Lasciami andare

(foto di ©Felicia Simion)

(foto di ©Felicia Simion)

Lasciami andare ove il fato mi vuole,
lasciami andare!
Sono assetata di gloria e di sole,
Lasciami andare!

Non mi sgomenta il periglio remoto,
La meta oscura.
Sfido le tenebre, sfido l’ignoto!
Non ho paura.

Ozio codardo,
ti sprezzo e detesto,
Lasciami andare!
Ferree catene, v’infrango e calpesto,
Voglio lottare.

Schiava, o fantocci, del vostro comando
Io non sarò.
Viver dormendo, morir sbadigliando
Non voglio, no!

Voglio combattere, voglio soffrire!
Vita, e se credi,
Ancor combattere voglio, e morire
Su ritta in piedi!

Lasciami andare ove il fato mi vuole,
Lasciami andare!
Sono assetata di gloria e di sole!
Lasciami andare!

( Annie Vivanti, da Lirica – 1890)

 

L’arte dell’incontro

 

(Relazione tenuta il 4 gennaio 2014. Convegno “Padre nostro che sei in terra”, organizzato dall’Associazione Ore Undici)

La prima cosa è la coscienza dello spazio, sapere che lontano, da un’altra parte, altrove, sta accadendo qualcosa. Anzi, fuori dalle mura di casa tutto sta accadendo in giro per il paese, però occorre sapere dove. E la seconda cosa è il tempo, in quel posto bisogna arrivare in tempo, perché quella cosa accada a noi e non soltanto immaginare che accada. Se lo spazio è anche ampio e distante è necessario differire il tempo dell’azione dal tempo del desiderio, perché partire quando desidereremmo essere già lì è una vana corsa verso una sala vuota. Possedere questa consapevolezza è una qualità che può contribuire a rendere la vita arte dell’incontro. Le anime si incontrano per caso, per curiosità, per determinazione. In tutti i casi l’incontro ha sempre del miracolo. Nella coincidenza la componente magica è più evidente, ma decidere, partire, muoversi a tempo fino a trovarsi nel luogo dove la cosa sta accadendo è miracoloso come la costruzione di tutte le cose immaginate.

Coscienza dello spazio, tempo, luogo, azione, desiderio, coincidenze, incontro. Tutti elementi presenti nei vangeli e tutti elementi che vengono fuori, che ci vengono “incontro”, appunto, nel tentativo di comprendere cosa sia la preghiera.

Vorrei partire dal brano del vangelo secondo Luca: Signore insegnaci a pregare (Lc 11,1). Il cap. 11 inizia con la descrizione dell’ambiente nel quale la scena sta per svolgersi: Gesù si trova in un luogo a pregare. A differenza delle altre volte in cui si parla di Gesù in preghiera, pare che, questa volta, Gesù non sia solo o in un luogo deserto, ma sotto lo sguardo dei discepoli: Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse: Signore insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli. Il verbo παύω non si trova negli altri vangeli e in Lc e At non è utilizzato molte volte.

Nel vangelo l’atto di cessare da qualche cosa è legato ad un avvento, ad una novità che sta per accadere: in 5,4 Gesù dopo aver “cessato” di ammaestrare la folla dalla barca ordina a Pietro di prendere il largo e di gettare le reti per la pesca; in 8,24 i venti obbediscono a Gesù e cessano di soffiare; subito dopo Gesù interroga i discepoli riguardo alla loro fede. In 11,1, invece, Gesù conclude la sua preghiera e viene interpellato dal discepolo: Signore insegnaci a pregare! La domanda del discepolo segue immediatamente la preghiera di Gesù. I discepoli lo osservano e, probabilmente, ne restano affascinati. Questa particolare situazione, genera la domanda. La dinamica domanda/risposta è, infatti, strettamente legata alla preghiera. La richiesta del discepolo resta, però, “superficiale”: insegnaci a pregare come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli. Vi è come un doppio livello: da una parte i discepoli osservano Gesù che prega e desiderano imparare da lui, d’altra parte, la loro richiesta è strutturata sul già conosciuto, non riescono a pensare che quanto visto possa condurli verso qualcosa di nuovo.
Gesù risponde condividendo con i discepoli la relazione che lo lega al Padre suo. Quando pregate dite: Padre, sia santificato il tuo nome!

La relazione padre/figlio non è una relazione sporadica, superficiale, ma quotidiana, di dipendenza anche se non di subordinazione. All’interno di questa relazione si riconosce una situazione di bisogno che esprime una mancanza, insieme alla certezza, però, d’esser esauditi, insieme alla fiducia che la mancanza verrà colmata. La relazione padre/figlio verrà ripresa altrove nei vangeli, in Lc sempre al cap. 11, qualche versetto più avanti, il domandare del figlio al Padre non prevede la possibilità di non essere esauditi: Se dunque voi che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono (Lc 11,13). E, un po’ prima, in Lc 11,8, troviamo un altro verbo che aiuta a comprendere il senso di questo testo e ad approfondire il significato della preghiera: Χρῄζω. Il verbo significa “avere bisogno, essere senza”. E lo stesso verbo utilizzato da Lc in 12, 30 e in Mt 6,32 nel discorso della “Provvidenza”: Il Padre sa che ne avete bisogno. I vestiti, il cibo: il Padre riconosce il bisogno, vede che i figli sono “senza”. Ciononostante Gesù invita a cercare il regno di Dio e la sua giustizia per avere tutte queste cose “in aggiunta”. Quello che è necessario viene dato, ma nel capovolgimento dell’ordine delle necessità. Per chi cerca il regno di Dio il necessario diventa “aggiunta”.

La preghiera che Gesù insegna è una preghiera poliedrica. La relazione diretta Padre/figlio si dilata, ingoblando anche la dimensione “orizzontale”, la relazione fra fra fratelli. Tale relazione all‘intero della preghiera che Gesù sta insegnando ai suoi è la base sulla quale si costruisce quella dei discepoli con il Padre: perdonaci i peccati (imperativo aoristo), infatti anche noi li rimettiamo/perdoniamo (presente) ai nostri debitori. L’humus, il terreno nel quale il Padre nostro affonda le sue radici è l’esperienza, e Gesù innesta questa esperienza nel suo rapporto particolarissimo con Dio, un rapporto che ci viene partecipato, che è condiviso.

Il Padre conosce ciò di cui abbiamo bisogno, afferma Mt in 6,8, ancora prima che glielo chiediamo; per questo non è necessario “sprecare parole”. Il verbo che utilizza Mt è, in 6,7,: βατταλογέω (apax di tutta la Scrittura) “usare molte parole senza senso, chiacchierare, usare vane ripetizioni”. Elemosina, preghiera, digiuno, le tre opere che Mt invita a compiere nel segreto. Cosa è questo segreto”? Mi sono interrogata a lungo, e credo non sia di facile e immediata comprensione. Osservando i testi mi sono risposta che questo “segreto” può essere inteso come il luogo figurato in cui la relazione con il Padre nasce e si nutre. Mt lo contrappone alla ricompensa che viene dagli occhi degli uomini: Guardatevi dal compiere queste cose in questo modo per essere visti dagli uomini! (cfr. Mt 6,1ss). Leggendo le parole del cap. 6 viene in mente un altro capitolo del vangelo secondo Mt, l’incipit del capitolo 23:

1 Allora Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: 2 «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. 3 Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. 4 Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito. 5 Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini: allargano i loro filattèri e allungano le frange; 6 amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe 7 e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare “rabbì” dalla gente. 8 Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. 9 E non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. 10 E non fatevi chiamare “maestri”, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo.

La dimensione del segreto, la relazione, il rapporto padre/figlio e la preghiera sono per l’evangelista un tutt’uno inscindibile. “Il segreto” è luogo teologico d’incontro. Incontro di chi, incontro con chi? Il segreto è il luogo nel quale l’uomo si incontra con se stesso e con il Signore. Il segreto è luogo di relazione intima. Si è davanti a se stessi, si è davanti a Dio. Ogni persona possiede il proprio “segreto”. Il “segreto” è per ciascuno come un abito cucito su misura, che non può essere indossato da nessun altro. Il segreto è il luogo nel quale tacciano le parole, quelle inutili e nascono le parole, quelle sane, nutrienti, le parole intonate. Il “segreto” è l’officina nella quale si costruiscono ponti solidi per raggiungere Dio, se stessi, i fratelli, attraverso preghiera, elemosina e digiuno. È nel segreto che si costruisce la nostra faccia, πρόσωπον (cfr. Mt 6,17), davanti agli altri.

Preghiera come relazione e incontro. Entrambe queste dimensioni, nei vangeli, sono legate alla presenza, alla vita, al corpo di Gesù di Nazareth. E che la preghiera sia una realtà dinamica lo si comprende analizzando alcuni verbi che mettono in relazione Gesù e la gente:

Venire presso (ἔρχομαι + πρός)
Leggendo ed analizzando le diverse presenze del verbo, sia nei Sinottici sia in Gv si nota immediatamente come il movimento di “andare presso” sia un movimento reciproco: si va verso Gesù e Gesù va verso qualcuno. E, solitamente, l’andare verso Gesù innesca e precede il movimento dell’altro, la riflessione dell’altro, l’azione dell’altro, alcuni esempi:

Mt 3,14 Giovanni dice a Gesù: Io ho bisogno di essere battezzato da te e tu viene presso di me?; 7,15: Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di agnello, ma dentro sono lupi rapaci; 14,25: Gesù va verso i discepoli camminando sulle acque; 14,28: Pietro chiede a Gesù di andare verso di lui; 19,14: Lasciate che i bambini vengano a me; 25,36: Ero in carcere e siete venuti verso di me; 26,40: Gesù va verso i discepoli nel Getsemani, ma li trova addormentati;

Mc 1,40: Il lebbroso va verso Gesù; 1,45: Venivano a Gesù da ogni parte; 2,13: Tutta la folla veniva a lui ed egli l’ammaestrava; 11,27: Si avvicinano a Gesù gli scribi , i farisei e gli anziani.

Lc 6,47: Chi viene a me e ascolta le mie parole e le mette in pratica è simile ad un uomo che costruisce la sua casa sulla roccia. 14,26 Se uno viene a me e non odia suo padre suo fratello…non è degno di me; 15,20: Il figlio partì e si incamminò verso suo padre;

Gv 1,29: Giovanni Battista vede venire Gesù verso di lui e lo indica e lo riconosce come Agnello di Dio; 1,47: Gesù vede Natanaele che gli va incontro; 3,2: Nicodemo va verso Gesù di notte; 6,35: Io sono il pane della vita, chi viene a me non avrà mai più fame; 6,37: Colui che viene a me non lo respingerò; 6,44: Nessuno può venire a me se non lo attira il Padre che mi ha mandato….chiunque ha udito il padre e viene a lui ha imparato da me; 7,37: Chi ha sete venga a me è beva; 11,29: Maria sente che Gesù è lì e la chiama, subito si alza e va verso di lui. 14,6: Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. 14,18: Non vi lascerò orfani, verrò presso di voi.

Con ancora più forza l’idea di un movimento che innesca relazione è dato dal verbo προσέρχομαι: “Muoversi verso un punto di riferimento, con una possibile implicazione, in determinati contesti di una relazione reciproca tra la persona che si avvicina e chi è avvicinato”. Alcuni esempi:

Mt 5,1: I discepoli si avvicinano a Gesù; 8,19: Gli scribi si avvicinano a Gesù. Lc 7,14: Gesù si avvicina e tocca la bara e resuscita il figlio della vedova.

Altro verbo importante è ἐγγίζω: Avvicinarsi ad un punto di riferimento”. In un certo numero di lingue non è possibile semplicemente dire “avvicinarsi”, perché è necessario specificare il punto di riferimento, in altre parole: vicino di quanto?

La necessità di avvicinarsi per entrare in relazione, così, come nel suo monologo afferma Capossela: ma decidere, partire muoversi a tempo fino a trovarsi nel luogo dove la cosa sta accadendo è miracoloso come la costruzione di tutte le cose immaginate”.

I Vangeli, però, contengono anche dei verbi che indicano in modo specifico la dimensione della preghiera: προσκυνέω. Il verbo significa, allo stesso tempo, “supplicare e adorare”. Vuol dire anche: Inchinarsi per baciare i piedi di qualcuno, indumento orlo, o il terreno di fronte a lui. Ad-orare cioè rivolgere la parola”. Alcuni esempi:

Mt 2: i magi si prostrano davanti al bambino; Mt 4,9: Il demonio chiede a Gesù di prostrarsi davanti a lui; Mt 8,2: Il lebbroso si prostra davanti a Gesù; Mt 8,18: Giairo si prostra prima di chiedere la guarigione della figlia; Mt 14,33: Dopo che Gesù e Pietro camminano sulle acque i discepoli sulla barca si prostrano a lui; Mt 15,25: La cananea si prostra ai piedi di Gesù ed esclama Signore, aiutami!; Mt 20,20: La madre dei figli di Zebedeo si prostra prima di chiedere qualcosa a Gesù. 28,9: Le donne adorano Gesù risorto. 28,17: I discepoli adorano Gesù risorto.

Mc 5,6: L’indemoniato geraseno si prostra davanti a Gesù; Mt 15,9: I soldati si inginocchiano davanti a Gesù per schernirlo.

Gv 4,20-24: 20 I nostri padri hanno adorato Dio sopra questo monte e voi dite che è Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare. 21 Gesù le dice: “Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre. 22 Voi adorate quel che non conoscete, noi adoriamo quello che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. 23 Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. 24 Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità“; 9,38: Il cieco nato si prostra davanti a Gesù dopo averlo riconosciuto.

Προσεύχομαι: “Prego, supplico, chiedo supplicando. Richiesta alla divinità, ma anche desiderio di parlare con…” Il termine possiede già in sè l’idea dell’insistenza. Alcuni esempi:

Mt 5,44: Pregate per i vostri persecutori; 14,23: Gesù sale sul monte a pregare; 19,13: Gesù impone le mani sui bambini e prega. Mt 26, 36.39.41.42.44: Gesù prega al Getsemani e invita i discepoli a pregare e vegliare.

Mc 11,25: Quando vi mettete a pregare se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perchè anche il padre vostro che è nei cieli perdoni a voi i vostri peccati. 12,40: Gesù rimprovera gli scribi di divorare la casa delle vedove e di pregare a lungo.

Lc 3,21: Gesù dopo aver ricevuto il battesimo sta in preghiera. 9,28: Il volto si Gesù si trasfigura mentre prega; 11,1-2: La richiesta del discepolo nasce dall’osservare Gesù in preghiera. 18,1ss: Parabola sulla necessità di pregare sempre senza stancarsi.(confrontare con la lunga preghiera rimproverata agli scribi di 20,47 e Mc 12,40).

È interessante notare come, nei versetti contenenti i verbi “tecnici” che indicano la preghiera, sia sempre presente la dimensione del desiderio. Positivo o negativo, a seconda dei contesti. Il desiderio di ricevere qualcosa, il desiderio di cambiare qualcosa, il desiderio di essere esauditi. Preghiera come desiderio di parlare con, di raggiungere qualcuno. Preghiera come capacità di perseverenza. Come in alcuni racconti di guarigione, nei quali Gesù “cede” all’insistenza del malato. La preghiera, il parlare a, non è sempre un parlare composto. Tutte le potenzialità della voce vengono utilizzate. Espressione di sentimenti, situazioni differenti che la voce prova ad esprimere: Il pubblicano chiede sottovoce e con il capo chino la misericordia (cfr. Lc 18,14); la cananea urla andando dietro a Gesù tanto da infastidire i discepoli (cfr. Mc 7,24-30); il cieco di Gerico, Bartimeo, si alza in piedi al sentire, dalla folla, che la confusione è causata dalla presenza di Gesù, cosa succede – chiede “Passa Gesù Nazareno”, gli viene risposto. E lui non sa quanto vicino egli stia passando, eppure getta via il mantello e balza in piedi gridando: Gesù Figlio di Davide Abbi pietà di me. Rimproverato dalla folla, non tace: Gesù, figlio di Davide abbi pietà di me (cfr. Mc 10, 46-52; Lc 18, 35-43). Ecco cosa vuol dire pregare senza stancarsi ma, allo stesso tempo, non pensare dessere esauditi a forza di parole.

In tutti questi esempi, le diverse intonazioni di voce sono sempre accompagnate da un movimento del corpo: il pubblicano ha il capo chinato e si batte il petto; la cananea si prostra davanti a Gesù, Bartimeo scatta in piedi. Il corpo è parte fondamentale, protagonista della preghiera. E nel vangelo la presenza di Gesù fa si che la preghiera sia corpo che cerca un altro corpo. La preghiera nel vangelo è materia. È carne, sangue, corsa, fiatone, sudore. E Gesù guarisce, esaudisce la preghiera rimanendo, in un primo momento, su questo stesso piano “corporale”: utilizzando le mani, l’alito, la saliva, il fango, l’acqua (cfr. Mt 9, 20-22; Mc 5, 21-34; Lc 8, 40-56). Avvicinarsi a lui. Andare verso di lui. Sapere che toccare anche solo il lembo del suo mantello, come l’emoroissa, è speranza di salvezza. E proprio in questo racconto la preghiera e la guarigione che ne consegue sono forse l’esempio più intenso della dimensione corporale della preghiera. La relazione fra Gesù e l’emoroissa è una relazione “corpo a corpo”. E’ un contatto lieve, i due si sfiorano appena, eppure entrambi sono consapevoli, lo sanno, d’essersi toccati, entrambi comprendono che qualcosa è successo. Così la preghiera costruisce la relazione: nel segreto sappiamo che qualcosa è successo.

La lettura dei testi evangelici permettono di comprendere la preghiera non come qualcosa “da fare”, basata su elementi esterni all’esperienza. Nessuna preghiera senza relazione, nessuna preghiera senza rimanere, nel segreto, faccia a faccia con se stessi e, dunque, faccia a faccia con Dio. Il segreto come luogo di edificazione di sé, luogo di incontro. Incontro, desiderio reciproco di vicinanza: andare verso, alzarsi, decidere, cercare, cercarsi. Incontro tra persone, identità, esperienza che se non è personale non può essere detta, che se non passa dalla carne non può essere data.

Concludo con un verbo, molto importante nella Scrittura. Il verbo Γρηγορέω: “Guardare, essere o rimanere svegli”; figurativamente essere attenti, vigili, come antonimo per la metafora del sonno come morte, essere svegli, essere vivi. In senso figurato significa anche custodire. Usato nei Sinottici all’interno dei grandi discorsi escatologici per indicare la necessità del vegliare, l’attesa vigile del Signore. Nel Getsemani Gesù chiede ai discepoli di vegliare insieme a lui. Il verbo è utilizzato all’interno della pericope diverse volte e si trova insieme a “pregare”: vegliate e pregate per non entrare in tentazione. Vegliare, esserci, stargli accanto, starsi accanto, attendere. Aspettarlo. L’attesa è la preghiera ebraico-cristiana per eccellenza, da Israele a Gesù, dall’ascensione ad oggi: Lo Spirito e la sposa dicono vieni! (cfr. Ap 22,17 ). Per questo la preghiera è arte dell’incontro e per questo l’espressione: “Signore insegnaci a pregare” possiede un significato tanto importante, l’espressione stessa è preghiera. E la frase dell’Apocalisse con la quale tutta Scrittura si compie, può essere la risposta a quella richiesta dei discepoli: Signore, insegnaci a pregare, per sentirsi così dire, da lui: Si, vengo presto (cfr. Ap 22,20).

Vicino, lontano

(foto di Walter Chappell)

(foto di Walter Chappell)

Soffiava quel vento maledetto, così forte da rendere impossibile sentire la propria voce, così come la voce di lei. E sentire la voce di lei era l’unica cosa che desiderava, davvero, in quel momento, un momento maledetto come il vento.

Ma lei non parlava. Nonostante le sue labbra fossero socchiuse, come in procinto di dire. Sembrava che le parole fossero lì, tutte in fila, pronte a venir fuori. E così lui le fissava le labbra, per non perder d’occhio lo sgorgare possibile di una sorgente.

Gli occhi di lui, come una riva, linea di confine tra terra e acqua salata. Lacrime in equilibrio, per paura che superassero il confine e che gli accadesse di sparire sotto un salire d’acqua irrefrenabile.

La guardava, senza batter ciglio, per non perderla di vista neppure un istante. La guardava così, come aveva fatto per anni, vicino abbastanza per imparare ogni particolare e ripeterlo a memoria giorno e notte, al risveglio, la sera, per strada, al lavoro. Vicino abbastanza, ma troppo distante per sentire sotto il palmo della mano il calore della pelle, per sentire sotto le dita lo spessore dei nei, le onde della labbra, la seta dei capelli, le ossa sporgenti, la linea curva del naso, la morbidezza del seno. Non abbastanza vicino per amarla, non sufficientemente lontano per scordarla.

Si ricordò di quando la vide sorridere la prima volta. Credeva di perder il senno. E si era guardato attorno, sconvolto dal procedere disinvolto del mondo. Si chiedeva smarrito e commosso come fosse possibile che la vita di tutti continuasse senza incantarsi davanti al quel distendersi della bocca così dolce…come non piantare i piedi davanti a quell’illuminarsi reciproco di occhi e labbra, come non restare lì a raccogliere luce e calore come un mendicante affamato? Avrebbe voluto fermare la gente, afferarla per il braccio e costringerla a condividere il momento: “Ehi dove andate? Ma..ma restate qui, venite con me..non vedete come è bella quando sorride?”. Era accaduto poche volte che gli sorridesse così, eppure, ogni volta gli pareva di poter aggiungere millenni ai suoi giorni di uomo.

Certo, si ricordava, pure, di quando piangeva…della lama affillata che gli tagliava le ossa: una pugnalata per ogni sua lacrima. Si ricordava di come l’universo intero patisse il sussulto dei suoi singhiozzi. Le montagne sembravano schiacciare la terra, il cielo tremava, non era possibile riuscire a fare un passo senza vacillare. Tutto perdeva la sua forma, la realtà sbiadiva i contorni lasciandolo privo di appigli. E quando stava male poi…le capitava spesso. Sopratutto ultimamente. Diventava così pallida, e tossiva. Nei momenti peggiori si accasciava, in ginocchio, come se portasse su di sè il peso del mondo.  Teneva stretto il ventre, un abbraccio intensissimo con il proprio corpo. Mangiava poco e troppo spesso, con le ginocchia piantate a terra, si sporgeva in avanti e vomitava cibo misto a sangue. Neppure lo guardava in quei momenti, lei. Eppure lui restava lì non se ne andava, mai. Restava lì sopportando eroicamente di non riuscire ad intervenire per darle sollievo. Restava lì, e quando lei sfinita, in ginocchio, rialzava di poco la testa, lui sentiva il sapore della morte, nel vederla così, stremata e bellissima, con un rivolo di sangue che le colava ancora dalla bocca e i suoi capelli scuri e lucenti impastati con i resti di quel cibo che non era per lei nè forza nè nutrimento.
Non smetteva di soffiare, il vento balordo. Il pensiero che quelle labbra socchiuse potessero finalmente partorire parole che il vento gli avrebbe portato via, lo prostrava profondamente. Posò i suoi occhi stanchi per l’attesa sulle mani di lei. Mani scure e belle. Magre ormai, ma espressive e potenti. Si ricordò, inevitabilmente, di quella volta che, quasi per errore, riuscirono a toccarsi. Fu un attimo, ma s’impresse in lui con una tale potenza…con una forza quasi violenta.

Camminavano insieme, uno accanto all’altra, come sempre. Avevano ormai imparato a procedere con ritmo costante, vicini, vicinissimi, ma lontani abbastanza per evitare il contatto. Ad un certo punto, però, il cammino si fece impervio, la strada dissestata, i sassi aumentarono improvvisamente, sembravano venire fuori dal nulla, una moltiplicazione feroce d’inciampi. Persero il ritmo del loro procedere paralleli e l’equilibrio di lui vacillò. Per evitare di rovinare a terra e batter la testa sui sassi, le afferrò la mano. Lui strinse, lei strinse. E lui non cadde sui sassi. Ma attraverso quella stretta di mani sentì lei in modo così forte dentro di sè che non potè frenare l’istinto di mollare la presa. Gli parve che i sassi gli avrebbero potuto nuocere meno di quella presenza di lei in lui così intensa.

Non gli accadde di toccarsi mai più. E adesso che lei lo stava lasciando, lui avrebbe voluto con tutta la sua anima, il suo corpo, la sua mente e le forze tornare a quel momento. Avrebbe voluto camminare sui sassi e riperdere l’equilibrio, rompere il ritmo del procedere parallelo e afferare di lei non solo la mano, ma il corpo, tutto: i fianchi, le braccia, le gambe, tutto. La pelle, il sangue, le ossa: tutto. Avrebbe voluto sentire fra le mani il pulsare dei suoi organi interni, stringere il suo intestino e il fegato e il cuore. Avrebbe voluto sporcarsi con il corpo di lei, avrebbe voluto sentire fra le dita i grumi del sangue da mischiare al suo in un esplodere incontenibile e furioso di rosso vivo. Avrebbe voluto sentirla addosso per sempre, perdere il proprio odore a favore del suo, mandare in frantumi i confini costruiti a difesa della propria solitudine e sentirsi invaso dalla presenza di lei. Avrebbe voluto. E ora che la vita lo stava lasciando non poteva che guardarla, nè troppo lontano nè troppo vicino e fissare quelle labbra socchiuse e immaginare, nonostante quel vento maledetto, un’ultima volta, il suono delle parole che la sua vita aveva tentato di pronunciare infinite volte.

Itaca per sempre

(foto di Cristiano Denannia-2007)

(foto di Cristiano Denannia-2007)

E’ un libro bellissimo. Lento, come lenta e profonda procede la vita di coloro che abitano terre circondate dal mare. Ho comprato il libro ad Agosto, l’ho finito adesso. Leggevo, e poi sfilavo la trama delle parole, per ricucirle, di nuovo, su misura dei pensieri e delle vicende che erano i miei pensieri e le mie vicende, in quel momento. Sfilavo e ricucivo per far, pure, compagnia a Penelope, che più di tutte le donne ha patito solitudine e partorito attese, la sola, fra tutte, ad aver scrutato così a lungo l’orizzonte, sopportanto giorno dopo giorno la ferita di quella linea luminosa e tagliente fra cielo e mare.

Penelope
Devo difendermi dai ricordi che per anni hanno guidato ogni mio gesto e ogni mio pensiero. Leggeri gesti, quasi sospesi nell’aria, e pensieri pesanti come il piombo. Quando ho riconosciuto Ulisse sotto gli stracci di questo vagabondo, ho scoperto con dolore che nessuna fiducia ripone nella donna che ha diviso con lui gli anni della gioia e della giovinezza, delle parole amorose, degli amplessi. I nostri anni migliori si sono consumati nella memoria e Ulisse ha smarrito ormai la prospettiva misteriosa dei desideri reali cui ha diritto non solo la sua sposa ma ogni donna del mondo.
Ulisse ha dovuto combattere con le Sirene, i Ciclopi, i Mostri Marini che ha trovato sulla strada e perciò diffida di tutti in tutte le occasioni, e crede di essere sempre in guerra con il mondo. Così questo ritorno è avvenuto senza gioia e nel segno del sospetto. Come potrò perdonare a Ulisse la freddezza con cui riesce a nascondersi e a scrutarmi come oggetto senz’anima? […]
Ulisse va cercando ostacoli ovunque e quando non li trova li crea lui stesso, come se volesse mettere ogni volta alla prova il proprio valore e la propria intelligenza. Ma io non sono una nemica che ordisce trame contro di lui, nè una moglie infedele. Se lui diffida di me io alimenterò la sua diffidenza, se mi infligge nuove amarezze io farò altrettanto con lui. […]
Ulisse ha lanciato le sue sonde come abile marinaio che naviga tra gli scogli, ma difficilmente potrà raggiungere i segreti del mio animo perchè anch’io so fingere quando occorre, ho fatto lunghi esercizi in questi anni per difendermi dagli assalti dei Proci, dalle lusinghe e dalle trame dei servi. Povero Ulisse, come lo odio, e come lo amo nonostante tutto, anche sotto questi luridi stracci di mendicante.
(da Itaca per sempre di L. Malerba)