, l’assenza di senso critico, forse quella Chiesa ascolta e accoglie le parole del pontefice ma si basa e si costruisce e si nutre soprattutto di altre Parole. Oggi abbiamo la grazia di avere come papa il cardinale Bergoglio. E se domani venisse eletto un papa conservatore, reazionario, poco sensibile ad alcuni temi importanti, come in passato è accaduto, allora cosa succederebbe? Si tornerebbe tutti indietro in massa?

Chissà se papa Bergoglio sarebbe contento di sapere che molti fedeli la domenica, sono costretti ad ascoltare omelie fatte di parole sulle sue parole. Io credo che ne sarebbe mortificato. E anche io mi sento mortificata. E se invece concentrassimo ed indirizzassimo le nostre energie per restituire ai fedeli la Parola del loro Signore? Per dare ai credenti gli strumenti necessari alla comprensione della Scrittura? Ridimensionando le mediazioni? È pericoloso mettere in mano a tutti la Bibbia? Forse. Ma la Rivelazione, la volontà del Padre di farsi conoscere, di farsi vicino all’uomo attraverso Gesù non è una consegna che il Signore fa di se stesso nelle mani di tutti?

Mi auguro che papa Francesco possa continuare a guidare la Chiesa. Mi auguro che continui a farsi “prossimo”, a cercare in mezzo alla folla occhi da incontrare. Ma mi auguro anche che metta mano alla penna e che scriva, che si metta davvero in ascolto del popolo, di quel popolo che ama Gesù pur senza averlo visto (cfr. 1Pt 1,7-8) e che per questo cerca di capirlo, di conoscerlo di seguirlo. Mi auguro che scriva dopo aver ascoltato e pregato e fatto quel discernimento che lo caratterizza producendo non solo “opinione”, ma anche un Magistero capace di cambiare a lungo termine le cose, un Magistero che curi le ferite, anche quelle che esso stesso nel corso della storia ha inflitto. Mi auguro possa piano piano dar vita ad una prassi che nasca dalla comprensione della Scrittura e (finalmente) del Concilio Vaticano II. Un amico, persona a me davvero cara, teologo moralista, oggi mi ha detto che siamo tutti così impegnati a capire come riuscire a fare i maestri che abbiamo dimenticato d’essere, tutti, discepoli. “Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi“. (Gv 8,31-32)

Ruoli e relazioni. La mia “risposta” a papa Francesco

 

via @ilpost

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Lo scorso 8 maggio, in occasione dellAssemblea plenaria dell’unione internazionale delle superiore generali, papa Francesco ha tenuto un breve discorso, subito amplificato dai mezzi di comunicazione per la frase rivolta alle religiose: siate madri non zitellehttp://attualita.vatican.va/sala-stampa/bollettino/2013/05/08/news/30952.html

A dire la verità, nonostante il plauso dei mass media e delle stesse religiose presenti, credo ci sia poco da stare allegri. Da donna, battezzata e studiosa di Sacra Scrittura, infatti, l’affermazione di papa Francesco e tutto il suo breve discorso mi hanno suscitato diverse riflessione e non poche perplessità. Ecco le sue parole

E poi la castità come carisma prezioso, che allarga la libertà del dono a Dio e agli altri, con la tenerezza, la misericordia, la vicinanza di Cristo. La castità per il Regno dei Cieli mostra come l’affettività ha il suo posto nella libertà matura e diventa un segno del mondo futuro, per far risplendere sempre il primato di Dio. Ma, per favore, una castità feconda, una castità che genera figli spirituali nella Chiesa. La consacrata è madre, deve essere madre e non zitella! Scusatemi se parlo così, ma è importante questa maternità della vita consacrata, questa fecondità! Questa gioia della fecondità spirituale animi la vostra esistenza; siate madri, come figura di Maria Madre e della Chiesa Madre. Non si può capire Maria senza la sua maternità, non si può capire la Chiesa senza la sua maternità e voi siete icona di Maria e della Chiesa”.

Viene naturale chiedersi il perchè di tale risonanza mediatica. Forse perchè è inusuale che un pontefice si esprima con un linguaggio tanto comune e comprensibile? Comune e comprensibile, appunto. Tutti hanno recepito il messaggio, perchè? Perchè il papa usa due dei clichè più comuni per identificare una donna. Per giorni i giornali hanno riportato la notizia. Non è forse un segno allarmante del riconoscimento unanime e immediato, non riflesso cioè, della donna e dei ruoli sociali che le sono stati attribuiti, o meglio, imposti e dai quali ancora stenta a liberarsi? È palese che se il discorso fosse stato rivolto a dei religiosi uomini il linguaggio sarebbe stato differente, fosse solo perchè la lingua italiana corrente non possiede il maschile di “zitella” (Alcuni vocabolari riportano “zitello” e ne specificano l’uso desueto. Altri, invece, non lo riportano affatto e indicano l’uso di “scapolo”, ma privo del senso dispregiativo).

Certo, il Pontefice è assolutamente in linea con secoli di Tradizione, come negarlo? Ma scorrendo le pagine della Bibbia (prima Fonte alla quale la vita della Chiesa deve attingere, dopo aver imparato ad averne sete) mi pare di non trovare ovvio questo legame tra maternità e femminilità, tra “castità feconda” e primato di Dio e costruzione del Regno. A cominciare dalla maternità “naturale”. Le madri nominate nei vangeli non hanno proprio un rapporto roseo con Gesù: la madre di Giacomo e Giovanni viene rimproverata per la pretesa che i figli siedano alla destra e alla sinistra di Gesù (Cfr. Mt 20,20-23). E Gesù sulla via che lo porta al Golgota non ha parole tenere per le madri che piangono su di lui: “Lo seguiva una gran folla di popolo e di donne che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui. Ma Gesù, voltandosi verso le donne disse: figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete sui vostri figli. Ecco, verranno giorni nei quali si dirà: Beate le sterili e i grembi che non hanno generato e le mammelle che non hanno allatato (Lc 23,27-29). A proposito di mammelle e di latte materno, Gesù non risparmia neppure sua madre: “In quel tempo, mentre Gesù parlava, una donna dalla folla alzò la voce e gli disse: Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato! Ma egli disse: Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!.

 

La maternità, dunque, non è via privilegiata di vita con Dio, neppure per la vergine Maria. Ciò “senza cui non è possibile capire Maria di Nazareth” non è in primis la sua maternità ma l’ascolto della Parola di Dio: “Mentre egli parlava ancora alla folla, sua madre e i suoi fratelli, stando fuori in disparte, cercavano di parlargli. Qualcuno gli disse: Ecco di fuori tua madre e i tuoi fratelli che vogliono parlarti. Ed egli, rispondendo a chi lo informava, disse: Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? Poi stendendo la mano verso i suoi discepoli disse: Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre“. Ciò che dona a Maria la possibilità di generare il Figlio di Dio è il suo assenso alla Parola: “mi accada secondo la tua parola (Cfr. Lc 1,38) risponde all’arcangelo Gabriele che le porta l’annuncio. Nè la “maternità di sangue” né quella cosiddetta “spirituale” possono essere considerate vie privilegiate di sequela. La maternità è seconda alla relazione con la Parola.

 

Relazione. Parola chiave per comprendere molte cose nella Bibbia, fra queste anche la presenza delle donne nella vita del Rabbì di Nazareth. Ma chi sono le donne che seguono Gesù? Fiumi di inchiostro e studi magistrali esistono sull’argomento. La mia riflessione si ferma semplicemente ai dati forniti dalla Scrittura. Maria di Magdala, Marta e Maria, Giovanna, Susanna, Maria di Clèofa. Di alcune conosciamo il nome, di poche il nome e la storia, altre compaiono per il breve tempo dell’incontro con Gesù. Le donne raccontate nei vangeli non sono certo esempi di “castità”: la donna che bagna di lacrime i piedi di Gesù e li asciuga con i suoi capelli è una prostituta (Cfr. Lc 7,36-50), da Maria di Magdala il Messia Figlio di Davide scaccia via ben “sette demòni” (Cfr. Lc 8,2), e poi c’è un’ adultera colta in flagranza di reato (Cfr. Gv 8,1ss), una donna resa impura, secondo la cultura del tempo, dalle sue continue emorragie, che crede di poter guarire toccando anche solo un lembo del mantello di Gesù (cfr.9,20-22); c’è la samaritana con la sua vita disastrata, che ella stessa riesce a comprendere soltanto alla luce del dialogo con lui (cfr. Gv 4,1ss).

 

Donne, con le loro storie. Sono storie aperte, che mutano, che cambiano nel corso del loro incontro/legame con Gesù. Il vangelo ci narra di percorsi, di situazioni che si trasformano grazie alla relazione con lui, ad un riconoscimento che è reciproco e che coinvolge il corpo, il cuore, la vita. Le donne lo cercano, lo toccano, lo guardano, gli parlano, lo sfiorano, gli tengono spesso testa, non si lasciano sedurre così facilmente da lui, lo interrogano, lo afferrano, lo sfidano, provocano in lui un cambiamento come accade durante le nozze a Cana di Galilea. Maria esprime a Gesù la sua preoccupazione: “Non hanno più vino”, Gesù risponde: “Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora”, la madre non si lascia scoraggiare e ordina ai servi: “Fate quello che vi dirà”. L’acqua viene cambiata in vino ed è anticipato per Gesù l’inizio dei “segni” (Cfr. Gv 2,1-12). Anche la donna siro-fenicia che con fermezza chiede la guarigione della figlia permette a Gesù di compiere un passo avanti nella consapevolezza della sua missione: “Partito di là, Gesù si diresse verso le parti di Tiro e Sidone. Ed ecco una donna Cananèa, che veniva da quelle regioni, si mise a gridare: Pietà di me, Signore, figlio di Davide. Mia figlia è crudelmente tormentata da un demonio. Ma egli non le rivolse neppure una parola. Allora i discepoli gli si accostarono implorando: Esaudiscila, vedi come ci grida dietro. Ma egli rispose: Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa di Israele. Ma quella venne e si prostrò dinanzi a lui dicendo: Signore, aiutami! Ed egli rispose: Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini. È vero, Signore, disse la donna, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni. Allora Gesù le replicò: Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri. E da quell’istante sua figlia fu guarita” (Mt 15,22-28).

 

 

Il papa nel suo discorso alle religiose afferma: “È Cristo che vi ha chiamate a seguirlo nella vita consacrata e questo significa compiere continuamente un ‘esodo’ da voi stesse per centrare la vostra esistenza su Cristo e sul suo Vangelo, sulla volontà di Dio, spogliandovi dei vostri progetti ”. Quello che Gesù fa con le persone che incontra è praticamente il contrario, almeno in un primo momento. Ogni incontro si gioca sulla scoperta della reciproca identità: “Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia? ” (cfr. Gv 4,29); “Ed ecco una donna, che soffriva d’emorragia da dodici anni, gli si accostò alle spalle e toccò il lembo del suo mantello. Pensava infatti: Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita. Gesù, voltatosi, la vide e disse: Coraggio, figliola, la tua fede ti ha guarita». E in quell’istante la donna guarì” (Cfr. Mt 9,20-22); “Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi; ma non sapeva che era Gesù. Le disse Gesù: Donna, perché piangi? Chi cerchi?. Essa, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo. Gesù le disse: Maria!. Essa allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: Rabbunì!, che significa: Maestro!” (cfr. Gv 20,14-16). Gesù svela a noi stessi la nostra identità, ed è grazie a tale rivelazione, dentro al processo di questo svelamento, lento, sofferto, personalissimo che noi lo riconosciamo come Signore della nostra vita. Riconoscimento reciproco, nella relazione.

 

Il decentramento da sé, la rinuncia al progetto personale, “lobbedienza allo Spirito autenticata dalla Chiesa attraverso mediazione umana”, come afferma il papa nel medesimo discorso, forse sono dottrine che devono essere ripensate. Per costruire certo, non per distruggere.

 

Per spogliarsi di sé non è necessario capire prima chi si è? E forse la vita dei credenti non è stata in qualche modo privata, nei secoli, di questo passaggio fondamentale dando origine a storpiature e perversioni del vangelo? Non si è fatto abuso dell’insegnamento sul “rinnegamento di sé”?, della “mediazione umana soggetta all’obbedienza” (il termine “obbedienza” è presente soltanto due volte nei vangeli. Gesù la chiede agli elementi naturali e ai demòni. Agli uomini richiede “ascolto” della Parola) a scapito di una coscienza di sé consapevole che, invece, è sempre più smarrita? E che per reazione si irrigidisce su posizioni estreme?

Donne = Madri; Non madri = zitelle. Certo, è un pregiudizio che, ahimè, non appartiene soltanto alla cultura cattolica. Forse sarebbe stato più bello, più forte e vero se il papa avesse detto: “Siate donne, non zitelle”. Sarebbe stato più bello se invece di parlare alle religiose come esponenti di una categoria avesse parlato loro come rappresentanti di una realtà, quella femminile, così ricca e bisognosa di essere riconosciuta nella sua identità, una identità non fatta di ruoli, ma di vita vissuta, di storie, di relazioni, di incontri. Non esiste un modo di essere suore, un modo di essere madri, un modo di essere mogli, un modo di essere donne. Esistono le persone con le loro storie, e se dei tratti comuni ci sono, questi vanno conosciuti per comprendersi, per comprendere, non per leggere la realtà a senso unico. Nel vangelo secondo Matteo, al capitolo 25, si parla delle dieci vergini. Fra queste cinque si comportano da sagge e cinque da stolte. Al di là del linguaggio metaforico, uno stesso status mostra la possibilità di comportamenti diversi,ciò che fa la differenza è la relazione delle singole con lo “Sposo”.

La mia riflessione non vuole essere una critica al Papa né un attentato alla vita religiosa così come la Chiesa da secoli la vive e la custodisce. La mia è semplicemente una riflessione, basata su quanto mi pare di capire dallo studio delle Scritture, e sul desiderio di partecipare in modo consapevole e responsabile alla vita della comunità dei credenti in Gesù. La riflessione teologica sulla vita religiosa è viva, va avanti, si nutre di pensieri nuovi e diversi che piano piano la rinnovano. Ma quello che mi sembrava essere in gioco nell’affermazione del papa supera i confini della vita consacrata. La necessità di ripensare la dimensione femminile nella cultura, nella società, nella vita ecclesiale è tragicamente urgente. E se non lo faremo noi, lo farà la storia, anche senza di noi. Grazie a Dio. Si, lo Spirito soffia dove vuole (Cfr. Gv 3,8).