Ruoli e relazioni. La mia “risposta” a papa Francesco

 

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Lo scorso 8 maggio, in occasione dellAssemblea plenaria dell’unione internazionale delle superiore generali, papa Francesco ha tenuto un breve discorso, subito amplificato dai mezzi di comunicazione per la frase rivolta alle religiose: siate madri non zitellehttp://attualita.vatican.va/sala-stampa/bollettino/2013/05/08/news/30952.html

A dire la verità, nonostante il plauso dei mass media e delle stesse religiose presenti, credo ci sia poco da stare allegri. Da donna, battezzata e studiosa di Sacra Scrittura, infatti, l’affermazione di papa Francesco e tutto il suo breve discorso mi hanno suscitato diverse riflessione e non poche perplessità. Ecco le sue parole

E poi la castità come carisma prezioso, che allarga la libertà del dono a Dio e agli altri, con la tenerezza, la misericordia, la vicinanza di Cristo. La castità per il Regno dei Cieli mostra come l’affettività ha il suo posto nella libertà matura e diventa un segno del mondo futuro, per far risplendere sempre il primato di Dio. Ma, per favore, una castità feconda, una castità che genera figli spirituali nella Chiesa. La consacrata è madre, deve essere madre e non zitella! Scusatemi se parlo così, ma è importante questa maternità della vita consacrata, questa fecondità! Questa gioia della fecondità spirituale animi la vostra esistenza; siate madri, come figura di Maria Madre e della Chiesa Madre. Non si può capire Maria senza la sua maternità, non si può capire la Chiesa senza la sua maternità e voi siete icona di Maria e della Chiesa”.

Viene naturale chiedersi il perchè di tale risonanza mediatica. Forse perchè è inusuale che un pontefice si esprima con un linguaggio tanto comune e comprensibile? Comune e comprensibile, appunto. Tutti hanno recepito il messaggio, perchè? Perchè il papa usa due dei clichè più comuni per identificare una donna. Per giorni i giornali hanno riportato la notizia. Non è forse un segno allarmante del riconoscimento unanime e immediato, non riflesso cioè, della donna e dei ruoli sociali che le sono stati attribuiti, o meglio, imposti e dai quali ancora stenta a liberarsi? È palese che se il discorso fosse stato rivolto a dei religiosi uomini il linguaggio sarebbe stato differente, fosse solo perchè la lingua italiana corrente non possiede il maschile di “zitella” (Alcuni vocabolari riportano “zitello” e ne specificano l’uso desueto. Altri, invece, non lo riportano affatto e indicano l’uso di “scapolo”, ma privo del senso dispregiativo).

Certo, il Pontefice è assolutamente in linea con secoli di Tradizione, come negarlo? Ma scorrendo le pagine della Bibbia (prima Fonte alla quale la vita della Chiesa deve attingere, dopo aver imparato ad averne sete) mi pare di non trovare ovvio questo legame tra maternità e femminilità, tra “castità feconda” e primato di Dio e costruzione del Regno. A cominciare dalla maternità “naturale”. Le madri nominate nei vangeli non hanno proprio un rapporto roseo con Gesù: la madre di Giacomo e Giovanni viene rimproverata per la pretesa che i figli siedano alla destra e alla sinistra di Gesù (Cfr. Mt 20,20-23). E Gesù sulla via che lo porta al Golgota non ha parole tenere per le madri che piangono su di lui: “Lo seguiva una gran folla di popolo e di donne che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui. Ma Gesù, voltandosi verso le donne disse: figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete sui vostri figli. Ecco, verranno giorni nei quali si dirà: Beate le sterili e i grembi che non hanno generato e le mammelle che non hanno allatato (Lc 23,27-29). A proposito di mammelle e di latte materno, Gesù non risparmia neppure sua madre: “In quel tempo, mentre Gesù parlava, una donna dalla folla alzò la voce e gli disse: Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato! Ma egli disse: Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!.

 

La maternità, dunque, non è via privilegiata di vita con Dio, neppure per la vergine Maria. Ciò “senza cui non è possibile capire Maria di Nazareth” non è in primis la sua maternità ma l’ascolto della Parola di Dio: “Mentre egli parlava ancora alla folla, sua madre e i suoi fratelli, stando fuori in disparte, cercavano di parlargli. Qualcuno gli disse: Ecco di fuori tua madre e i tuoi fratelli che vogliono parlarti. Ed egli, rispondendo a chi lo informava, disse: Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? Poi stendendo la mano verso i suoi discepoli disse: Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre“. Ciò che dona a Maria la possibilità di generare il Figlio di Dio è il suo assenso alla Parola: “mi accada secondo la tua parola (Cfr. Lc 1,38) risponde all’arcangelo Gabriele che le porta l’annuncio. Nè la “maternità di sangue” né quella cosiddetta “spirituale” possono essere considerate vie privilegiate di sequela. La maternità è seconda alla relazione con la Parola.

 

Relazione. Parola chiave per comprendere molte cose nella Bibbia, fra queste anche la presenza delle donne nella vita del Rabbì di Nazareth. Ma chi sono le donne che seguono Gesù? Fiumi di inchiostro e studi magistrali esistono sull’argomento. La mia riflessione si ferma semplicemente ai dati forniti dalla Scrittura. Maria di Magdala, Marta e Maria, Giovanna, Susanna, Maria di Clèofa. Di alcune conosciamo il nome, di poche il nome e la storia, altre compaiono per il breve tempo dell’incontro con Gesù. Le donne raccontate nei vangeli non sono certo esempi di “castità”: la donna che bagna di lacrime i piedi di Gesù e li asciuga con i suoi capelli è una prostituta (Cfr. Lc 7,36-50), da Maria di Magdala il Messia Figlio di Davide scaccia via ben “sette demòni” (Cfr. Lc 8,2), e poi c’è un’ adultera colta in flagranza di reato (Cfr. Gv 8,1ss), una donna resa impura, secondo la cultura del tempo, dalle sue continue emorragie, che crede di poter guarire toccando anche solo un lembo del mantello di Gesù (cfr.9,20-22); c’è la samaritana con la sua vita disastrata, che ella stessa riesce a comprendere soltanto alla luce del dialogo con lui (cfr. Gv 4,1ss).

 

Donne, con le loro storie. Sono storie aperte, che mutano, che cambiano nel corso del loro incontro/legame con Gesù. Il vangelo ci narra di percorsi, di situazioni che si trasformano grazie alla relazione con lui, ad un riconoscimento che è reciproco e che coinvolge il corpo, il cuore, la vita. Le donne lo cercano, lo toccano, lo guardano, gli parlano, lo sfiorano, gli tengono spesso testa, non si lasciano sedurre così facilmente da lui, lo interrogano, lo afferrano, lo sfidano, provocano in lui un cambiamento come accade durante le nozze a Cana di Galilea. Maria esprime a Gesù la sua preoccupazione: “Non hanno più vino”, Gesù risponde: “Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora”, la madre non si lascia scoraggiare e ordina ai servi: “Fate quello che vi dirà”. L’acqua viene cambiata in vino ed è anticipato per Gesù l’inizio dei “segni” (Cfr. Gv 2,1-12). Anche la donna siro-fenicia che con fermezza chiede la guarigione della figlia permette a Gesù di compiere un passo avanti nella consapevolezza della sua missione: “Partito di là, Gesù si diresse verso le parti di Tiro e Sidone. Ed ecco una donna Cananèa, che veniva da quelle regioni, si mise a gridare: Pietà di me, Signore, figlio di Davide. Mia figlia è crudelmente tormentata da un demonio. Ma egli non le rivolse neppure una parola. Allora i discepoli gli si accostarono implorando: Esaudiscila, vedi come ci grida dietro. Ma egli rispose: Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa di Israele. Ma quella venne e si prostrò dinanzi a lui dicendo: Signore, aiutami! Ed egli rispose: Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini. È vero, Signore, disse la donna, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni. Allora Gesù le replicò: Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri. E da quell’istante sua figlia fu guarita” (Mt 15,22-28).

 

 

Il papa nel suo discorso alle religiose afferma: “È Cristo che vi ha chiamate a seguirlo nella vita consacrata e questo significa compiere continuamente un ‘esodo’ da voi stesse per centrare la vostra esistenza su Cristo e sul suo Vangelo, sulla volontà di Dio, spogliandovi dei vostri progetti ”. Quello che Gesù fa con le persone che incontra è praticamente il contrario, almeno in un primo momento. Ogni incontro si gioca sulla scoperta della reciproca identità: “Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia? ” (cfr. Gv 4,29); “Ed ecco una donna, che soffriva d’emorragia da dodici anni, gli si accostò alle spalle e toccò il lembo del suo mantello. Pensava infatti: Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita. Gesù, voltatosi, la vide e disse: Coraggio, figliola, la tua fede ti ha guarita». E in quell’istante la donna guarì” (Cfr. Mt 9,20-22); “Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi; ma non sapeva che era Gesù. Le disse Gesù: Donna, perché piangi? Chi cerchi?. Essa, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo. Gesù le disse: Maria!. Essa allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: Rabbunì!, che significa: Maestro!” (cfr. Gv 20,14-16). Gesù svela a noi stessi la nostra identità, ed è grazie a tale rivelazione, dentro al processo di questo svelamento, lento, sofferto, personalissimo che noi lo riconosciamo come Signore della nostra vita. Riconoscimento reciproco, nella relazione.

 

Il decentramento da sé, la rinuncia al progetto personale, “lobbedienza allo Spirito autenticata dalla Chiesa attraverso mediazione umana”, come afferma il papa nel medesimo discorso, forse sono dottrine che devono essere ripensate. Per costruire certo, non per distruggere.

 

Per spogliarsi di sé non è necessario capire prima chi si è? E forse la vita dei credenti non è stata in qualche modo privata, nei secoli, di questo passaggio fondamentale dando origine a storpiature e perversioni del vangelo? Non si è fatto abuso dell’insegnamento sul “rinnegamento di sé”?, della “mediazione umana soggetta all’obbedienza” (il termine “obbedienza” è presente soltanto due volte nei vangeli. Gesù la chiede agli elementi naturali e ai demòni. Agli uomini richiede “ascolto” della Parola) a scapito di una coscienza di sé consapevole che, invece, è sempre più smarrita? E che per reazione si irrigidisce su posizioni estreme?

Donne = Madri; Non madri = zitelle. Certo, è un pregiudizio che, ahimè, non appartiene soltanto alla cultura cattolica. Forse sarebbe stato più bello, più forte e vero se il papa avesse detto: “Siate donne, non zitelle”. Sarebbe stato più bello se invece di parlare alle religiose come esponenti di una categoria avesse parlato loro come rappresentanti di una realtà, quella femminile, così ricca e bisognosa di essere riconosciuta nella sua identità, una identità non fatta di ruoli, ma di vita vissuta, di storie, di relazioni, di incontri. Non esiste un modo di essere suore, un modo di essere madri, un modo di essere mogli, un modo di essere donne. Esistono le persone con le loro storie, e se dei tratti comuni ci sono, questi vanno conosciuti per comprendersi, per comprendere, non per leggere la realtà a senso unico. Nel vangelo secondo Matteo, al capitolo 25, si parla delle dieci vergini. Fra queste cinque si comportano da sagge e cinque da stolte. Al di là del linguaggio metaforico, uno stesso status mostra la possibilità di comportamenti diversi,ciò che fa la differenza è la relazione delle singole con lo “Sposo”.

La mia riflessione non vuole essere una critica al Papa né un attentato alla vita religiosa così come la Chiesa da secoli la vive e la custodisce. La mia è semplicemente una riflessione, basata su quanto mi pare di capire dallo studio delle Scritture, e sul desiderio di partecipare in modo consapevole e responsabile alla vita della comunità dei credenti in Gesù. La riflessione teologica sulla vita religiosa è viva, va avanti, si nutre di pensieri nuovi e diversi che piano piano la rinnovano. Ma quello che mi sembrava essere in gioco nell’affermazione del papa supera i confini della vita consacrata. La necessità di ripensare la dimensione femminile nella cultura, nella società, nella vita ecclesiale è tragicamente urgente. E se non lo faremo noi, lo farà la storia, anche senza di noi. Grazie a Dio. Si, lo Spirito soffia dove vuole (Cfr. Gv 3,8).

 

 


 

 

 

 

3 pensieri su “Ruoli e relazioni. La mia “risposta” a papa Francesco

  1. E’ difficile rispondere a questo tuo scritto, ancor più per chi, come me, è lontana dalla visione cattolica e la conosce poco.
    Però devo ammettere che suscitano riflessione le parole del Papa, e attirano le tue. Si parla di donne: donne consacrate, che il padre esorta ad essere madri, e di una maternità feconda.
    Ma si può essere madri senza il corpo? Senza il “vissuto” del corpo, senza il suo calore? E zitelle si può essere, senza il corpo? Non lo so.
    “Nubile” – che può essere sposata – è una parola che deriva da “nube”, per il candore forse, ma anche per l’essere “gonfio” di pioggia o di umori a cui questa radice allude (ed è anche la stessa di “nebbia”). Una nuvola può non riconoscere il suo essere pioggia, può evitare di sciogliersi? Come potrebbe una nube essere pioggia senza riconoscere prima che già è vapore? E quindi, mi chiedo, come possono queste donne consacrate essere madri o zitelle, essere donne, se il corpo è tagliato fuori, se è come acqua che non piove e nube secca?
    Mi chiedo come si fa a vivere nel corpo senza corpo, a derivare un’affettività da un lato e una spiritualità dall’altro in questa castità che non è semplicemente assenza di vita dei sensi, ma assenza di relazione con se stessi prima di tutto.
    Mi rendo conto, però, mentre scrivo, che non ne so niente di quello che dice il Papa, e niente di quello che scrivi tu. E che sono reattiva, proprio come una gatta a cui volessero togliere i cuccioli: non la voglio una donna senza corpo e una madre non madre, non voglio questa separazione di ruoli e nessuno che dica “siate madri senza esserlo” e che dica cosa e come essere.
    Ricordo il primo mestruo come un momento in cui sentii forte che da quel momento potevo essere madre: e quello per me era un mistero quasi inconcepibile, rivissuto molto tempo dopo, quando scoprii che ero incinta e dissi “proprio io”, e un’amica mi rispose, lasciandomi muta “in che senso proprio tu?”.
    E ricordo anche la prima Comunione, più o meno in quello stesso tempo, quando pensai che ora ero Sposa, perché avevo ricevuto il Corpo di Cristo nel mio. E anche quello era un mistero inconcepibile, che mi emozionava tremendamente e che non capivo.
    Ma quanto c’è voluto, però, per potere scendere veramente nel corpo? Nemmeno una gravidanza basta, nemmeno due. Ce ne vuole e ce ne vuole per capire che essere una donna non è distinguibile dal resto, dall’essere figlia madre moglie amante e tutto quanto, e non è distinguibile dall’essere terra e pioggia e cielo e mare. Ce ne vuole per capire tante cose – e non solo capire col pensiero, ma col corpo. Ma il corpo, che cos’è? Forse è il nostro tempio, forse è una chiesa, forse è là che siamo consacrate, e allora sì che possiamo essere madri anche senza esserlo, e figlie non solo di una madre e di un padre.

    • Cara Samina,
      grazie per il tuo commento. Le tue parole sono sapienti. Dense di quella forza e quella verità che solo l’esperienza riesce a dare. Dietro quello che scrivi c’è la tua vita. Solenne e preziosa. E’ bello constatare che, spesso, gli addetti ai lavori discutono su argomenti che sono loro propri, discutono senza riuscire ad avvicinarsi alla “carne” della cosa discussa mentre, invece, chi si ritiene un profano dell’argomento, non solo si avvicina maggiormente, ma riesce a inoltrarsi più in profondità, portando allo scoperto nuove possibili interpretazione. La chiesa ha un lungo cammino da compiere per riavvicinarsi e riconciliarsi con il “corpo”. Io spero possa riuscirvi visto che il cristianesimo è il corpo di un uomo, carne e sangue di Gesù di Nazareth. Ti sono davvero grata.

      • Grazie a te, Giulia. Corpo e pane, sì. Quanta fatica per essere compagni, dapprima semplicemente del proprio corpo, del proprio essere, e poi anche di un altro. Cum-panis: da qui deriva “compagno”, perché condivide il pane, dopo avere tanto faticato per seminare, coltivare, mietere, macinare, impastare, cuocere, quel corpo di Cristo in noi stessi…