Cappotto di feltro verde

(foto di Luis Fabini)

(foto di Luis Fabini)

Entrare in una chiesa, vicino alla stazione, in qualunque città ci si trovi, è compiere un viaggio, dalla superficie alle profondità. Sopratutto se, la domenica, si sceglie o capita, di recarsi all’ultima messa. Poco importa se sia l’ultima della mattina o l’ultima del pomeriggio. Basta che sia l’ultima. E per capire meglio la geografia di questo viaggio bisogna arrivare qualche minuto in anticipo. Giusto il tempo di assistere alla fine della celebrazione precedente. Giusto il tempo di osservare le facce giocose dei fedeli, si, quelli della messa “di punta”.

Ogni parrocchia ha la sua messa di punta. In un orario che oscilla dalle 10 alle 11.30. La messa, quella “animata”, quella con i bambini del catechismo, i giovani con le chitarre, le famiglie, i gruppi ecclesiali. La messa, quella con il prete più “moderno”, capace di tenere desta l’attenzione di grandi e piccini. E quando, disgraziatamente, la parrocchia è sfornita di preti all’avanguardia, allora si punta sul coro o sui paramenti o sull’arredo sacro. La messa di punta è quella della comunità. La messa alla quale arrivano numerosi i collaboratori del parroco, per sistemare sedie e foglietti, per accordare le chitarre, per assegnare le letture. La messa di punta, quella dove, alla fine, ci si trattiene in cortile a salutarsi, mentre i bambini scorazzano e sudano e alle bambine scivolano i primi collant che con gesto poco elegante, ancora, si riportano su, fin sopra il limite delle ascelle. La messa di punta. Quella con il canto finale, accompagnato dal battito di mani, che tira fuori l’allegria anche dai partecipanti più tristi. È la festa.

È così perfino nella chiesa vicino alla stazione. Però, di solito, per partecipare a questa messa devi appartenere a qualcuno ed essere “qualcosa” se non vuoi sentirti fuori posto: catechismo, gruppo giovani, scout, gruppo famiglie, azione cattolica. Cresimando, cresimato, post cresima. Gruppo lectio divina, gruppo liturgico. Gruppo, insomma.

L’altra messa, invece, quella di scorta, è quella per chi non ha trovato o ha già perso il proprio posto nel mondo. È la messa dei cristiani “non impegnati”. Quelli che alla domenica mattina si ricordano o decidono di andare, ma all’ultimo momento. Oggi alla messa di scorta, vicino alla stazione, eravamo in pochi. E ci siamo dovuti accontentare dell’aroma d’incenso andato in fumo copioso per chi ci aveva preceduto. Ci serva di monito per la settimana successiva: se si vuole l’incenso vero bisogna arrivare in tempo! Alla messa di scorta, vicino alla stazione, si è talmente sparuti e singoli e sperduti che ci si distribuisce tra i banchi con ordine rigoroso, in modo tale che nessuno sia troppo vicino a nessuno. Di solito è un’assemblea meticcia, miscuglio di razze e di vita. Man mano che la gente arriva a me pare di assistere ad un raduno di “incipit”. Ognuno dei presenti sembra il personaggio ideale per l’inizio di un romanzo, ciascuno di loro pare esistere grazie alle prime parole di una storia senza seguito. A pochi banchi da me un signore, cinquant’anni circa. Dalla testa ai piedi vestito in modo da passare dal grigio fumo, delle scarpe, al beige chiaro, del giubbino. Sembra uscito da una lavatrice che gli ha sequestrato i colori e che, con violenza, li tiene in ostaggio. Il suo sguardo spaventato attraversa, su e giù, tutto il perimetro della chiesa e per tutto il tempo della celebrazione non smette di borbottare qualcosa. Troppo piano per distinguerne le parole, troppo forte per non sentirne il lamento. Un secondo, neppure per un secondo ha smesso la sua cantilena dolorosa. Eroico tentativo di mantenere in vita il dialogo, di restare saldo nel dire, anche se l’interlocutore gli ha, evidentemente, voltato le spalle.

Le chiese vicine alla stazione sono contenitori senza tempo. Una signora davanti a me porta con disinvoltura jeans e giubbotto jeans e polacchine marroni, scamosciate. Come se la sua messa fosse iniziata negli anni ottanta e si fosse prolungata così a lungo da non aver avuto il tempo, negli ultimi trent’anni, di tornare a casa a cambiarsi. E poi, poi l’anziano in carrozzina, spinto dalla badante straniera con i capelli di un rosso fuori natura. Una coppia di giovani latinos, una donna sempre con gli occhiali da sole sul naso. E le signore anziane, quelle che hanno i capelli corti nè lisci nè ricci, senza un filo fuori posto. Perfettamente ondulati, come lo sono le vaschette di gelato quando si strappa via la pellicola. E ancora, la donna di mezz’età, con cinque/sei centimetri di ricrescita bianca sui capelli scuri, come un bambino che preme troppo il pennerallo sul foglio facendolo asciugare, prima di aver riempito la sagoma del disegno. L’uomo tatuato, il barbone, un professore che puzza di sigaro. La ragazza madre, la vedova, un anziano con la stampella. E me.

A celebrare le messe di scorta sono quasi sempre i preti stranieri, quelli con l’italiano inquilino abusivo sulla lingua. L’assemblea dell’ultima messa è la loro scuola. E s’ impegnano, difatti. Scandiscono le parole con cura. Cadono sulle doppie, ma si rialzano, orgogliosi, facendo leva sull’intonazione, per dare forza alle parole prive di chiarezza. Alla messa di scorta non c’è il coro, ma un “tutto fare”. Prepara l’offertorio, proclama le letture, cerca con cura fra i presenti le facce rassicuranti per affidar loro i cestini delle offerte. Conosce a memoria il numero dei canti nel libretto. E, nella chiesa quasi deserta, canta con impegno godendosi un momento di gloria impensabile da realizzare alla messa di punta.

Nessuno conosce nessuno. E, quasi sempre si è troppo lontani per scambiarsi il segno della pace. Ma, a volte, accade di sbagliare il calcolo della distanza. E quando capita si sente, sotto le dita, la pelle della messa di scorta. È ruvida e callosa. È sudicia e tremante. Verso la fine, rileggo con lo sguardo tutti i personaggi. E capisco di avere addosso ancora troppo forte il profumo d’incenso delle mie passate messe di punta, troppo per condividere una storia senza seguito.

Alla messa di scorta si attua una strana mescolanza tra miseria e poesia, tra solitudine, fallimento e forza. Però, proprio mentre l’anziana dal cappotto di feltro verde trascina le sue buste sporche e ne tira fuori una rosa, omaggio alla statua immacolata della Vergine, allora, viene da pensare che quel canto senza musica, intonato malamente all’inizio, con le vocali aperte e le note in disordine, possieda davvero una segreta speranza, anche per l’ultima messa: “…tutta la storia Ti darà onore e vittoria”.

7 pensieri su “Cappotto di feltro verde

  1. Perché cosa c’è dietro l’apparenza, dietro il vestito? Non si sa. “Persona” è la maschera dell’attore, quella rigida che, quando non esisteva ancora il microfono, si usava per amplificare la voce, per farla “per-sonare”, risuonare attraverso. E quei panni sbiaditi, quelle mani ruvide, fanno risuonare una voce silenziosa, timida, una voce che non si sente se non quando ripete una cantilena incomprensibile. La persona allora si nasconde come una perla, insospettabile tra le oscure valve di un’ostrica. Forse non ci sono più i sogni giovanili a spalancare quelle valve, forse non c’è più la speranza, forse quelle perle sono fiorite come “margaritas” e bisogna proteggerle. Chissà se fra loro qualcuna si chiamava proprio Margherita.
    A volte la speranza cede il passo al desiderio: e il cielo si popola di nuovo di stelle.

  2. c’è un piccolo errore di battitura nel testo
    ve lo voglio segnalare
    “L’altra messa, invece, quella di scorta, è quella per chi non ha trovato o a già perso il proprio posto nel mondo.”

    Molto bello questo testo, coinvolgente.
    Al mattino, riuscire a completare una lettura non è usuale, bombardati come siamo da mille cose.
    Grazie.

  3. Le vertigini mi impediscono di fermarmi ancora sul tuo scritto.
    Rimango quasi sgomenta ( sarà la vertigine ) scorrendo la tua eccezionale descrizione di una messa di scorta nella quale mi son trovata anch’io coinvolta : Giulia , hai nsuperato te stessa, antonella