…non aggirarti muto nella nostra confusione,
non vagare a vuoto nell’ombra del nostro dolore,
non lasciare la tua impronta, dove non porti soluzione.
Disperdi i neri corpi celesti, contrabbandieri sacri del tuo nome!
Tra le pietre semina ovunque disobbedienza e consolazione.
Baci e baci e fiati di corpi mortali salvino la nostra carne da tutti i mali
e da qualunque perfezione liberaci, in eterno.
Amen.
Archivio mensile:giugno 2017
Dal vivo: la scuola, la vita, la realtà.

(AFP PHOTO)
“Dal vivo” è un’espressione che ha molteplici significati:
1. che assume come modello diretto la realtà: ritratto dal vivo; ritrarre, dipingere dal vivo;
2. di programma radiofonico o televisivo, trasmesso in diretta; trasmettere dal vivo;
3. di concerto, brano o incisione discografica, eseguito e registrato al di fuori della sala di registrazione, direttamente a contatto con il pubblico: disco, esecuzione dal vivo
4. di brano vocale o strumentale, eseguito senza l’ausilio del playback; cantare dal vivo.
Ma il vocabolario non dice nulla sulle emozioni o sulle esperienze, è il limite di tutte le definizioni lasciar fuori qualcosa.
Pensare, desiderare di dare un bacio non è come dare un bacio “dal vivo” e cercare su google foto dell’oceano non è come vederlo, odorarlo, ascoltarlo “dal vivo”.
Per questo motivo all’inizio dell’anno scolastico che adesso volge al termine, abbiamo pensato ad un progetto che permettesse ai ragazzi di sperimentare “dal vivo” ciò che troppo spesso arriva loro come una cascata di parole morte, confuse, stereotipate, violente, vuote. Lo abbiamo chiamato “IntegrAzione” e realizzarlo è stato bellissimo.
Due seconde classi, due indirizzi diversi: tecnico chimico e liceo scientifico (sez. B e T dell’I.S. Majorana, Palermo), una trentina di ragazzi quindicenni che, per loro stessa testimonianza, hanno vissuto un’esperienza in grado di mutare il modo di guardare e considerare il fenomeno dei flussi migratori.
Li abbiamo scritti sulla lavagna, bianco su nero, gli stereotipi legati ai migranti:
– Sono terroristi
– Ci stanno invadendo
– Portano malattie
– Rubano il lavoro agli italiani
– Puzzano
– Non pagano l’affitto
– Non sono poveri perché hanno il cellulare
– Delinquono.
E li abbiamo visti crollare uno ad uno questi stereotipi, man mano che ascoltavamo la testimonianza di chi lavora nella prima accoglienza, di chi conosce i paesi di provenienza dei migranti, man mano che studiavamo i decreti del parlamento europeo a riguardo, valutavamo gli interessi economici dietro agli accordi dei nostri governi con la Libia e con la Turchia, guardavamo documentari, imparavamo insieme ad osservare la realtà così com’è e non come ci viene restituita da Facebook, da Striscia la Notizia e o dalle Iene Show. Abbiamo mostrato come si fa a riconoscere una “bufala” da una “notizia” e indicato fonti di informazione credibili. E così, settimana dopo settimana, bianco su nero, gli stereotipi e i luoghi comuni hanno fatto posto alle domande sorte nell’animo dei ragazzi grazie alle nuove conoscenze e consapevolezze acquisite:
– Perché se Russia e Cina appoggiano la dittatura di Bashar al Assad in Siria la comunità internazionale lascia morire mezzo milione di civili?
– Perché in Germania i migranti aumentano il Pil del paese e noi li teniamo chiusi nelle prigioni dei “centri di identificazione ed espulsione”?
– Perché l’Europa non si mette mai d’accordo con una politica comune sulle migrazioni?
– Perché tutti dicono che i neri non li vogliono, ma poi ci sono le macchine ferme davanti alle prostitute di colore?
Sono ottimi osservatori i ragazzi, vero? Osservatori spietati a volte. Ci inchiodano alle nostre contraddizioni, ma è una buona cosa, è l’obiettivo a cui tendiamo.
Quando la dott.ssa Marta Bellingreri è venuta a scuola per incontrare i ragazzi ed ha parlato loro dei suoi viaggi nei paesi arabi e della sua personale esperienza, fatta di incontri con persone in cammino verso l’Europa, facendo vedere foto e narrando storie, i ragazzi hanno ascoltato per un’intera ora senza fiatare. Era un’esperienza diretta, “dal vivo” e non hanno fatto fatica a prestare attenzione.
Lo stesso è accaduto con i due giovani medici che operano a bordo delle navi di soccorso nel canale di Sicilia, il dott. Davide Di Spezio e il dott. Salvo Zichichi. I loro racconti e le fotografie che hanno portato per documentare il lavoro svolto sono stati un pugno allo stomaco. Qualcuno tra i ragazzi strizzava gli occhi, qualcun altro si metteva la mano davanti alla bocca. Quanto è terribile la realtà e quanto ci vien facile renderla invisibile! I due medici hanno risposto con pazienza a tutte le domande ed hanno raccontato di non aver mai avuto a che fare con persone affette da malattie in grado di scatenare chissà quale epidemie nel nostro paese. Piuttosto devono far fronte ad ipoglicemie e disidratazioni, a difficoltà di deambulazione per i giorni in cui i migranti stanno fermi, rannicchiati in un angolo su un barcone in balia del mare, devono far fronte ad ustioni da carburante e ai primi certificati di morte per i corpi senza nome che non sono riusciti a rianimare o ad afferrare per i capelli mentre li vedevano andare giù. Era anche questa una testimonianza “dal vivo”, molto più forte di qualunque video o documentario o lezione ben preparata sul fenomeno migratorio.
Infine, hanno parlato due ragazzi provenienti dal Senegal e dal Gambia, due ragazzi che la nostra scuola la frequentano e che hanno avuto un coraggio da giganti a raccontarsi di fronte ai compagni. La loro testimonianza non la riporto in questo articolo, perché io non ho un coraggio da gigante e le cose terribili che hanno raccontato proprio non le so ripetere. Sono parole che vanno ascoltate “dal vivo”, appunto, con l’emozione di apprendere dalla loro voce cosa han dovuto affrontare e di vederli incredibilmente vivi davanti ai propri occhi. Penso, invece, che sia più importante raccontare della compostezza e della dignità con cui hanno condiviso la loro storia, della evidente fatica del sopportare lo stereotipo del “povero negro”, perché loro non erano poveri e non erano infelici nel loro paese, prima che la dittatura divenisse soffocante e pericolosa, prima che le bande mafiose minacciassero la morte ogni santo giorno. Uno di loro sogna di fare il medico, l’altro di diventare un atleta. Alla fine del loro racconto hanno ringraziato pubblicamente me, la mia collega, che tanto ha concretamente fatto per loro, i medici presenti, i compagni e gli italiani, poiché gli stanno offrendo “la possibilità di essere piano piano di nuovo felici”.
A me il loro grazie è sembrato ingiusto e immeritato, perché accogliendoli noi non stiamo facendo un favore a nessuno, ma semplicemente mettiamo in atto un diritto, riconosciuto dalla Carta internazionale dei diritti dell’uomo e sancito dalla nostra Costituzione all’art.10: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”.
La speranza è che i ragazzi che hanno partecipato al progetto sentendo mutare in tempo reale lo sguardo sulla realtà, così come loro stessi hanno detto, scritto, raccontato a noi professoresse, alimentino questa metamorfosi e se ne ricordino quando saranno chiamati al voto e alla responsabilità delle loro scelte personali. Speriamo altresì che la scuola, in tutte le sue componenti, sappia riconoscere la presenza dei ragazzi stranieri, i presenti e quelli che verranno, come una risorsa preziosissima grazie proprio a queste loro storie, alle esperienze di vita e anche per le numerose lingue che conoscono, per le diverse tradizioni e culture di cui sono testimonianza viva. Lavoriamo perché la scuola sia profetica, che possa cioè mostrare modelli di una società migliore e che non sia, invece, specchio di una non-cultura della finzione, della mentalità del “non sono razzista però…”. Speriamo che la scuola sia officina operosa di cose nuove che rischiano il cambiamento e sempre promuovono la persona.
Perché la foto del morso sulla coscia di una donna salvata dalla morte nel nostro mare, il morso di chi nel tentativo di non affogare si attaccava coi denti alla vita, una foto vera, scattata e raccontata “dal vivo”, possa veramente restituirci il senso di quel che viviamo e di quel che facciamo.
P.s. E a proposito, tutti gli esperti intervenuti hanno dedicato il loro tempo e le loro competenze a titolo totalmente gratuito. Andava detto. A loro il nostro sentito e sincero ringraziamento.
Le migliori risorse del mondo
Esistono case speciali, lo si capisce non appena si varca la soglia. Case antiche piene di tracce, di passaggi lunghi intere generazioni.
Questa di cui vi racconto è una casa di campagna, le colline attorno sono severe, sembra quasi Palestina, il sole è forte, la brezza asciutta. I muri esterni son pieni di licheni e il confine è una linea ruvida di muretti a secco: un incastro di pietre che restano unite senza ausilio, solo la loro capacita di sostenersi a vicenda e una sapienza antica che le ha messe insieme una sull’altra, a mani nude, una ad una.
Le vernici sugli infissi semi scrostate disegnano sentieri sottili, piccole rughe da seguire con lo sguardo, lentamente, mentre i pensieri vagano liberi, finalmente affrancati dagli inevitabili gioghi della vita di città. Le maniglie aprono le porte se le si tira in su e sui muri l’intonaco, venuto giù chissà quando e come, disegna macchie grandi come bocche di drago. La stufa emana odore di cenere e legna e sulle pareti che appaiono nude passeggiano i millepiedi e restano immobili le farfalle notturne. Attorno alla casa tutto è brullo e vivo. L’erba è selvatica come il più indomito degli spiriti: alta, incolta, spinosa. Se la si guarda con attenzione la si vede muoversi lentamente, è selvaggia, ma ondeggia esile. La brucerà il sole piano piano, da verde diventerà gialla e morirà. Senza dolore né scandalo. Resterà sul terreno, secca, a spezzarsi sotto ogni passo fino alle piogge d’autunno, quando la terra, appena più morbida, la riprenderà con sé. Per ora sul terreno sono adagiate milioni di miliardi di foglie di quercia. Se le si mette in fila, mentre si sta seduti sui sassi, fuori dal tempo e lontani da ogni fretta, con le formiche che passeggiano lungo le caviglie, si scopre che non esiste una uguale all’altra. Milioni di miliardi di diversità.
Per me questa è la casa delle storie. Quando al mattino apro la porta e sento sotto i piedi nudi la pietra dura del pavimento, guardo fuori, e ascolto le voci di chi, qui, è stato bambino: le biciclette, le trappole per i merli, le corse, le esplorazioni, il superamento dei primi confini. Immagino le cene a fine giornata: tutti intorno alla mensa, la fame giovane, la stanchezza serena. Immagino i racconti degli adulti, le storie narrate bocca a bocca che abitavano nella notte i sogni dei ragazzini. Immagino lo spazio interiore di quei bambini dilatarsi alla vista di alberi, pietre e animali, come terreno sottratto per sempre al cinismo dell’età adulta, eterno rifugio ai colpi bassi della vita, luogo sicuro di umanità. Qui i bambini erano cacciatori e guerrieri, avventurieri e contadini, affidati alle prime responsabilità nella gestione di se stessi. Al tramonto sulle panchine di pietra ricoperte di aghi di pini, queste storie mi vengono narrate non come ricordo del passato, ma come origine del presente. Ascolto e vedo. Ovunque le prove vive delle cose accadute: gli amici ritrovati ogni anno, le cicatrici condivise, gli amori, le “cose” da ragazzi, gli errori, da stagione a stagione, come se l’estate fosse un tempo continuo senza buio e freddo di mezzo, come la tessitura di una stoffa preziosa, senza strappi. Il silenzio avvolge le storie, si odono gli uccelli soltanto e le mucche, un tintinnio di campanacci, in lontananza.
Le storie narrate pian piano diventano l’esperienza di chi le ascolta: si ricostruiscono i volti e s’imparano i nomi di chi non c’è più: vecchi pastori, contadini, uomini con le facce sorridenti e grandi lavoratori, donne silenziose dall’animo grande come la campagna, a perdita d’occhio. S’imparano le storie dei ritratti in bianco e nero sui muri, delle mani che hanno scolpito i mobili e che hanno piantato gli alberi.
Raccontare le storie, le proprie storie, quell’impasto di parole e di accadimenti che ci sostiene, è un’atto di grande coraggio, è come spezzare e mangiare, insieme, il pane che ci mantiene vivi. Il rischio è immenso, ma farlo vuol dire aver ancora fiducia in se stessi, negli altri, nelle migliori risorse del mondo: “Verrà un giorno, vedrai, che tu stesso di certi timori farai oggetto di risa; e ciò sarà quando uscito in qualche modo da tanta solitudine, avrai constatato che il mondo, quando non è malato, è buono e se non lo è, essendo soltanto malato ha bisogno, per guarire, di tutto il nostro intelligente amore”.
– Anna Maria Ortese, L’iguana.