Scusa, Malala

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Malala, la conoscono tutti. Non è neppure necessario specificarne il cognome. La conoscono i capi di stato, le autorità religiose di tutto il mondo, la conoscono gli economisti, gli stilisti, i talebani e gli equilibristi, tutti. Tranne i miei alunni.
Questa è stata la prima amara scoperta di una mattina trascorsa al cinema con un centinaio di ragazzi fra i 14 e i 16 anni, più o meno. Fra questi, ne sono certa, vi era certamente qualcuno a conoscenza della storia di Malala. Così come, non ho dubbi, nella massa ci sarà stato qualcuno interessato e attento alla visione del documentario che riguardava la giovane pakistana, premio nobel per la pace.

La massa. Si. Oggi ho avuto proprio la lucida consapevolezza di come, nella “massa”, si nascondano molte delle radici velenose del nostro tempo. E’ bastato che si abbassassero le luci in sala per dare il via all’improvviso e impunemente ad una specie di delirio che mai e poi mai si sarebbe potuto scatenare in piena luce, a viso scoperto: urla, fischi, versi di animali e rutti, perché senza rutto, si sa, il delirio mancherebbe proprio di carattere.

In realtà, in sala, buio buio non si è fatto mai. Gli schermi dei cellulari non hanno smesso, a cicli alterni, di illuminare i volti distratti. “Li riporranno via” – pensavo io – mettendo mano alle scorte di ingenuità che ancora, evidentemente, conservo, ahimè, da qualche parte. Ma quando mai! Così, se alzavo lo sguardo vedevo sul grande schermo la sala operatoria nella quale una ragazza a cui avevano sparato in testa perché voleva andare a scuola, lottava tra la vita e la morte e se, invece, abbassavo lo sguardo vedevo decine di piccoli schermi in mano a ragazzi che a scuola ci vengono per forza e che le vite le conquistano, si, ma  per superare i livelli di Crash saga.

C’è da dire che a giocare coi cellulari sono molto abili, comunque. Ogni tanto, infatti, lo sguardo lo alzavano, senza perdere la partita, giusto il tempo per fare qualche battuta sui talebani e sulle donne pakistane con il capo coperto dall’hijab. Così, tanto per sfoggiare il repertorio di luoghi comuni che evidentemente ascoltano e imparano guardando la tv.

Dall’intervallo sono rientrati con bidoni di 50 lt, pieni di cibo. Si è scatenato l’inferno, ovviamente. Neppure il sangue di Malala sul furgone della scuola e sull’asfalto ha attutito il lancio di pop corn e l’urlo di vittoria per aver centrato il compagno. Ma l’apice è stato raggiunto quando, passeggiando per la sala e cercando di capire perché fossi costretta a comportarmi da carabiniere pur essendo un’insegnante, ho sentito un ragazzino dire ad un compagno: “Oh, se non mi dai una patatina ti sparo in testa come a quella”.  Così ha detto: “Ti sparo in testa come a quella”.

Allora, all’improvviso mi sono resa conto di una distinzione fondamentale: nella vita si può lottare per superare le difficoltà oppure, le difficoltà, si possono eludere, fuggire con l’inganno. E ho percepito con tremore e turbamento il pericolo che le scelte educative e di formazione si pieghino, si appiattiscano proprio sull’inganno.

I ragazzi che frequentano la mia scuola di problemi concreti ne hanno moltissimi. Fra loro c’è chi abita in quartieri difficili di periferia, in una città che, pure al centro, di dolore da smaltire ne porta addosso troppo. Spesso i genitori sono disoccupati, il livello di cultura è basso, gli strumenti per capire a fondo il proprio disagio, praticamente nulli. Non conoscono i loro diritti e ciò che gli spetta lo arraffano come un furto non riuscendo così a percepire le responsabilità.

Ma qui, nella parte “fortunata” del mondo, a differenza che in Pakistan o in Siria o in Africa, noi mettiamo i giovani davanti ai programmi Mediaset e compriamo loro gli smartphone. Gli diamo da mangiare, da bere Redbull e insegniamo che a riuscire nella vita sono i furbi. Non è un insegnamento diretto, ma è quello che passa dai fatti, dagli esempi, dai comportamenti e che è tanto tanto tanto più incisivo di una lezione frontale sui diritti umani o della visione di un documentario, non adeguatamente e a lungo preparata, sulla storia di Malala, data così in pasto al mostro dell’incomprensione, della superficialità, della paura nei confronti della diversità, del rifiuto della sofferenza.

Una cosa, però, non l’ho proprio capita. Mentre li vedevo ridere, ascoltare i messaggi vocali come se fossero seduti sul divano di casa, parlare ad alta voce come se non esistesse nessun altro, mi dicevo: “Ok, non hanno gli strumenti culturali necessari per comprendere questa storia. Ma…il sangue non è sangue per tutti? La sofferenza, la paura, non sono forse sentimenti comuni tra gli esseri umani? Come si può non lasciarsi “avvicinare”, “toccare”? Fosse solo per il tempo di un film?

Ma poi una collega mi ha detto: “Di cosa ti stupisci, Giulia. Basta leggere i commenti a seguito di articoli che raccontano dei naufragi nei nostri mari, per rendersi conto di quanto siano abbondanti i frutti della resa culturale nel nostro Paese”.

La beffa è che io questo lavoro proprio non lo volevo fare…Ma non posso non interrogarmi spietatamente a riguardo: se la scuola non riesce ad insegnare che il sangue è sangue di tutti e che il dolore così come la gioia di un uomo e di una donna, tutti ci riguarda e tutti ci trasforma, se non siamo in grado di far percepire la realtà, nella sua complessità e ricchezza, se non ci assumiamo l’impegno e la fatica di scelte coraggiose, se pieghiamo la schiena sotto i colpi di riforme della scuola a scopi economico-aziendali, se non sappiamo trasmettere lo sdegno per ogni diritto negato, se non aiutiamo a smascherare le ideologie alla radice, se i ragazzi non ci sentono denunciare ad alta voce le trame di ogni palazzo, ma davvero…che senso ha?! Se non si trova la voglia, il modo di agire su tutto questo, siamo una scuola già morta, senza bisogno dell’irruzione di talebani armati.