La possibilità, la competenza (ovvero della vita e della morte)

("Il metafisico", opera di Elisa Nicolaci)

(“Il metafisico”, opera di Elisa Nicolaci)

Quando ero bambina non mi sfiorava l’idea che la “festa dei morti” fosse una contraddizione in termini. Perché la vivevo veramente come una festa ed intorno a me vedevo colori, luci, regali. I morti stavano sullo sfondo, anche se la visita obbligata ad un cimitero di provincia non mi lasciava indifferente. Il nonno lo conoscevo solo grazie a quella foto in bianco e nero da cui mi guardava austero, ma dolce. Poi c’era la zia Maria da visitare, che però la foto ce l’aveva a colori e poi c’erano i morti sconosciuti, giovani, vecchi, bambini perfino, di cui immaginavo la storia e incredibili avventure per tirarli fuori da quell’oblio che le tombe abbandonate mi suggerivano.

Oggi, seppur sia ancora forte e felice la memoria dell’infanzia, “la festa dei morti”, mi pare un ossimoro troppo difficile da accettare. Sarà che crescendo la morte si palesa in forme più o meno aggressive e personali, sarà che il persistere nella vita, la morte la mostra presente in mille piccole cose, se la si vuol ri-conoscere e vedere.

Certo fra gli uomini c’è chi la patisce da sempre, in forma violenta e carica di ingiustizia, perché è vero, inesorabilmente vero, che non è egualmente distribuita  la sua presenza tra le creature umane. E poi, non è soltanto il corpo a subirla, ma spesso è l’animo a farne le spese in modo più drammatico. Molte volte, corpo o animo che sia, viene inferta dall’esterno, altre germina da dentro e non si fa estirpare. Almeno così pare. E’ un po’ come la parabola del grano e della zizzania raccontata nei vangeli: vita e morte crescono insieme e non si possono separare se non rischiando di estirpare insieme alla morte la vita stessa.

Così accade durante le lunghe malattie, quelle che accompagnano per anni, che riempiono le giornate della stessa fatica per un tempo illimitato facendo attraversare giorno dopo giorno lo stesso calvario oramai battuto come una strada maestra.

E così, credo, sia il sopraggiungere della vecchiaia, sentirla nel corpo prima che nell’anima e opporre resistenza per istinto alla direzione forzata, fino a quando non vince la sapienza dell’accettazione o la disperazione del rifiuto.

Quel che però io oggi vedo, sospesa tra la più potente esperienza di vita e la fatica enorme della malattia, è che avanzare nell’esistenza comporta di fatto una perdita e un guadagno.
Quel che si va perdendo è il bagaglio di potenzialità che sono insite nel corpo, nella giovinezza e nel tempo, lungo e disteso dinnanzi a sé. La possibilità di non fare, di rimandare a domani, di distruggere e ricostruire, di lasciare a metà, di farsi sfuggire le occasioni, la possibilità di scelte acerbe tutte da recuperare.
Quel che si va guadagnando è, invece, l’abilità. La capacità cioè e la competenza per affrontare la vita, carica del suo passato, impegnativa nel presente e sempre più stretta di futuro. La capacità di riprendersi dal lutto e dal dolore, di affrontare gli ostacoli, di relazionarsi dosando aperture e difese, la competenza nella risoluzione dei problemi e dell’esperienza come bussola d’orientamento, l’abilità di riconoscere la gioia e di godere di momenti felici per quanto circoscritti e privi di perfezione e assolutezza, la capacità di lasciar andare sogni, affetti, persone…

Non lo so se questo è vero in generale, ma certamente è vero per me, che non “festeggio” più i morti, anzi che la morte la detesto, pur accettandola ogni giorno, così come si presenta, nella mia esperienza, nell’esperienza altrui, attorno a me, lontana  o vicina che sia. Esorcizzarla o rinnegarla è la più inutile delle illusioni. Mi pare. Tenerla presente costantemente e crederla preponderante rispetto alla vita e alla sua svariata sapienza, il più inutile dispendio di energie.

Forse il solo modo di mantenere insieme quel che si perde e quel che si guadagna, la potenzialità della vita da una parte e la capacità di viverla, dall’altra, è dosare la ribellione che la morte provoca con la sua oscenità di dolore e di fine di ogni cosa con l’integrazione nella vita della sua presenza, che, volente o nolente, c’è e ci interpella oggi e poi ancora e ancora e ancora.

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