Attesa

Ero contenta di poter partire. Che la meta fosse Madrid mi importava poco. Quello che contava era trascorrere tre giorni lontana da tutto insieme al mio ragazzo: poco più di vent’anni, molti sogni nella testa e l’emozione per il mio primo rossetto rosso in tasca.

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Eravamo giovani, squattrinati e innamorati così come sapevamo esserlo allora, così come potevamo esserlo per le cose che la vita ci aveva insegnato fino a quel momento.

L’albergo era vicinissimo a Puerta del Sol, ma minuscolo. Ricordo che doveva abbassarsi, lui, per passare dalla porta del bagno, perché era il ragazzo più gigantesco e buono e malinconico che avessi mai incontrato. Ed era anche molto bello, secondo me.

Puerta del Sol, Madrid.

Puerta del Sol, Madrid.

Madrid fredda e caotica, con la gente che restava per strada fino a notte inoltrata. Abbiamo passeggiato a lungo, mangiato schifezze e immaginato il futuro, abbiamo parlato, molto, ci siam detti tutte le parole che poi, invece, avremmo purtroppo cominciato a tenere per noi ed abbiamo dormito vicini come solo a vent’anni si sa fare. Ci siamo emozionati, ci siamo cercati, invano qualche volta, come accade tra gli esseri umani. Siamo stati molto in silenzio. Ci piaceva, sembrava importante.

Entrati al museo del Prado abbiamo lasciato gli zaini alla reception e preso una piantina per essere sicuri di non perderci. Riuscire a vedere tutto, con il tempo che avevamo a disposizione, era impossibile. Abbiamo vagato a zonzo, senza sapere cosa stavamo cercando. Devo essere sincera, io non ricordo nulla di quella visita, nulla tranne una cosa: Il Cristo crocifisso di Diego Velasquez. Lo avevo visto riprodotto infinite volte ed infinite volte non mi era piaciuto. Mi sembrava un’immagine “scontata”, uno dei tanti poveri cristi che pendono da milioni e milioni di croci ovunque nel mondo. Ma quella mattina, all’improvviso, mi fu chiarissima la differenza che esiste tra una riproduzione e un’opera originale. Era…incredibile.

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La tela mi parve molto, molto  grande e il nero del fondo la cosa più buia che il mio sguardo avesse mai percepito. Il bianco del corpo fa si che Gesù sembri venir fuori dal quadro. Si ha l’impressione che dalla croce il corpo stia per piombarti addosso. E’ come se avesse un volume, come se si potesse mettergli un braccio attorno, per sostenerlo.

Ma non lo si può sostenere, invece. Né il corpo né il volto. Ebbi l’istinto di scostargli dal viso la ciocca di capelli che lo ricopre per metà. Gesù in quel quadro è un uomo bellissimo e questo rende la morte che tutto lo afferra, insopportabile. Osservando quel volto si desidera di vederlo sorridere, di vederlo riprendere colore, di poterlo guardare negli occhi, di sentirlo parlare, di riaverlo vivo.

Il sangue è appena accennato. Come se quell’uomo non avesse patito la violenza delle percosse, dello scherno, del tradimento da parte dei suoi, del peso della croce. E’ un dolore tutto interiore, il corpo non fa che dirne la presenza. Non c’è rabbia in questo dipinto. Non c’è disperazione. Ma è palpabile il senso della fine, l’assenza della vita. E questa assenza di fiato e colore si scontra con la luce che il corpo morto emana: accecante e bianchissima.

Non credo di aver pensato  nulla di “spirituale”, forse perché nel tempo ho imparato a diffidare dei passaggi troppo veloci che vanno diritti alla resurrezione. A quella gioia melliflua che è più vicina alla nevrosi che alla fede. Neppure oggi riesco a pensare nulla di “spirituale” di fronte al Cristo crocifisso di D. Velasquez. Porto impressa a fuoco la potenza dell’opera e quando mi riesce la raffronto con tutta la morte, la fine e il dolore che scorgo attorno a me o dentro di me.

Forse, se un’immagine di rimando mi si apre in cuore è quella legata al tempo della gestazione. Così mi appare il dolore: un tempo di nascondimento, silenzio e crescita, fino a che si è pronti a venire alla luce, di nuovo. Se si rimane troppo poco a contatto con il proprio dolore, il parto di se stessi è prematuro, non si è autonomi e ci si sente esposti ad ogni debolezza, se si resta nel grembo del dolore più del tempo necessario, si muore.

Ecco, il Cristo del Velasquez sembra proprio che dalla morte e dalle tenebre fitte, venga alla luce. Non riusciamo a vedere il compimento di questo processo, lo si può intravedere, lo si può sperare, lo si può solo aspettare. Se potessi intitolare io l’opera la chiamerei: L’attesa, perché se una scintilla d’inquietudine la fede accende in cuore è proprio l’affidarsi alla possibilità che un termine al dolore sia stato stabilito per tutti e che il senso del nostro patire ci verrà disvelato: Il Cristo resta in croce da mezzogiorno alle tre del pomeriggio. Un tempo determinato. Poi è il dolore muto e intenso, poi è il buio del sepolcro e poi è… .

 

Come una sorgente

Era estate e faceva molto caldo, perfino in Russia.
La Russia. Non occupava alcun posto tra le mete dei miei sogni, ma ero molto giovane allora e sapevo poche, pochissime cose. Accettai di far parte di una strana compagnia composta da alcuni professori della facoltà di Teologia, qualche collega e qualche personaggio in cerca d’autore. Era il mio primo viaggio fuori dall’Europa.

periferia-mosca_202L’arrivo a Mosca fu traumatico. Attraversare la periferia intravedendola dall’autostrada che collega l’aeroporto al centro città è un pugno allo stomaco. Palazzi. Tutti uguali. Tutti grigi. Per chilometri e chilometri. Nessun balcone. Finestre piccole. Piccolissime.

Mosca è quasi tutta grigia. Ed è immensa. Ma in questa distesa monocolore di un’uguaglianza imposta e mai realmente realizzata, esplode il colore della piazza Rossa ed esplode la luce sulle cupole delle basiliche del Cremlino.

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A San Pietroburgo, invece, siamo arrivati in treno. Un viaggio lungo, attraverso una infinita distesa di betulle senza né case né uomini. Il treno puzzava di vodka e rimbombava di grida in una lingua dura e sconosciuta. La città è bellissima, al grigio del decaduto regime si è sostituito il colore vivo dei palazzi costruiti dagli architetti italiani e all’afa una frescura umida e sempre carica di nuova pioggia.

89863c67-f15d-4d34-b234-f1a10aa1fc38L’Hermitage è un posto incredibile. Gli occhi non sanno dove posarsi, i piedi rincorrono lo spazio di mille sale e il cuore è continuamente sollecitato allo stupore. Ho visto moltissime opere studiate sui libri, che mi hanno restituito il senso delle ore trascorse nella fatica d’imparare. Fra tutte le Tre grazie di Antonio Canova sono state l’incontro che non immaginavo di poter fare. Poste al centro della sala, in alto, non si possono guardare se non con la testa indietro e il naso all’insù. La perfezione e la dolcezza delle forme, la bellezza dei corpi che elogiano il movimento pur restando immobili, le espressioni del volti strappati al freddo del marmo e donati al calore degli sguardi. E’ stata una grande emozione. Ma, con il senno del poi, che è uno dei miei più preziosi compagni di vita, ho capito che non soltanto lo stupore dell’opera d’arte mi aveva coinvolta in quella visione. C’era dell’altro. Qualcosa che avrei compreso molti anni dopo e a prezzo di molte e non sempre facili esperienze. Era la “femminilità”.

Non certo quella dei tacchi alti e delle creme anti età, ma quella dello spirito dato in dono, come un mistero, a noi donne. Non a tutte in egual modo, forse, ma comunque nascosto come un tesoro nell’animo di ciascuna. Non è solo un modo di muoversi e non è mai un atteggiamento costruito, è come una specie di grazia che occupa lo spazio concavo del nostro corpo e del nostro cuore. Non è necessariamente legato alla famigerata maternità fisica, basta osservare come va il mondo per comprenderlo. E’ qualcosa di più profondo e primordiale. Forse è la confidenza con il patire e con il sangue, il frutto della fatica di una trasformazione ciclica ma mai uguale a se stessa. Forse sono le forme del corpo di per sé armoniche molto, molto al di là della forzata corrispondenza ai cangianti  e a volte perversi modelli estetici. Forse, però, osservando la scultura, mi viene da pensare che la femminilità, in qualche modo che non so dire, sia pure legata alla solidarietà che esiste tra le donne, ad una certa “sorellanza”. Una delle tre grazie, presa a solo, per quanto bella, non avrebbe mai e poi mai potuto esprimere la stessa forza che viene dal loro abbraccio senza possesso.

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Si toccano appena, si guardano, si appoggiano l’un l’altra, quasi senza peso, ma donando un grande senso di stabilità a chi le osserva. Vi è confidenza, conoscenza, comprensione, sostegno. Non credo sia un valore di altri tempi, compromesso oramai da un mondo tanto cambiato da sembrare quasi impazzito, a volte confuso, sterile. Credo sia una realtà che lacera dentro quando non viene riconosciuta o, peggio, volutamente infranta. Bisognerebbe ri-conoscersi continuamente: l’anziana nella giovane, la giovane nell’anziana, la donna matura nella bambina, la bambina nell’adolescente. Dovrebbe esserci uno scambio continuo, come una sorgente, di saperi e dispiaceri, di segreti e di nuove scoperte. Una dinamiche difficile, ma preziosa. Dovrebbero insegnarci che quel che sembra perdersi con l’avanzare dell’età e la difficoltà della vita, in realtà è solo donato e rimesso in circolo, per sempre presente, per sempre vivo.

Il tempo opportuno

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Oh, saprò aspettare il momento giusto.
Custodirò la tempesta,
fino alla sua esplosione resterò in silenzio.
Il respiro sarà lieve fino a che non sarà colma la furia.
Poi sarà uno scroscio d’acqua senza riparo,
sarà burrasca in ogni anfratto del mondo.
La terrà secca tornerà a partorire germogli,
e l’aridità non scamperà alla vendetta.
Il deserto arretrerà con il terrore negli occhi
e l’umidità esploderà in un canto di tuoni.
Ovunque arriverà la frescura,
ogni spigolo si ricoprirà di muschio.
La piena delle acque nuove sconvolgerà ogni cosa
e nulla resterà al suo posto.
Il vento spargerà sementi ovunque
e non troverà alcun rifugio la desolazione.
Sarò quel che sono fino all’ultima goccia di rugiada
e tutta la fatica cupa dell’attesa si muterà in festa.

A Giovanni

Maledetti noi
mostri a due teste,
con una bocca annunciamo la pace
e con l’altra succhiamo avidi il sangue dei poveri.

Maledetti  noi
demoni a due facce
su di una, lacrime di vetro
e sull’altra il ghigno feroce dei forti.
Vuoto è il torace, deserto
custode del nulla.

Beati  gli esseri umani
di parole lievi e mani operose,
beate le labbra dei muti,
con gli occhi consolano
e offrono il corpo alla fame dei deboli.

Beati i ribelli
di gambe veloci,
beato è chi esagera!
Beati coloro che vanno dove non devono
e voltano le spalle al buon senso.
Beati coloro che infrangono gli argini.

Beata la terra bagnata dal sangue dei giusti
come gambe di donna nel giorno del parto.
Beato l’urlo della madre,
il dolore che spoglia i violenti,
esposti allo sguardo del mondo
lavate la vostra vergogna con scuse di fango.

Finita è l’attesa,
dal salvatore è giunta la morte.
A mani nude scaviamo la polvere,
cerchiamo con occhi ciechi di pianto
la vita che sgorga dal buio.

 

 

Sulle rive di confine

(foto di  Hiroshi Sugimoto)

(foto di Hiroshi Sugimoto)

Vita mia,
non piangere, te ne prego. Non è tutto perduto. Tutto deve ancora cominciare. La notte crede di aver vinto, le tenebre assistono mute alla nostra discesa, lenta, nel ventre del mare, ma non è finita.

Io ho i tuoi occhi impressi ovunque nella mia carne e se pure i pescecani mi faranno a brandelli, tu resterai tutta intera con i tuoi occhi in ogni frammento di me. Lo so che t’avevo promesso un futuro migliore, giorni di pane e notti d’abbracci, al sicuro, Lo so. Ce l’ho messa tutta, te lo giuro amore mio. Sapevo di dover stare attento lungo la traversata, di dovermi guardare da tutti, perchè paura, fame e disperazione strappano dagli uomini il cuore, trasformando in nemici i fratelli. Ma il mare…dal mare non ci si può difendere: durante il giorno è luce accecante, che confonde la mente e brucia gli occhi e la notte è come un mostro nero con la bava alla bocca e le sue onde sono artigli da cui non si può fuggire.

Non stare in pena per me, qui sotto siamo in tanti, non patirò solitudine e disperazione, no. Della disperazione e della solitudine ho svuotato i serbatoi del mondo nei minuti che hanno preceduto la mia morte: le urla e il buio e la consapevolezza di essere arrivato troppo presto al capolinea del mio viaggio, senza di te. L’acqua fredda e il sale e l’angoscia del corpo che non sapeva cosa fare, le mani ad afferrare il mare; stringevo forte i pugni, amore, ma il mare scappava via ed io scivolavo, sempre più a fondo, in un silenzio senza appigli. Ero così stanco…ma pensavo a te, alle tue mani e al sorriso, alla prima volta che abbiam fatto l’amore, in fretta, prima che la guerra raggiungesse il nostro letto e rapisse la nostra giovinezza. Il pensiero di te mi ha reso lieve la morte, perchè la morte solo dell’amore ha paura.

Adesso cammino con le mani in tasca dentro al blu di questo cimitero fra Africa e resto del mondo e se alzo lo sguardo vedo uomini bianchi dalla faccia dura. Poveri uomini sazi, che mangiano tre volte al giorno, che non conoscono i rumori della guerra, che litigano seduti sulle poltrone degli studi televisivi. Il loro cuore è marcio ed emana cattivo odore, sono morti e puzzano più di 700 cadaveri corrosi dal sale. Poveri uomini bianchi, l’ignoranza ha rubato loro il mare e ogni volta che lo guarderanno uno dei nostri corpi salirà a galla per turbare la festa e le nostre facce senza naso e bocca, le nostre mani scure usciranno fuori dal ventre dei pesci a macchiar di sangue le loro tavole imbandite. Tu, invece, vita mia dolcissima, un giorno porterai i nostri bambini sulle rive di confine e dirai loro che in quel mare, fra le correnti e i fondali di corallo il loro papà li ha amati fino alla fine. Così il mare sarà per gli uomini e le donne dell’altra velenosa sponda segno di orrore e vergogna e per noi, invece, memoria di lotta e libertà.

Si credono forti e potenti, le loro donne hanno labbra morbide e capelli di seta, giocano con la vita e temono la morte come il peggiore dei mali. Come giocolieri fanno ruotare in aria le parole e confondono verità e menzogna, dignità e vergogna e non sanno nulla di noi. Non sanno che sulle tue labbra ruvide di sole e di deserto io ho trovato la forza di sfidare la morte, non sanno che nei grumi di polvere tra i tuoi capelli io mi sono ubriacato di vita e di speranza. Si consolano gli uni gli altri dicendo con occhi bassi e voce severa: “Cosa potevamo fare noi?”. Sono convinti che il loro buon Dio li assolverà, che non gli accadrà nulla. Ma non sanno che il loro Dio cammina qui con noi sui fondali del Mediterraneo e che il giudizio sarà senza misericordia per tutti coloro che non hanno avuto di noi misericordia.

Vita mia, luce dei miei occhi, che illuminerai per sempre il buio di questi abissi, la nostra, la mia morte non è la fine di tutto, io veglierò, insieme ai miei compagni di sventura assisterò al crollo del mondo antico, alla rovinosa frana della loro arroganza. Hanno seminato ignoranza, indifferenza e morte e il frutto che ne verrà sarà veleno ad ogni morso, cadranno così, a poco a poco. Quel giorno amore mio, te ne prego, apri il tuo cuore, salvali, abbi pietà.

Collera e Luce

© Francisca Yáñez, Ana (Starry Night)

© Francisca Yáñez, Ana (Starry Night)

Io non dormo, ma è colpa mia. Sotto la luce fioca delle mie notti leggo un libro di fuoco che toglie il sonno. S’intitola “Collera e luce” e lo ha scritto Paolo Dall’Oglio.

È un libro che brucia le dita ad ogni giro di pagina e, forse, il fatto che l’autore sia stato inghiottito dalla guerra siriana rende ancora più difficile sostenere la lettura. Impressiona  l’assenza di retorica. Nulla. Neppure una briciola. Né retorica, né prudenza. Paolo non compie il minimo sforzo per rendere le sue parole accettabili e condivisibili, esse sono piuttosto come i coltelli dei lanciatori al circo, ma la bravura di Paolo non sta nello scansare il bersaglio bensì nell’infilzarne il cuore. Scrive con la forza di chi ha condiviso il cammino sofferto e tortuoso della rivoluzione siriana, chiama Bashar al Assad “assassino” e accusa senza remore la comunità internazionale di aver abbandonato il suo popolo; descrive le minoranze della società siriana, le attese della gente comune, i sogni dei giovani, racconta nei particolari più crudi lo scorrere dei giorni stretto nella morsa di una dittatura crudele ma furba a tal punto da prendersi gioco di tutti, degli stessi siriani, del mondo intero.

Di se stesso descrive il travaglio tragico, il mutare del cuore davanti alla morte sempre imminente, quella lenta e radicale metamorfosi del pensiero e dei sentimenti di fronte all’oppressione, alla violenza, alla paura. Come giganti dai piedi d’argilla le prese di posizione “per principio” vanno in frantumi, le teorie, i dogmi si sbriciolano, perfino il buon senso, spesso, non è sufficiente a cogliere e scegliere il bene ed il bene cambia faccia, a seconda delle circostanze e i valori assoluti abbandonano i tratti rigidi e netti per assumere la forma del corpo dei giovani, delle donne, dei bambini massacrati dal regime, il colore del sangue offerto dai siriani per la libertà. Non fa sconti Paolo, alla complessità della vicenda: la Siria è divenuta il fronte di molte, troppe guerre; davanti a tale complessità l’occidente ha abdicato, trasformando quel territorio in una porzione d’inferno e sacrificando un intero popolo sull’altare degli interessi economici e politici dei singoli stati.

Ieri sera, prima di (non) dormire, ho letto il capitolo che Paolo dedica alla descrizione delle torture. Le parole scorrevano sotto i miei occhi e il mio cuore non provava nulla. Così, insensibile, ho spento la luce e chiuso i miei occhi, aprendomi al buio. Questa mattina, al risveglio, ho capito cosa aveva pietrificato il mio cuore: l’attesa. Si, mi sono resa conto che nella sofferenza sia fisica sia morale, spirituale o psicologica, s’impone la presa di coscienza del bisogno e l’attesa che qualcuno/qualcosa venga a sollevarci dal dolore, che qualcuno si addentri nel perimetro della nostra vita, mettendosi con noi alla ricerca di una soluzione. Quando è il corpo a patire sappiamo cosa fare, chiamiamo un medico, corriamo al pronto soccorso, quando invece la sofferenza è ormai cronica o d’altra natura, allora è più difficile capire a chi rivolgerci e spesso rimaniamo muti e smarriti, ancorati alla speranza che qualcuno ci raggiunga lì dove ci siamo perduti. Ecco, è sul palcoscenico dell’assenza che il dramma della Siria si sta svolgendo. Ieri, leggendo del giovane violentato e crocifisso nelle prigioni di Assad o di quell’uomo ucciso dai militari perché il suo volto torturato e sfigurato era divenuto insopportabile alla vista dei suoi stessi aguzzini, immedesimandomi nella donna arrestata mentre portava il pane ai partigiani del suo popolo, stuprata, torturata e uccisa, ho capito cosa significhi per la Siria la mia, la nostra assenza. Fossi stata io quel giovane, quell’uomo, quella donna, fossi io un bambino affamato nel campo profughi assediato dall’Isis, fossi io anziana e sola, senza casa, servizi igienici, conforto, fossi io, pregherei in ogni istante di veder arrivare qualcuno, cercherei fra le macerie l’orizzonte, lo fisserei, aspettando, aspettando. E non vedendo arrivare nessuno? Forse lascerei al rancore il permesso di divorarmi il cuore, mi nutrirei di rabbia e rassegnazione, forse smetterei di seppellire i morti, forse impugnerei le armi per farmi giustizia. O forse no, magari reagirei alla tragedia cercando di costruire ovunque piccoli istanti di pace, sorriderei senza alcuna logica ai miei bambini affamati, nutrendoli di fiducia e coraggio davanti alla morte imminente. Sotto le macerie della mia casa e della mia vita potrei ancora parlare di libertà? Sognare per la mia terra un futuro di pace?

Guardo con preoccupazione alla polemica sempre imperante nel nostro paese, al tentativo di cercare in ogni cosa il marcio per sabotare gli slanci generosi di bene, la memoria delle lotte, ogni speranza nel domani. L’incoerenza della vita e della storia ci paralizza, le contraddizioni risucchiano la forza, non riusciamo a tenere insieme ciò che vorremmo essere con quello che realmente siamo, vorremmo estirpare da noi quello che ci ferisce e ci stanca, guardiamo con sospetto ogni lato oscuro che ci abita senza  lasciarci  attraversare dal dubbio che lì, nella penombra del non conosciuto, possa celarsi una risorsa invece di una ferita. Quale politica salverà la Siria io non lo so, se Paolo farà mai ritorno a casa, io non lo so, cosa si possa fare per quel popolo abbandonato ai demoni e agli spettri che noi stessi abbiamo creato, io non lo so. Quello che posso fare, però, è dilatare i confini della mia attesa, far spazio alla speranza dei siriani nella mia quotidiana speranza e chiedermi, senza posa, finché avrò luce agli occhi e fiato e collera per il cuore: Da dove arriverà l’aiuto?

(Paolo Dall’Oglio, Collera e Luce. Un prete nella rivoluzione siriana, EMI, Bologna 2013)

Le altre parole

(foto di Mike Brodie)

(foto di Mike Brodie)

“Voci ovunque”. E’ la mia personale definizione che descrive l’esperienza del fatidico ricevimento dei genitori. Ascolto la voce di chi sta parlando con me, la mia che rispondo, quella delle colleghe, della folla davanti alla porta dell’aula, a turno, le voci dei ragazzi rimasti di sotto in cortile. Parliamo tutti, tutti abbiamo qualcosa da dire, ridire, chiedere, rimproverare. “La parola all’accusa! La parola alla difesa!”.

Eppure queste voci che si diffondono ovunque sono una piccola parte dell’intero processo di comunicazione. Piccola davvero. Ognuno dei docenti sceglie un angolo dell’aula e si dispone come su un ring per sferzare e parare ogni tipo di colpi: oggi si consegnano le schede intermedie, una specie d’avviso alla popolazione perché chi sta per affogare abbia  il tempo di cercare un appiglio di salvezza e chi dall’inizio dell’anno rema con fatica possa vedere all’orizzonte la ricompensa della riva. Un foglio bianco come uno schema della battaglia navale, l’elenco delle materie e la fasce di voto: scarso, insufficiente, mediocre, sufficiente, discreto, buono e ottimo! E poi un pugno di “X” che sembrano sparse a caso: Acqua! Colpito! Affondato!

“Prof. glielo spiega a mia madre che questa non è la pagella?! Che ancora posso essere promosso? Per favore!”. E’ grande e grosso ma ha solo quindici anni. La sua famiglia viene da un paese davvero lontano, ma lui è nato qui. Il paradosso è che sua madre comprenda a stento l’italiano mentre il dialetto siciliano del figlio farebbe invidia ai venditori ambulanti del mercato di Ballarò. E’ un ragazzo sveglio, con grande senso dell’umorismo, ed è anche campione mondiale di pigrizia. Noi lo sappiamo, lui lo sa. Dopo pasqua comincerà la sua folle corsa, sarà rimandato in due, tre materie, passerà l’estate con la paura d’esser bocciato, proverà a studiare qualcosa, ma vincerà la voglia di mare e vacanze, noi a settembre lo aiuteremo a superare gli esami di riparazione e ricomincerà la giostra.

“Salve io sono l’educatrice di V., come va? Cosa mi dice?. V. abita in una casa famiglia. Ce lo ha detto lei candidamente, durante il giro (odioso!) delle presentazioni, dal quale nessuno scampa il primo giorno del primo anno di ogni nuovo ciclo di scuola; lo ha detto come se stesse comunicando di avere, chessò io, una bicicletta o un cane: “Si, io sono V. ho 14 anni e siccome non ho nessuno vivo in una casa famiglia, mi piace ascoltare musica e uscire con gli amici”. Ci sono giorni in cui la sua faccia diventa buia e lei è lì, seduta a pochi centimetri da me, ma irraggiungibile.

Io non andavo mai al ricevimento dei genitori con mia madre, soprattutto al liceo, tanto sapevo cosa le avrebbero riferito, lo stesso ritornello per anni: “Giulia ha molte capacità, ma studia soltanto le materie che le piacciono!”. Ancora oggi che sto dall’altra parte della barricata trovo che la loro lamentala fosse di una banalità irritante. Ancora oggi per me la strategia di studiare e prendere voti alti nelle materie che piacciono e la sufficienza appena risicata in quelle che non interessano, sinceramente, mi pare assai sensata. I miei alunni, invece, vengono praticamente tutti e, giuro, certe volte sembrano loro ad accompagnare i genitori. Il giorno del ricevimento ci si rende conto del perché alcuni ragazzi sembrano avere il mondo sulle spalle. E’ perché ce l’hanno davvero, accidenti! Ci sono madri e padri che sembrano fantasmi. La loro inconsistenza fa sobbalzare lo stomaco come quando si va giù veloci sulle montagne russe: “Signora guardi che c’è ancora da ritirare la pagella del primo quadrimestre! Abbiamo provato a chiamare, ma non ha risposto mai nessuno”, e dici queste cose cercando uno sguardo che non si fa incontrare mai, neppure se ti guarda dritto negli occhi. Alcuni genitori sono talmente fantasmi che al ricevimento i ragazzi arrivano con i nonni. E te lo dicono che sono i nonni con una voce a metà tra orgoglio e vergona, si presentano appena ma tutto il loro corpo e il modo in cui ti fissano sembra esclamare: “E non dovremmo esserci qui noi cazzo! E però ci siamo!”. Qualcuno con voce tremante ti confida che la figlia ha fatto due bambini con un disgraziato che ora è in galera e “speriamo che ci resti!”. Già. E mentre cerco di piantare bene i piedi a terra per rimanere salda sotto le raffiche di dolore che mi arrivano addosso, mi volto verso la ragazza che sta lì e mi guarda. L. ha due occhi blu di una luminosità imbarazzante. Chissà quante volte l’ha sentita questa storia del disgraziato di suo padre. Le sorrido, mi sorride e intanto non riesco a non chiedermi quale sia, in mezzo al casino in cui vive, la fonte dalla quale attinge la sua luce.

Stringo un’infinità di mani. La stretta di mano dice molte cose; di quelle ruvide, lo confesso, mi fido di più che delle mani lisce e morbide. Una signora, oltre ad avere palmi che graffiano possiede pure due centimetri di ricrescita bianca su una tinta nera fatta male e un sorriso sincero. Arriva dall’estrema periferia di Palermo, ma anche lei l’italiano lo parla a fatica. Oggi è contenta, però, perchè D. è migliorato e, infatti, tira un sospiro di sollievo che sembra possa alleggerire il mondo intero. Anche D. sorride, ha una montagna di ricci in testa color miele che esplodono in ogni direzione, portatori di una vita che non sa ancora dove andare e cosa fare, ma c’è.

Infine, arriva il teppistello della classe, quello che durante le lezioni esce per andare in bagno e torna dopo mezz’ora, quello che se ne frega di te e di quanto rappresenti, che ai rimproveri reagisce sghignazzando. Arriva scortato da padre e madre. Non ha, adesso, un atteggiamento di sfida, no. Guarda a terra. Sua madre mi confida di aver infilato nello zaino del figlio l’immaginetta con la preghiera dello studente: “Ma niente prof., non ha funzionato”. Il padre è un gigante grande e grosso e mi dice che quando arriveranno a casa gli farà vedere lui. Le “X” del suo foglio non sono sparse a caso, un po’ qui, un po’ lì, sono tutte incolonnate, solenni e gravi, come un corteo funebre sotto la voce “scarso”. Suo padre ringhia, sua madre dispera e mentre io osservo gli occhi del ragazzo piantati sul pavimento penso che, quasi quasi, non lo rimprovererò più quando mi sghignazzerà in faccia perché tutti, in fondo, abbiamo diritto ad una qualche forma di riscatto.

Mentre le voci cominciano a diradarsi e dalle finestre dell’aula esposta a ponente arriva la luce dei primi tramonti di primavera, io raccolgo pian piano i miei fogli e con essi i pensieri. Rifletto, stanca fino alla nausea, sul fiume di parole nel quale ho navigato tutto il giorno, a lezione prima e al ricevimento poi. Ripenso a tutti i discorsi, ma mi rendo conto di aver memorizzato molto di più gli sguardi e le strette di mano, i sorrisi e le facce tese. Richiediamo studio, ordine, impegno in mezzo al caos e al dolore, alle vita in frantumi e  alle preoccupazioni più nere, e anche lì dove invece, grazie a Dio, la vita procede più serena, non troviamo mai il tempo di capire dentro le persone, veramente, cosa c’è. Potremmo parlare per ore, ininterrottamente, provare a spiegare, a nascondere, a giustificare, ad accusare, ma la scuola, come la vita mi appare una pianura che si distende a perdita d’occhio dove aspettiamo, tutti, di veder fiorire, prima o poi, le altre parole, quelle seminate ovunque sul corpo, quelle che ci passano tra le dita come grani d’un rosario muto, le parole tutte bagnate sulle labbra o secche in gola, quelle che ci abitano addosso e che per esser dette e divenir compiute serve soltanto che qualcuno come noi, in carne, sangue e parole non dette, veramente, ci guardi.

Sfiorare

(foto di Gyula Halász Brassaï)

(foto di Gyula Halász Brassaï)

“Sfiorare” : preceduto da DIS, privativo.
Cogliere il fiore, il meglio di checchessia.
Perdere il più vago della bellezza, la parte migliore.
Toccare lievemente passando vicino.
Andare molto vicino al conseguimento di qualcosa, senza raggiungerlo.
Ciononostante inteso nel senso contrario: Sfiorare è anche raggiungere.

Il fiato si spezza sfinito,
oppresso da eccessiva lunghezza.
Corro con gambe veloci
e tu resti ad uguale distanza.

Di fronte e invisibile,
fantasma di felicità velata.
Gomito a gomito.
Ripeto a memoria, di notte in giorno
la rima baciata del tuo calore.

Resto,
a vegliarti le mani tra luna e sole,
piegata dal vento.
Canto le sillabe del tuo nome
e tu scopri sorpreso che esisti.

Ti svegli dal buio del sonno
le gambe che tremano vergini
si muovono vive di passi.
Palmo a palmo si svela l’amore,
t’abbraccio di fiato immortale.

Argento

Disegno di Carlo Levi

Disegno di Carlo Levi

T’amo con cuore di vento
tormento di foglie appese a rami d’inverno.
T’amo con amor di tempesta
che si abbatte violenta
e nera divora d’appuntiti morsi
l’ombra severa degli spettri.
T’amo con cuore di pioggia
che lenta disseta,
e vita segreta germoglia
sugli occhi, perle di rugiada
sangue caldo sui desideri morti.
T’amo con cuore d’argento
freddo e prezioso
che ricopre la silenziosa attesa
d’amare te a piedi nudi,
il coraggio ardito, la temeraria impresa.

Cuore di legno

Gli amanti, olio su tela. Carlo levi.

Gli amanti, olio su tela. Carlo levi.

T’amo con cuore di roccia
che frana, di sasso in sasso
sotto il peso grave del tuo silenzio.
T’amo con amor di luce
che le tenebre inghiotte
come grumo di lacrime in gola.
T’amo con amore di mosto
custodito dal buio in cuore di legno
che aspetta dell’uva nera il tramutarsi in festa.