Nelle più piccole cose

Se ricordo i miei diciassette anni, penso che mi sono accadute una quantità incredibile di cose, ma, forse, quando si hanno diciassette anni, è normale che accada una incredibile quantità di cose.

Giugno, Austria, 1997.
Dovevo frequentare il quarto anno del Liceo classico e in sorte mi toccò di partire per la seconda ed ultima tappa del “gemellaggio” che la mia classe aveva intrapreso con una scuola di Linz. Durante la primavera i ragazzi austriaci erano stati a Palermo per quindici giorni; l’estate era il nostro turno. Li avevamo ospitati in casa e loro avrebbero fatto altrettanto. La mia “gemella” si chiamava Sandra e abitava in un comprensorio di villette immerse nel verde. Di quel viaggio ricordo ancora molte cose, per esempio che a giugno sulla vespa, in Austria, non puoi salirci a maniche corte perché ti cadono i denti dal freddo, che esistono laghi tanto grandi da sembrare mare, che mi annoiava, tranne qualche eccezione, stare con ragazzi della mia età, che molti dei miei compagni non avevano idea di chi fossi, che se vieni ricoverata in ospedale, a pranzo mangi la cotoletta con marmellata di mirtilli per contorno. Mi accadde una incredibile quantità di cose, per l’appunto.

Ma più di tutto mi accadde di visitare insieme ad uno dei professori in viaggio con noi e ad un gruppetto esiguo di ragazzi, il campo di concentramento di Mauthausen.

Campo di concentramento di Mauthausen, Austria

Campo di concentramento di Mauthausen, Austria

Avevo una paura matta di andare e ancora oggi non lo so cosa mi spinse ad unirmi al gruppo. Forse fu solo perché chi andava tra i compagni mi faceva più simpatia di chi restava o forse perché la paura a me fa un effetto strano e invece di mettermi al riparo, mi espongo, nella speranza che la questione, qualunque essa sia, si risolva al più presto, per non pensarci più.

Del viaggio di andata non ricordo quasi nulla. Ricordo, però, che quando arrivammo ero tesa e vigile, pronta a chiudermi a riccio per non vedere o non sentire qualunque cosa fosse stata “troppo”, per me. Invece ho ascoltato e visto ogni cosa. Abbiamo preso una guida cioè una cassetta con un registratore. Ci hanno detto che dovevamo far partire il nastro prima di cominciare la visita e così abbiamo fatto. La voce di un uomo, roca e profonda, iniziò dicendo: “Cari visitatori, adesso accadrà qualcosa che non potrete controllare, il vostro cervello metterà un filtro di protezione, perché quanto vi racconterò non vi porti alla pazzia”.

Abbiamo proseguito in silenzio: le zone di lavoro, i dormitori con i letti a castello in legno, le camere a gas, i forni crematoi. Era tutto avvolto di un silenzio surreale, sembrava che nessuno di noi osasse respirare. Era una giornata di sole che rendeva difficile immaginare la neve e il freddo e i corpi all’agghiaccio. Ma davanti ai forni crematoi non c’era niente da immaginare. Non riuscivo a provare sdegno o sgomento o commozione o rabbia, niente. Nessun respiro, nessun pensiero, nessuna emozione: niente.
In uno dei capannoni avevano allestito una mostra fotografica che fu durissima da visitare. Ricordo che seppur muti noi ragazzi ci cercavamo con gli occhi, da pannello a pannello, da un lato all’altro della stanza, come se avessimo sviluppato il bisogno di sapere dove ciascuno di noi fosse, in ogni momento.

La visita durò un paio d’ore. Passammo molto tempo all’aperto, all’interno del campo, ma solo una volta varcato il cancello verso l’esterno sentimmo di essere “fuori”. Il ritorno alla parola fu lento e pure il respiro si regolarizzò con fatica. Camminando, seguendo gli altri, senza sapere verso dove, pensai che studiare la storia dai libri era davvero poca cosa, pensai che fra le pagine non ci sono gli odori e neppure il rumore dei passi e non ci sono le voci dei testimoni e neppure il tatto della mano, poggiata a palmo aperto su quei muri di pietra umida.

Cosa fu per me la visita a Mauthausen, lo compresi veramente, però, solo alcuni mesi dopo, in un cinema del centro, a Palermo. Con un gruppetto di compagni andammo a vedere “La vita è bella” di Roberto Benigni. Fu un incubo per me.

Scena del film "La vita è bella"

Scena del film “La vita è bella”

Perché di ogni fotogramma che mostrava il campo di concentramento io ricordavo gli odori e tutte quelle emozioni che erano rimaste raggelate e mute allora, vennero fuori all’improvviso: provai uno sgomento tale da farmi correre in bagno a vomitare, sudai freddo. Dovetti soffocare il desiderio di urlare fino a cadere stremata per liberarmi di tutto l’orrore che durante quella visita avevo immagazzinato e che in quel momento mi esplodeva nel cervello senza riguardo.

Mi salvarono le ciliegie. Ricordai che andando via da Mauthausen ci perdemmo per le campagne alla ricerca di una stazione nascosta chissà dove, in mezzo a distese di campi in fiore. Lungo una discesa un grande albero di ciliegi aveva un ramo che come una carezza pendeva sulla strada, sfiorando i passanti. Avevamo fame. Ne raccogliemmo molte, tutte quelle che potevamo con la paura che i padroni di casa se ne accorgessero. Le magliette ripiegate sulla pancia a mo’ di cesta e poi una corsa senza meta, sgambettando come a diciassette anni si riesce a fare. Scoppiammo tutti in una risata sonora, una di quelle che poi resta in circolo e si riaccende alla minima occasione. Eravamo sudati, giovani e vivi.

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Pensai a questo mentre piangevo al cinema, a quel sole pomeridiano, alla luce, alle risa, alla corsa, alle ciliege strette sulla pancia, alle macchie sulla maglietta e sulle dita. Da allora penso sempre alle ciliegie quando provo un dolore che mi pare di non saper gestire. E quando si fa primavera e le vedo per strada sui banchi del mercato o sulle tavole, tante tutte insieme, di quel rosso così vivido, divento allegra e sorrido e mi faccio coraggio pensando a come la vita esploda e si riveli anche nelle più piccole cose, lì dove la morte vuole vincere su tutto.