È così che accade, ogni tanto, la notte.

(foto di Luca Nizzoli Toetti)

(foto di Luca Nizzoli Toetti)

È così che accade, ogni tanto, la notte.

Di dover andare a dormire, ma di non riuscirvi, di sentire insonnia ribelle muovere guerra al riposo necessario ad alzarsi, domani.

È frammento di caos primordiale, impossibile staccarlo di dosso. Polvere di bing bang ad annodare i capelli, scheggia incastrata, in circolo nelle cellule, che si muove, su e giù, sotto e sopra, tra cascate di sangue in piena, tremar di vene al passaggio.

Devi dormire, lo sai. Sai che domani l’alba arriverà, risuonare arrogante di sveglia e maledirai il caos, il magma, il fuoco e il sangue, e cercherai tu, disperata-mente, di star bene al mondo. Cercherai quiete, vita, presente per forza.

Eppure, accade, la notte, che assalga il dubbio, di pensare bugiardo il riposo di membra e di ignorare disinvolto il mattino. Nella notte accade pensare che ci sia, altrove, una vita diversa dove ogni cosa è tesa allo sforzo di generare la versione vera di te. Sudore, sangue, squarci di placenta, urla di dolore. Non è guerra, non è miseria né morte. È la vita che si dimena nel desiderio insostenibile di averti. Di avere te, di possedere te e nessun altro al tuo posto.

La vita, che si consuma di desiderio, che geme, solitudine insostenibile la nostra assenza. Non più tu a patire incomprensione, non più tu a smussare angoli senza sosta per riuscire ad entrare dove, credi, tutti ti attendano, fatica, e semina di desideri altrui.

No, non più tu a voltarti ad ogni passo, non più tu a tender l’orecchio, a raffinar l’udito, speranza di sentire corse ansiose, scalate a nude mani su punta di roccia, pur di veder te, e nessun’altro al tuo posto.

La vita, sentinella senza cambio di guardia nè sonno, sguardo teso come freccia a puntar l’orizzonte, pronta a scoccare veloce, a tagliar l’aria, silente e decisa, per passarti accanto, sfiorare.

Occhi furtivi e capriole di ruoli, spiarle in faccia lo sconforto, lo sguardo fisso alle spalle, attesa sfinita del tuo volto. Ma, poi, riconoscere nel suo sconforto la delusione dell’attesa, la tua di lei, sentir fremiti di pietà e voltarti di scatto ad acchiappar l’istante, amore e sorpresa. La vita, sguardo affamato di incontro. Non più tu a correrle dietro, a cercar le tracce del passaggio, non più tu ad attendere ore, moltiplicazioni di giorni, panchine fredde e ruggine su palmi di mano.

Il sonno preme, spinge di spalla, si getta di peso, e invece resisti e speri che il magma non torni a scavare rifugi codardi di tenebre. Resisti e speri che il caos rispacchi la terra, brandelli di fuoco all’intorno, confini come briciole. Andare, ovunque. Nessuna licenza. Poter essere niente, assenza di sforzo nel diventar qualcosa, rinunciando a qualcos’altro. Tutto è tuo e ogni luogo è quello giusto. La vita, non più amputazione d’eccessi, nessun equilibrio. Nessun sentiero diritto, solo cime, solo pendenze.

Incipit (cose che accadano in cinque minuti, nella vita)

Una fine…
Stringeva tra le mani la tazza calda e gialla, e il vapore della camomilla veniva su avvolgendole il viso. Non si accorgeva delle sue dita divenute bianche per la forza di quella stretta. Le scendevano giù le lacrime, senza che sul viso apparisse alcuna smorfia di dolore, nessun segno di sofferenza. Tutto era dentro, negli occhi. Due crateri ed eruzione d’ acqua e sale. Fu la suoneria del cellulare a destarla dal quel silenzio insonne, rimase immobile, solo si voltò, con la testa, verso il telefono, lesse il nome sul display, lo fissò per alcuni minuti, poi si alzò abbandonando sul tavolo della cucina quella melodia allegra. Appoggiò la testa alla finestra. E il fiato del suo sospiro appannò il vetro. Il mare era nero, rigato di bianco all’orizzonte, sembrava, e lo era, di una ostilità invincibile. Lo osservò per un paio di minuti poi posò la tazza, indossò il cappotto grigio, il cappello, i guanti ed uscì. Amava il vento freddo e quel velo di sale che si posa sulle labbra, tanto quanto odiava l’umidità che arriccia i capelli: “Amore e odio non si separano mai, neppure nelle briciole della vita” – pensò, di sfuggita.
Con passo veloce giunse alla panchina amata, sempre scartata, da tutti, per gli scogli troppo alti, ad impedire la vista del mare. Pochi sapevano, però, per  una cronica anemia di pazienza, che nei giorni di tempesta il mare gli si scaglia contro e come una visione fa la sua comparsa in forma di schizzi e schiuma. Si sedette in punta, con le mani sotto le cosce, un po’ piegata in avanti, in modo da poter dondolare, indietro, avanti. Le parole di lui gli pulsavano in testa come fossero loro a dare il ritmo al cuore e al sangue: “
È stato un errore, ho sbagliato, scusa. Non c’è futuro per noi”. Lei non aveva risposto nulla. Come era solita fare. Lo guardò, si voltò e andò via, avendo l’impressione di sfaldarsi ad ogni passo, di lasciare pezzi di sé lungo la strada, di disseminare corpo sull’asfalto, brandelli di carne e sangue, come una scia.

Interactive "Rain Room" Exhibit Allows Visitors To Control Their Environment

Un inizio…
La neve scendeva ch’era un piacere. Mare grigio e bianco dappertutto. Il giorno di Pasqua. Da non credere! Il saluto del cielo al mio primo giorno di disoccupazione fu una nevicata da notizia in prima pagina: 5 Aprile neve sulle coste della Sicilia! Ed io restavo lì, imbambolata ai vetri della finestra, guardando i fiocchi imbiancare le mie prime ore di libertà e ricoprire, fino a seppellire, l’abitudine del passaggio in edicola, giornali e parole fresche che sporcano di nero le dita. Tutti i miei incarichi, in giro per il mondo, inabissati sotto quel morbido tappeto bianco, insieme ad una lettera di dimissioni scritta al volo, uno squarcio di lucidità. Una lettera di cui non ricordavo più una sola parola.
Neppure una. La sensazione si, quella la ricordavo, però. E’ stato come trovarsi in un uno spazio aperto dopo aver vissuto mille vite al chiuso. Senza aria. Sapevo che, in seguito, un seguito non troppo lontano, sarebbero arrivati i dubbi, le incertezze, quel panico sottile e crudele che attraversa i pensieri come un coltello, quando ci si chiede se si è fatta la cosa giusta. Sarebbero arrivati i pensieri cupi, il senso incerto del futuro, sarebbero arrivate le domande incalzanti e preoccupate degli amici e quelle agitate, concitate di mia madre. Ma, in quel momento, un momento da prima pagina, volevo solo restare imbambolata ai vetri a vedere la costa della Sicilia bianca di una neve rubata a cieli lontani.

Un presente vistoso e invivibile

(foto di Paola Leonardi)

(foto di Paola Leonardi)

– Io parlo parlo, – dice Marco, – ma chi m’ascolta ritiene solo le parole che aspetta. Altra è la descrizione del mondo cui tu presti benigno orecchio, altra quella che farà il giro dei capannelli di scaricatori e gondolieri sulle fondamenta di casa mia il giorno del mio ritorno, altra ancora quella che potrei dettare in tarda età, se venissi fatto prigioniero da pirati genovesi e messo in ceppi nella stessa cella con uno scrivano di romanzi d’avventura.
Chi comanda al racconto non è la voce: è l’orecchio.
– Alle volte mi pare che la tua voce mi giunga da lontano, mentre sono prigioniero d’un presente vistoso e invivibile, in cui tutte le forme di convivenza umana sono giunte a un estremo del loro ciclo e non si può immaginare quali nuove forme prenderanno. E ascolto dalla tua voce le ragioni invisibili di cui le città vivevano, e per cui forse, dopo morte, rivivranno.