Quell’affiorare di speranze

(Anna Maria Ortese)

(Anna Maria Ortese)

Cara Anna Maria,
tra pochi giorni avrà le bozze del suo libro. Stia allegra: lei ha scritto un libro bellissimo, dovrebbe ridere e cantare tutto il giorno, per un anno di seguito, almeno! Se no, a cosa serve scrivere bei libri?
(da una Lettera di Italo Calvino ad Anna Maria Ortese)

Anastasia dovette andare in camera sua a prendere un fazzoletto.
Aveva il cuore delicato come le corde di un violino, quel giorno, e a sfiorarlo suonava.
Piangeva, non tanto di pietà per la defunta, che conosceva e apprezzava, quanto di dolcezza di fronte a questa vita, che si presentava così strana e profonda, quale mai l’aveva veduta, piena di sonorità ed emozione. Era come se avesse bevuto due o tre bicchieri di vino insieme, da qualche ora: tutto era così nuovo, così intenso nella sua semplicità quotidiana. Mai, mai si era accorta che visi e che voci avessero la madre, i fratelli, la gente. Per questo i suoi occhi erano pieni di lacrime: non perchè donn’Amelia fosse stesa sul letto di morte, bianca in faccia e mite com’era sempre stata, ma perchè in questa vita c’erano tante cose, c’erano la vita e la morte, i sospiri della carne e le disperazioni, le tavole imbandite e l’oscuro lavoro, le campane di Natale e le colline tranquille di Poggioreale. Perchè, mentre si accendevano le candele, a un kilomentro di distanza c’era il porto, con la nave di Antonio all’ancora, e Antonio stesso, che tanto le era stato caro, a quest’ora sedeva a tavola, in mezzo ai suoi parenti, pensando chissà chi e che cosa. E a un tratto si accorse che, in mezzo, a tante emozioni, il suo pensiero più profondo era tornato calmo, freddo, inerte, come sempre era stato, e di Antonio e della vita stessa più nulla le importava.

Non si domandò perchè fosse questo. Sedé ancora, come la mattina, sul letto, e guardando tranquillamente i particolari più disadorni e noti della stanza – quelle sedie, quei vecchi quadri, i ramoscelli secchi d’ulivo sul bianco dei muri – andava pensando come sarebbe stata la sua esistenza da qui a vent’anni.
Si vide ancora in questa casa (non vide il proprio viso), sentì il suono appena irritato della sua voce chiamare i nipoti. Tutto sarebbe stato come oggi, in quel Natale fra vent’anni. Solo le figure, cambiate. Ma che differenza c’era? Si chiamavano ancora Anna, Eduardo, Petrillo, avevano le stesse facce fredde, prive di vita e di gioia. Erano gli stessi, anche se in realtà erano cambiati. La vita nella loro razza non produceva che questo: un rumore fioco.

Stupì, ricordando la grande festa della mattina, quell’affiorare di speranze, di voci. Un sogno, era stato, non c’era più nulla. Non per questo la vita poteva dirsi peggiore. La vita…era una cosa strana, la vita. Ogni tanto sembrava di capire che fosse, e poi, tac, si dimenticava, tornava il sonno.

                                                              (da Il mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese)