Corpo a corpo

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Allatto da quattro mesi e quindici giorni.
Allatto di giorno e di notte, col fresco e col caldo, col sorriso e nel pianto, se sto bene o se sto male.

All’inizio il mio bimbo non sapeva ciucciare. Ma ha imparato, mentre piangevamo insieme, lui di fame, io di un amore che non volevo perdere.
Ha imparato, aprendo la bocca grande che sembrava un uccellino. Bocca grande ed occhi chiusi.
E così dal 4 aprile non faccio altro che questo: allattare.

A volte mio figlio si attacca al seno perché è stanco o ha sonno o ha desiderio di stare con la sua mamma. Così ho compreso che la fame non riguarda solo le viscere.
E, poi, un’altra cosa ho capito allattando: che il dualismo non esiste. Bene, male, giusto, sbagliato, bello, brutto…Noi umani siamo tutti immischiati con tutto. E, infatti, allattare è bellissimo ed è terribile. Bellissimo come il più tenero dei sentimenti, la più selvaggia sensazione d’esser viva, il più sano degli istinti. Terribile come una stanchezza feroce, come i pianti di disperazione per il sonno che corrode il cervello e che fa dire ogni mattino: io non ce la faccio più.
Tutto mischiato, come il corpo del mio bambino su di me e l’odore acre del sudore e quello dolciastro del latte, il profumo della sua pelle nuova e quello pungente della pipì. Mischiato, come i rigurgiti sul materasso e la cacca fuori dal pannolino alle quattro del mattino. Come la gioia mischiata alla stanchezza e lo stupore allo sconforto.

Allatto da quattro mesi e quindici giorni. Il peso del mio bambino è più che raddoppiato ed io lo guardo e so che le sue cosce sono il mio latte, lo sono i suoi piedi e le sue mani, prima ferme e ora frenetiche, che mi carezzano il seno o lo afferrano per tenerlo in bocca stretto lasciandomi sulla pelle con le unghiette affilate dei cuccioli i segni della più intima e antica delle relazioni. Il mio latte sono i suoi occhi e il suo sorriso, quando si stacca un attimo per guardarmi e un rivolo di latte dalla bocca cola sulla guancia a zig zag.

Non appena la fame è saziata sul capezzolo ci poggia la faccia e dorme e affonda il naso dentro al seno. Quando posso lo lascio dormire così e dormo anche io e poi tra le mani gli trovo i miei capelli o le briciole del pane mangiato tenendolo addosso. A volte respiriamo all’unisono a volte a me manca il respiro perché il mio corpo è tutto nuovo e mi ci perdo dentro cercando una nuova strada. Quando è lui ad aver paura io faccio respiri profondi e lunghi e lui va su e giù sulla mia pancia e si placa. Ed io con lui.

Succhia il mio latte e succhia la mia malinconia, insieme al parmigiano che divoro, insieme ai miei desideri, alle paure, le ferite, le medicine, i ricordi. Fa un pasto completo di me. E il suo corpo mischia lui a me e a suo padre, ancora, anche fuori dall’utero, in una combinazione sconosciuta che la vita intera non basterà a scoprire.

La notte  dorme se gli alito addosso, come il bue e l’asinello, dormiamo poco e corpo a corpo. Cerca il seno, si attacca, dorme, si stacca, scalcia, lo riprende, si sveglia, mangia, piange, si gira, mi graffia, sorride, mi cerca, ri-dorme, ri-mangia, mi guarda.

Allatto da quattro mesi e quindici giorni e ho capito che anche per l’allattamento come per la gravidanza esiste un racconto edulcorato a misura di commercio, che ci vuole ordinate, composte e riservate, profumate di colonia, sorridenti e pettinate.

Perché spettinate e sudate coi seni all’aria, le occhiaie stanche, gli occhi lucidi e ogni imperfezione alla luce non corrispondiamo a nessun immaginario.

Che l’allattamento possa essere un’esperienza feroce lo s’impara sul campo. Ed è difficile accettare che sia così. Eppure, questo campo di vita e di battaglia, solcato da notti insonni e nuove solitudini è il solo posto dove desidero dimorare.

Lì cresce l’amore che il mio bimbo ha portato e cresce mio figlio. Lì cresco io, cresce la persona che non smette di venire alla luce nonostante lo strazio della stanchezza. Perché si può dire di essere stanche fino a vomitare senza contraddire la felicità. Si può dire che è difficile e che si soffre a vedersi diverse da come ci si era immaginate, ma che quel che si scopre è pulito come acqua di fonte.

Ogni mamma fa le sue scelte su come allattare e nutrire il suo bambino ed ogni scelta ha in se stessa tutto l’amore necessario perché il bimbo possa crescere sano e felice.

Io ho fatto la mia di scelta, e so che sono libera di trasformarla in qualunque momento senza che nessun giudizio o consiglio debba  dilaniare il cuore. Ma intanto, per trovare la forza che mi serve ogni notte quando lui mangia ed io vorrei solo dormire, lo bacio sulla testa, sulle guance, sulla bocca e prego sussurrando: Il tuo corpo non se ne dimentichi mai, resti benedetto per sempre da questi baci, da questo amore, da questa fatica. Il mio latte ti renda forte e il tuo corpo sia colmo di grazia e di ogni tenerezza. La vita sia abbondante in ogni tuo gesto come lo è il latte nel mio seno e sentiti libero d’esser debole, come mi sento io notte dopo notte, e la tua vita che cresce mi riempia di  tanto tanto coraggio. Così sia.

Questa è la mia esperienza, fino ad oggi: quattro mesi e quindici giorni.

Adesso, la vita.

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Non ho smesso di scrivere solo perché non ho più un minuto di tempo per me e se ce l’ho, dormo. Ho smesso anche perché sento di non avere al momento nulla da dire  come prima.

Mio figlio mi ha resa muta.

Adesso la vita si svolge sul piano del sentire e dell’agire, sopratutto: di minuto in minuto percepire cosa bisogna fare e farlo.
Ci vuole forza fisica, è una prova di resistenza. Forza e nervi flessibili, così come richiede la vita che cresce.

È un allenamento spietato, spesso dolce, fatto di latte che fuoriesce dal seno e macchia le magliette, fatto di occhiaie e lacrime sotto la doccia, fatto di smarrimento e di momenti imperfetti e felici.
I vestiti di prima non vanno, servono scollature buone a nutrire ovunque e a qualsiasi ora e sorrido di quelli che per farmi un complimento mi dicono d’esser magra “come prima”, perché in me non vi è neppure una fibra uguale a prima.

Io non ho la forma che avevo e neppure sento di corrispondere alla forma di mamma. Ognuna è madre a modo suo, credo, con la propria felicità indicibile e la propria ferita da rimarginare.

Esiste un’idea di maternità a cui si fa riferimento che con la realtà dell’esperienza c’entra poco. È costruita. Ma la maternità non è una costruzione, un prodotto che può esser progettato a tavolino, è corpo che s’impone, è una gioia incisa nella carne anche quando sembra che tutto vada a scatafascio. È un sentiero obbligato che si percorre, però, a modo proprio dove ci si può incontrare con altre donne se si è disposte a rivedersi in esperienze simili e a non ritrovarsi ma ad accogliere storie diverse. Dovremmo esser capaci di creare una rete sociale di solidarietà e mutuo aiuto, capaci anche di immaginare e costruire un mondo diverso. Noi possiamo. Messe a nudo davanti a noi stesse e dopo un faccia a faccia tanto intenso con la vita e con la morte, noi possiamo, se abbiamo la pazienza e l’audacia di abitare tutto quel che proviamo e non diventare le madri che gli altri si aspettano o che l’immaginario comune impone.

C’è troppa meraviglia nello sguardo dei nostri bimbi nello scoprire il mondo, per non tentare almeno di viverlo in modo nuovo.

Per questo sento che le mie parole sono e vogliono essere differenti. Cercano di dar voce al desiderio che ho di far emergere la trasformazione e di comprenderla man mano che ininterrotta continua ad accadere. Tutto è più scarno, breve, forte, vero.

E in questo laboratorio esistenziale anche “Eufemia”, inevitabilmente, è alle prese con la sua metamorfosi.

MAdRI

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MAdRi è un laboratorio creativo sulla maternità. Anzi no, MAdRI è un laboratorio creativo sulla nascita. Anzi no, MAdRi è un laboratorio creativo sulla nascita, sulla maternità e sul valore dell’esperienza.
Ieri pomeriggio MadRI si è svolto a Palermo, presso la sede di Di.A.Ri.A (http://www.diariapalermo.org/), un’associazione d’Arte, Ricerca e Azione in collaborazione con il “Piccolo teatro patafisico” (http://www.piccoloteatropatafisico.it/)
Il laboratorio è stato condotto da Gina Bruno, una giovane donna, molto dolce e molto brava che fin dai primi minuti è riuscita a placare il tumulto degli ultimi dubbi che mi portavo dentro riguardo alla mia presenza lì.

Attorno alla maternità ruotano una costellazione di luoghi comuni, falsi miti, stereotipi e aspettative in parte deluse e in parte, poi, ampiamente superate. La verità è che l’esperienza ad essa legata è un esperienza senza eguali, che non si ripropone simile a se stessa qualora la si vivesse più di una volta, che somiglia a quelle di altre donne solo in piccoli pezzettini di storia e che è strettamente legata a tutta la vita della donna che si trova a farne esperienza, a partire dalla sua propria nascita.
E’ strano trovarsi a riflettere tanto intensamente su un evento che per ciascuno di noi è privo di memoria personale. Tutti veniamo a contatto con la nostra nascita soltanto attraverso una memoria mediata, quella dei genitori, di nonne, di zii o sorelle e fratelli maggiori. Eppure quel che MAdRI permette di scoprire è che gli eventi della propria nascita si portano impressi nel corpo in modo indelebile, una chiave interpretativa per comprendere chi siamo e di cosa è fatto il nostro mondo interiore.

La cosa bella è che non è apparentemente accaduto nulla di particolare per riuscire a capire tutto questo, se non il farci narratrici delle nostre storie. Gina è stata molto brava a creare un’atmosfera serena e di grande libertà, poi, ciascuna con la propria esperienza si è messa prima in ascolto e poi in gioco per condividere con le altre la storia di nascita e maternità. Abbiamo lavorato con le mani, abbiamo scritto, abbiamo cantato, abbiamo raccontato. Le esperienze di parto completamente positive sono poche, ed è bello ascoltarle: sono armoniche, fanno bene al cuore. Poi ci sono quelle che “nonostante tutto è stato una bella esperienza” e poi ci sono quelle drammatiche, da capire, elaborare, accettare. Per tutte esiste però una costante: l’ospedalizzazione della gravidanza lascia dietro di sé piccole o grandi ferite tutte da rimarginare. Certo, l’ospedale ha salvato e salva molte vite, non è questo il punto. Semmai quel che chiedono le donne è che gli ambienti, le condizioni, il personale, la degenza siano adatti ad uno degli eventi più straordinari e delicati della loro vita.

A me ha fatto impressione ascoltare le storie delle donne presenti: i loro racconti e le loro lacrime mi risuonavano nella pancia e nel cuore e mi è parso insostenibile il pensiero che quelle piccole grandi ferite date dal venire “assistite”  senza essere spesso realmente guardate, dalla solitudine, dalle luci sparate in faccia, da una posizione innaturale, dalla difficoltà di restare a contatto con il proprio corpo in mezzo a confusione, rumori, tensioni, fossero da moltiplicare per un numero veramente enorme di donne.
E’ stato molto emozionante sentire tutta la fatica nelle loro parole che uscivano a volte fluide e abbondanti come le acque che si rompono al tempo opportuno, a volte lente e sofferte come contrazioni dolorose. Ed è stato emozionante sentire che anche per me era così, lo stesso seppur diverso, ma ugualmente intenso.
La vita e la morte in atto nello stesso momento che rendono il corpo estremo e potente,
i sogni e le aspettative che si incontrano con la realtà e che sono costretti a mutare, spesso bruscamente, per stare a passo con la vita che certe volte capita proprio come vuole, senza riguardo per nessuno.

Le donne possiedono davvero una straordinaria capacità di fare rete, di creare attorno a se stesse e alle altre una sorta di protezione dentro alla quale l’altra può esprimersi con tutta la forza della propria originalità. Ma è una capacità che va riconquistata con piccole ed audaci azioni coraggiose. Si dovrebbe di nuovo uscire dalle proprie case, come in passato, per ritrovare spazi comuni di condivisione delle esperienze, di trasmissione di quella sapienza che il corpo possiede e sa donare, luoghi nei quali si possa mettere in campo la propria vita per quanto sofferta e bizzarra che sia, luoghi nei quali si possa esistere senza l’angoscia di cosa non si può o non si deve essere.

Se potete portare MAdRI nelle vostre città, fatelo. E’ un’esperienza forte e delicata grazie alla quale vengono alla luce molte e fondamentali cose, si gode del conforto che viene dalla comprensione e dall’ascolto e ci si spinge a sognare quel che il corpo sa e desidera molto oltre i modelli che portiamo addosso. MAdRI è come un viaggio, che ha assoluta e piena legittimità d’essere compiuto.