Aria

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L’aria di alcuni luoghi è sottile e morbida, fine. Sono posti lontani dalla città, con orizzonti ampi, l’erba e gli alberi. Il corpo si trasforma tutto, l’aria buona si sente sulla pelle, nelle narici, negli occhi e fra i capelli. E nel cuore ovviamente. Quello fisico ne giova per l’ossigeno, quello metaforico per i colori, il silenzio, gli spazi, il rallentare del tempo.

Sono scesa dall’auto e mi sono sentita felice, una felicità tutta corporea, cellulare, genuina e ho subito percepito i rumori dei miei passi. In città i passi sono muti, la gomma sull’asfalto è un cammino senza voce. Ma appena messo piede per terra, in questo posto dall’aria morbida, ho sentito subito il brusio della ghiaia che segnalava a tutti la mia presenza. Il sole era ancora molto alto e picchiava forte, ma non avevo caldo, avevo solo fretta di rimontare a cavallo, dopo più di un anno.

La prima volta che sono salita su un cavallo avevo sette anni. Si chiamava “Indiana” ed era scura con una macchia bianca sulla fronte. Per tutta un’estate, in assoluto la più felice della mia vita, io e Indiana abbiamo imparato a conoscerci. Parlavo poco quand’ero bambina e ed ero a mio agio in questa comunicazione non verbale con lei. I cavalli, ma forse tutti gli animali, sentono, percepiscono i pensieri e i sentimenti. Indiana era una cavalla allegra e gentile, riconosceva il mio odore di bambina e a me piaceva poggiare la mia fronte sulla sua fino a quando lo stalliere non la sellava per me. Ho imparato a tenere le redini, a farla partire, a fermarla e poi, pian piano, ho imparato ad ascoltarla: il fastidio delle mosche, il mal di pancia, un po’ di nervosismo. Per calmarla poggiavo la mia mano sul suo collo. Una mano piccola e ferma che riusciva a far star buona una cavalla di 400 kg. Le mani sono un prodigio.

Ma adesso non avevo più sette anni e la cavalla di fronte a me non la conoscevo affatto. Si chiamava Lule, che in albanese vuol dire “fiore”. L’ho accarezzata, chiedendomi se soltanto le mani dei bambini hanno potere di donare calma agli esseri viventi muti o se potesse sentire attraverso le mie dita di adulta quanto fossi emozionata e felice e quanto speravo che tanta felicità raggiungesse chi mi stava vicino.

Ho fatto con lei una lunga passeggiata nel bosco, fino al lago. Il bosco era fresco e i rami più bassi degli alberi mi salutavano graffiandomi le braccia o lasciando penzolare le loro foglie sulle mie labbra. In groppa al cavallo non è permesso essere rigidi, perché ci si fa male. Il corpo deve restare morbido, adattarsi all’andamento, abbandonare ogni durezza e asperità, aprirsi, come un frutto, come un fiore al sole, muoversi all’unisono con l’animale, in comunione, piegarsi un po’ in avanti nelle salite e un po’ indietro nelle discese. Lì su ci si sente e si è molto in alto e ogni cambiamento di passo chiama all’azione l’equilibrio e la concentrazione, non c’è spazio per altri pensieri, si è interi, senza fratture interne.

“Il cavallo non deve sentire la paura”, mi diceva l’accompagnatrice, ma io non avevo nessuna paura. Stringevo le gambe sentendo sulla caviglia scoperta il calore della sua pancia. Mi sembrava il posto più sicuro al mondo. Ero viva, su una bestia calda e viva così come lo era tutto intorno a me: la luce, il verde brillante dell’erba lì dove le acque del lago si erano appena ritirate, il cielo, gli alberi, gli uccelli, le mosche, le cicali e le zanzare. Non che la natura non conosca la morte, la contiene spesso ferocemente, ma quando è il momento della vita l’ambiente ne diviene stracolmo, è ovunque, è in eccesso. Durante la passeggiata, l’istruttrice mi ha detto che Lule aveva una puledrina, nata qualche tempo fa e concepita in una notte d’inverno, quando lo stallone forzando i cancelli del suo recinto e annusando nell’aria l’estro di lei, l’ha cercata e raggiunta, riuscendo ad aprire il box di Lule, chiuso da ben due fermaporta di ferro. Nessuno poteva avere certezza di cosa fosse successo, ma al riparo dagli occhi di tutti Lule era già madre. Una sera dell’autunno successivo, dopo undici mesi d’attesa, Lule sembrava tranquilla. Lo era anche la mattina seguente, ma accanto a lei c’era la sua puledra. Aveva fatto tutto da sola: le doglie, il travaglio, il parto. Soltanto lei, la sua creatura da far nascere, il corpo che sapeva esattamente cosa fare, l’accadimento dei primordi che si compiva di nuovo in quella notte come già era avvenuto milioni di altre volte nei secoli, ovunque nel mondo, per ogni mammifero della terra. Il racconto di questa sapienza istintiva mi ha emozionata moltissimo e l’ho accarezzata come a ringraziarla per quella forza vitale non ostacolata dalle paure e dagli inganni degli uomini. Mi stava insegnando molte cose.

Mentre cavalcavo ogni tanto alzavo lo sguardo verso le chiome dei pioppi. I pioppi sono alberi straordinari perché danzano e cantano. Attraversate dal vento le loro foglie si muovono una ad una, ciascuna in una direzione differente, producendo un sibilo unico, come il suono di un cembalo, come un incantesimo.

Non riesco ad immaginare in altro modo, oggi, il manifestarsi della grazia, l’audacia della vita.

Solo se riusciremo a guardare l’Universo come un tutt’uno in cui ogni parte riflette la totalità e in cui la grande bellezza sta nella diversità cominceremo a capire chi siamo e dove stiamo.

Tiziano Terzani

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