Non l’ho fatto apposta

Foto di Alexandre Chamelat

Foto di Alexandre Chamelat

L’estate che sta  per nascondersi alle nostre spalle mi pare sia durata appena un momento. Un tempo piccolo ma profondissimo, tanto da contenere il mio epico ritorno a Palermo, il diffondersi raccapricciante dell’Isis, la follia omicida dei bombardamenti su Gaza, la morte di Robin Williams e perfino qualche briciola di vita quotidiana: giornate al mare, sere sul dondolo ad ascoltare i grilli, molti gelati e le risa degli amici.

Ma oggi, beh, oggi è il 1° settembre. Il giorno mitologico nel quale mia madre spariva da casa per venire divorata, fino al prossimo giugno, dal mostro dai mille volti: la scuola.
Da un po’ di tempo, questo mostro poliedrico divora anche me. Quest’anno a Palermo, però. E non è affatto un particolare di poca importanza. Ovviamente precaria, ovviamente incarico su due scuole. Più o meno il rituale del 1° settembre mi è familiare, ma ogni anno, devo dire, mi riserva sempre nuove sorprese. Quest’anno poi si tratta di scuole superiori e anche questo particolare non è di poca importanza.

Arrivo puntuale. Entro, mi dirigo al banco del collaboratore scolastico. Lo trovo circondato da cinque uomini dei quali non riesco a capire la funzione e lo riconosco per la sua posizione centrale, di comando, e perchè, ogni tanto, si sporge a controllare coloro che varcano la soglia: “Salve, io sono una nuova docente”. Lui, da seduto, mi guarda, dalla testa ai piedi, lentamente (siamo a Palermo appunto) e mi dice: “Mi fa veramente piacere, signorina”. Non posso rendere l’accento né la mimica facciale, ma vi assicuro: uno spettacolo! Mi indica il luogo nel quale si terrà il tanto famigerato Collegio dei docenti, ma non sto molto attenta alle sue indicazioni, so che mi basterà seguire il flusso migrante degli uomini (pochi) e delle donne (tante) e il rumore, allegro e scoppiettante, delle chiacchiere. Mi guardo attorno, davvero la scuola è lo specchio della società. E la società palermitana è, infatti, tutta degnamente rappresentata. Sono ancora in piedi che si baciano, si abbracciano e si guardano in cagnesco. A differenza di Roma, qui si è abbronzati tutti, belli e brutti, ricchi e poveri. A Palermo ci si abbronza con l’aria, lucida e calda anche nei luoghi più lontani dal mare. Si accosta un collega, giovane: “Sei una nuova collega?” (la domanda più gettonata della giornata), vorrei rispondere: “No, sono la commessa del supermercato, volevo vedere se è vero che gli insegnanti non fanno nulla tutto il giorno”. Invece sorrido e rispondo di si. “Insegni religione, dunque? – mi dice – Avrai di che riflettere”. Ma che vuol dire? Forse nota nel mio sguardo una punta di smarrimento e aggiunge: “No, è che ca su tutti vestiti alla moda, ma la testa ce l’hannu vacanti”. Ah. Acquisisco l’informazione. Il Collegio comincia, procede e finisce nel brusio totale e costante. Cerco di ascoltare le parole della preside e allo stesso tempo non rinuncio al mio vizio di rubare qua e là spezzoni di dialoghi, nutrimento prezioso per le mie storie.  Non posso voltarmi in continuazione e allora ascolto, tanto avrò un intero anno per abbinare le voci ai volti corrispondenti. Non resto delusa. Scopro che il collega dietro di me ha fatto un lungo viaggio in macchina, in Spagna, ma ci tiene a sottolineare che non accadrà mai più perchè gli è venuta la gastrite e pure le emorroidi, per la cronaca. C’è chi racconta dei figli, chi dei nipoti, chi si lamenta di guai che gli hanno rovinato l’estate, chi è traumatizzato dal pensiero che dovrà ricominciare a svegliarsi presto. C’è chi sparla i colleghi, chi si sottopone, sereno e rassegnato, al terzo grado della vicina di sedia.
A Collegio finito, faccio un giro delle aule: la scuola senza i ragazzi sembra un enorme mostro che dorme. Quando arriveranno sarà tutto più chiassoso e meno spaventoso, spero.

Guardo l’ora, scappo. Devo raggiungere l’altra scuola, almeno per conoscere gli impegni della settimana. Chi arriva a Collegio terminato con la scusa di essere stato nell’altra scuola ha poche speranze di risultare simpatico al primo impatto. Qui sarà tutto in salita. E infatti, su suggerimento della segretaria, raggiungo l’ufficio della vice-preside e la trovo al suo tavolo circondata da un gruppo di fedelissimi. Busso, entro, interrompo, mi presento. Questa volta li deludo per ben due volte: la prima perchè erano sicuri di indovinare la mia età: “Non hai più di 28 anni!”, e io invece affermo con convinzione di averne 34; la seconda perchè non si aspettavano che una giovane o presunta tale, alta quasi un 1,80 mt con tre piercing all’orecchio potesse insegnare religione. Mi guardano talmente seri dopo la mia risposta che a me viene da dire: “Si, sono una prof.ssa di Religione, ma…non l’ho fatto apposta”.

Alle 12.30 riprendo la via di casa. Spossata dal caldo, dalle valanga di parole ascoltate, da tutti quei volti che non conosco e  che nascondono storie di cui non so ancora nulla, alcune delle quali, in un modo o in un altro entreranno a far parte della mia. Li guardo i miei nuovi colleghi e mi chiedo a quali di loro, di sinistra, forse, dovrò dimostrare di non essere bigotta e ottusa, a quali cattolicissimi prenderà un colpo quando sapranno che non porto al polso il bracciale di p. Pio e che non so nulla sulle apparizioni della madonna, chi mi fermerà tra i corridoi chiedendomi con aria minacciosa e disperata cose come: “Ma se Dio c’è, perchè il male?”; chi sarà disposto ad ascoltarmi, con chi potrò collaborare, chi sarò capace di avvicinare davvero. Non ho potuto fare a meno di notare, negli uuffici, quei crocifissi messi all’angolo, adornati con fiori di plastica tra la croce e la parete o con secchi rami d’ulivo risalenti a chissà quale pasqua e mi chiedo se saprò dire una parola, una sola parola vera, sensata, umana su di lui. Poi mi informo con la segretaria dai capelli ossigenati riguardo alla firma del contratto:
– “Aaaancora! Presto è!”.
– “Ma…veramente a Roma ho firmato nelle prime settimane di settembre…”.
– “N’ca picchì signorina lei a Roma era?”.
– “Si”.
– “E a lei cu ciu fici fari di tornare a Palermo!”.
– “Ma…Non l’ho fatto apposta”.
Si ricomincia, insomma, a vivere in equilibrio disinvolto su superfici verticali.

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