Se avessi avuto, io, un cuore di cane

Foto di © Vincenza Tomasello

Foto di © Vincenza Tomasello

30 dicembre 2013 ore 7.15. Come ogni mattina ho acceso il pc e aperto le pagine dei quotidiani. Schumacher è in coma, la Russia muore di rabbia e si illude di punire i tiranni bruciando di fuoco i figli innocenti; la terra trema a Napoli, l’Etna esplode di forza sotteranea, di magma incontenibile; 151 bambini muoiono, ad Aleppo.

Tutto è lì davanti ai miei occhi, tutto è lì, troppo distante dalle mie mani. Clicco, leggo, scorro le parole, le pubblicità accendono di luci lo schermo – “Guarda noi, pensa a noi!” – sembrano dirmi. E poi, poche righe, in un angolo, senza spessore. E i miei occhi ci si schiantano, contro: “Morto per freddo un senza tetto a Palermo”. Per freddo? A Palermo? –  Mi chiedo, d’istinto –  La domanda rimbomba, eco nello spazio vuoto tra il mio corpo e il vecchio pigiama di pail ormai troppo grande, per me.

Mi inoltro tra quelle parole senza enfasi di notizia, briciole di cronaca locale che cadono giù dalla bocca affamata e vorace del mondo. Guardo la foto di quella montagna, cima irragiungibile, di coperte e cartoni. Guardo. Sembrano tutte uguali queste catene montuose agli angoli delle strade: stracci, sacchetti, cani e cartoni; senza segnaletiche per indovinare identità, la storia di chi ci vive, sotto. Questa volta, però, le coperte sono  paesaggio familiare. Io le ho viste, con gli occhi miei, non da dietro uno schermo, ma in diretta, dall’obiettivo dei miei passi frettolosi, distratti. Sono passata, io, da lì. La sera prima. Ed era tutto come nella foto. E ancora, nella foto, il cane sta lì, così, seduto ai piedi di quella catena montuosa di lana e carne, fermo, serio, come un soldato. Io sono passata, da lì.
E il passo ha rallentato, di poco. Solo il tempo per cercare gli occhi della persona accanto a me, scambiare con lui uno sguardo, triste, cercare conforto nei suoi occhi belli e poi…e poi andare, oltre.

E ora, ora cerco in modo frettoloso e disordinato, dentro di me, motivi credibili di assoluzione, mettendo tutto l’animo in disordine. Non trovo niente. Niente di credibile, nessun avvocato che mi difenda, niente che valga la vita di un uomo.

Forse era già morto. Era tutto così immobile dentro ai tornanti di quelle montagne. Forse. Ma i passi non si fermano davanti alla morte? Si. Non i miei, però. Forse era ancora vivo. E ancora lo sarebbe se avessi saputo interpretare l’indugiare dei muscoli, il frenare delle ossa dentro ai miei piedi. Se avessi ascoltato il mio corpo! Se avessi dato ascolto a quel velo che mi ha scurito gli occhi di una tristezza sapiente, umana, istintiva! Sarebbe ancora vivo. Forse.

E continuo, in modo concitato, con il fiato spezzato e gesti veloci, a cercare ragioni, scuse, perdono: Cosa potevo fare! E’ pericoloso, spesso, avvicinarsi a questa gente! Posso mica fermarmi davanti ad ogni povero? Posso mica fermarmi davanti ad ogni povero….Posso mica fermarmi…posso…ogni povero…io…non posso…ogni….non posso….ogni povero.

“Secondo una prima ricognizione sul corpo il cadavere appartiene ad un uomo di una sessantina d’anni”. Spedizione di esperti sul territorio di carne d’un uomo solo. Adesso, che sei morto, ci raduniamo attorno a te. Avvoltoi coraggiosi su corpi senza vita, uomini spaventati da barriere di cartone.

Se avessi avuto, io, un cuore di cane…

Nutrire speranza

(Foto di P. Muller)

(Foto di P. Muller)

NUTRIRE, deriva dalla radice na-, nu- = colare, stillare. Presa similitudine dal latte che sgorga dal seno della nutrice. Alimentare, mantenere, far crescere.

SPERANZA, dal latino – spes = aspirazione o anche dall’anglosassone – spuon,
– spowan = succedere. Intender con l’animo verso un bene futuro
e quindi stare in attesa di una qualche cosa desiderata.

Auguri da Eufemia.

Nuda è la strada

WP_001416Serve. A volte, serve. Riporre in un cassetto la meta, la sua ricerca, la fatica di raggiungerla, indossare il cappotto, i pantoloni di velluto che fuori è freddo, un paio di vecchie scarpe, e uscire.
Senza destinazione o scopo. Uscire. E basta. Volontaria perdita di direzione, complice magari la spossatezza per un sabato sera finito alle tre del mattino, il sonno, il mal di gola per il freddo preso sul motorino, nonostante i 25 Km all’ora. Roma la notte sottrae gente alle strade, se si va dal centro alla periferia. Si resta in pochi. E sotto casa in due, fino a tardi, perchè tanto ormai il freddo s’è già preso tutto, ma le cose da condividere non si esauriscono, mai. Forse è la speranza che l’altro possieda il pezzo mancante per intuire il soggetto del puzzle: pezzi sempre dispari tra le mani. Al freddo, stanchi senza sonno, a ragionar sull’irragionevole terrore che fa la felicità a portata di mano, con la vita e l’età che rincorrono e il fiatone a dar ritmo anomalo ai polmoni, ogni giorno. Camminare per la città, con l’ago della bussola ebbro di vino, che gira impazzito, posseduto dal desiderio di andare, ovunque. Tutte le direzioni possibili, pensando all’amico lontano, e alla sua richiesta di piedi per passeggiare Roma, senza fretta, come nei suoi anni passati. Perchè a Roma si arriva ma da Roma non si riparte mai davvero. Roma ruba pezzi: occhi, cuore, cattura pensieri, trasforma i progetti. E anche se vai via o se resti o anche se poi torni, li ritrovi tutti, i pezzi, parte del paesaggio, tra i mattoni antichi. Così è Roma, cammini, e ritrovi i pensieri in equlibrio precario, funamboli sui fili del tram, occhi fissi, come le colonne diritte dell’impero che svettano ancora dal suolo. Il cuore al tramonto, quando la città si accende,  o fra le rovine antiche, i pensieri, nei cortili dei palazzi a Trastevere. I progetti, nonostante tutto, ancora in piedi, tra le macerie nobili di Torre argentina a render affilate le unghie dei gatti.WP_001406 Roma, ruba pezzi e non li restituisce. Il cielo è terso e le strade son piene di autunno. A Roma l’autunno è invadente. Riveste tutto, alberi, marciapiedi, monumenti. Non c’è scampo. Il buio delle cinque è solo breve passaggio su ponti che si accendono di luce soffusa. Il Tevere nasconde le acque torbide e si veste di riflessi. Inganna. Attende l’inverno, per gonfiarsi minaccioso e imponente d’acqua e di neve lontana. Camminare, senza sapere dove andare e senza smarrimento, ad imboccare viicoli, costeggiare palazzi, girare angoli. Roma è insieme di angoli stretti e piazze immense, è una città priva di misura media, è troppo stretta o troppo ampia, nasconde ed espone, continuamente. Gli addobbi di Natale risvegliano la sua identità pagana e il suono delle campane le ricorda antichi innesti. Roma è tante cose opposte, tutte vive e presenti, è identità multiforme. Pochi passi per attraversare secoli. A volte si cammina con il naso in su, a cercare in alto cupole e terrazze d’edera, altre con occhi bassi a tener il ritmo delle punte dei piedi, passi veloci di fretta perché a Roma si è sempre in ritardo. Altre volte ancora si cammina con sguardo dritto, ad altezza d’uomo, per vedere il mondo venirti contro, facce di luoghi lontani e diversi, davanti, alle spalle, a Roma il mondo circonda, tutto circonda, anche la miseria. Roma è miscuglio d’umanità e cartone di letto umido, è fiato pesante di alcol sul tram, barba dura di sporcizia, stracci e occhi persi chissà dove, chissà quando, accesi di rabbia. Roma è potere e bottega, è politica e bocca di popolo sporca di sugo. Roma si vende, ogni giorno, su bancarelle colorate sotto l’occhio severo di Giordano Bruno, per coprire, oggi come ieri, con  voci di merci e mercanti, le urla di fiamme infami. Umidità sui capelli, gambe stanche, ma camminar così, senza la preoccupazione di sbagliare strada ridà forza, rinsalda i muscoli. WP_001539Ogni strada è quella giusta, è il luogo dove si vuol essere. Roma nasconde passaggi segreti, varchi, come aperture di sepolcri antichi, che evitano km sulle arterie principali, scorciatoie di vene periferiche, esse pure cariche di sangue da portare. Quando si passeggia Roma alle porte dell’inverno a sceglier la fine dei passi sono freddo e stanchezza. Basta voltarsi da qualche parte, allora, per trovare le porte di una chiesa e riposare, porte aperte, senza troppe pretese.  Accoglienza anonima di spirti randagi, fiammelle senza nome, tepore al corpo nudo di chi ha tanto camminato a mendicare incontri. Casa, è sera. Piove. La meta riposta in un angolo scalpita per essere cercata, chiama. Il tram fischia sulle rotaie e nelle orecchie note e parole per accompagnare il fluire lento e costante del ritorno.