Una scoperta

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Sono alla finestra di una casa di campagna, piove. Piove sull’erba secca e calda, su strade senza asfalto né traffico né via vai di persone. Piove con gocce pesanti d’acqua, che fanno tremare le foglie ad ogni colpo e che battono la terra con decisione. Il silenzio è quasi assoluto. Forse questo contesto fa da sfondo e contrasto perfetto ad un articolo letto oggi sul Corriere, uno scritto inedito di Fernanda Pivano su New York, uno scritto lucido e amarissimo (http://www.corriere.it/cultura/17_luglio_14/fernanda-pivano-testo-inedito-bompiani-7b663a7e-68aa-11e7-a661-7b83dfae73a6.shtml) che mi ha fatto pensare a molte cose.

Di tutto l’articolo il passaggio che ha scatenato il mio piccolo temporale interiore è stato questo: Dal lato di Wall Street, dal lato dove si estendono i villages, il sole sta battendo contro i grattacieli di banche e della Borsa e da qua sembrano veramente dei mostri, come lo sono in realtà. Mostri tenutari delle anime di tutta questa gente pigiata in questi enormi edifici. Oppure queste abitazioni qui sotto, non più palazzi di uffici, ma sempre con la gente incassata in piccole celle da alveari. È un’immagine consumata finché si vuole, però è difficile trovarne un’altra se non la si vuole sostituire con quella delle celle delle prigioni. Se si vuole si potrebbe pensare alle celle degli antichi monaci, ma qui c’è poco di ascetico. Qui c’è una specie di sacrificio della vita umana fatto per un egoismo tale che non ha neanche una giustificazione, non ha neanche in sé una possibilità di riscatto. Se si vuole una cosa sbagliata come il denaro e il potere, si ha quello che si merita: la distruzione della propria anima dentro a queste celle, sicché casomai è un ascetismo pagato a caro prezzo, non raggiunto come un premio… Ma in questo momento nessuno immaginerebbe che questi muri quasi disfatti da questa luce rosata possano nascondere gli orrori, la fame, le insidie, le manipolazioni.

A desiderare, purtroppo, non ce lo insegna nessuno. E’ assurdo se si pensa che intorno a ciò che desideriamo si muove l’intera nostra vita. Certamente nel desiderio esiste qualcosa di istintivo, di primordiale, ma il resto s’impara, perché l’essere umani, l’essere se stessi non è affatto un sapere innato, va scoperto, imparato, con immensa fatica e tenace pazienza.

Le conseguenze dei desideri sbagliati, non veramente nostri, indotti, forzati sono devastanti. Questi provocano una serie di ferite che si diffondono come epidemia attraverso i nostri contatti, le relazioni, le cose che facciamo e perfino quelle che evitiamo.
E non mi riferisco soltanto ai soldi e al potere e a tutte le loro ramificazioni, mi riferisco ai desideri legati all’idea che ci siamo fatti di noi stessi o alla confusione che abbiamo su noi stessi, ai desideri legati alle aspettative degli altri su di noi o a quanto noi vorremmo testardamente per la nostra realizzazione.

Non abbiamo la pazienza dell’attesa necessaria a capire se il desiderio che percepiamo abbia veramente a che fare con quel che siamo. E’ la fretta di determinarsi, è il bisogno di potersi e sapersi definire, il più delle volte rispetto al mondo che ci circonda. Avere una serie di cose o fare una serie di cose, appunto ben definite, ci permette di stare davanti agli altri con una certa sicurezza. Ma se quelle cose che facciamo, abbiamo e siamo non c’entrassero con noi? Se soddisfanno una serie di criteri definiti da altri, ma in verità ci fossero profondamente estranei?

Non lo so.

Quel che però intuisco è che legare la propria personale identità a sogni o progetti dai contorni tracciati fa di noi degli schiavi. E ci si sente persi, falliti e insoddisfatti se questo sogno tarda a realizzarsi, se questo o quel progetto incontra troppi ostacoli e perde di forza o di senso nel tempo o se tutto crolla all’improvviso.

Forse l’identità non è una definizione, è un processo. E nel processo tutto è mutevole. E i desideri dovrebbero mutare con noi, come se la cosa più importante, in fondo, fosse desiderare e non realizzare. Anzi, meglio, come se la cosa più importante fosse iniziare a costruire qualcosa, sulla base di quel che vogliamo, che poi, alla fine, possa essere perfino totalmente diversa dall’idea che ci eravamo fatti in partenza, ma che pure ci sembri bellissima e corrispondente, aderente e calzante al nostro divenire. Come se la realizzazione del nostro desiderio, nostro sul serio però, istintivo, consapevole  potesse essere, alla fin fine, uno svelamento, una scoperta.