Sparisci, donna!

Aveva 27 anni e si chiamava Farkhunda. Chissà cosa vuol dire il suo nome.

E’ sulle prime pagine del giornale, oggi. Domani nessuno si ricorderà di lei. I nostri quotidiani somigliano a laghi pescosi, i fatti di cronaca si accalcano in superficie, sono numerosi, saltano su, si fanno acchiappare, entrano nelle nostre case, sfiorano i pensieri e poi ripiombono, giù, fra le acque fangose e torbide delle nostra memoria ammalata.

L’Afghanistan è lontano. E’ polveroso. E’ misterioso. Conoscerlo è difficile, capirlo è fatica. Nascere in quella terra moltiplica il peso del vivere ed essere donna in quella terra è come non nascere. Farkhunda era afghana ed era donna. I giornali dicono che soffrisse di problemi psichici, ma non specificano quali. Non lo sanno. La malattia di Farkhunda non ha nome o diagnosi. Essere una donna e non potersi difendere era già una maledizione sufficiente.

L’hanno accusata di aver bestemmiato il Corano, o di averlo bruciato. Qualcuno degli uomini ha incitato la folla e l’hanno picchiata fino ad ucciderla. Uomini inferociti contro una donna disarmata. Dopo averla uccisa ne hanno bruciato il corpo: “Sparisci Farkhunda, spairisci! Incenirisci sotto il nostro odio, brucia donna!”.

Farhunda era innocente.

La sua bara è stata portata in spalla da un gruppo di donne. In Afghanistan non succede mai. Neppure da noi succede mai. Ma l’Afghanistan non è lontano?

In Italia viene uccisa in media una donna ogni due giorni. La maggior parte di esse muore per mano del marito o del compagno: “Mi vuoi lasciare? Ami un altro? Non vuoi fare sesso? La pasta è scotta? Sparisci donna, incenirisci sotto il mio odio!”.

Ma noi non siamo l’Afghanistan. Non c’è polvere sulle nostre strade. E non mettiamo a morte nessuno che bestemmia la Bibbia.

“E meno male che so’ di clausura! Sorelle tenimmo che ffa”. Lo ha detto, infastidito, con sarcasmo, il cardinale Sepe alle monache di clausura di Napoli che hanno circondato con entusiasmo papa Francesco durante la sua visita. Troppo entusiasmo, hanno commentato tutti. Perché c’è entusiasmo ed entusiasmo, si sa.

Nessuna indignazione. “Perché cosa è successo? Era una battuta! Ma quanto sei esagerata donna! Adesso non si può più scherzare?! Hai visto? Hai sentito? Hanno riso tutti! Ma con i problemi grossi che ci sono…ma lascia stare!”. (dedicate qualche secondo a questo video, se potete, per favore http://tv.ilfattoquotidiano.it/2015/03/22/papa-a-napoli-suore-di-clausura-scatenate-sepe-e-meno-male-che-so-di-clausura/352303/)

Noi non siamo l’Afghanistan.

Silenzio.

Incipit (cose che accadano in cinque minuti, nella vita)

Una fine…
Stringeva tra le mani la tazza calda e gialla, e il vapore della camomilla veniva su avvolgendole il viso. Non si accorgeva delle sue dita divenute bianche per la forza di quella stretta. Le scendevano giù le lacrime, senza che sul viso apparisse alcuna smorfia di dolore, nessun segno di sofferenza. Tutto era dentro, negli occhi. Due crateri ed eruzione d’ acqua e sale. Fu la suoneria del cellulare a destarla dal quel silenzio insonne, rimase immobile, solo si voltò, con la testa, verso il telefono, lesse il nome sul display, lo fissò per alcuni minuti, poi si alzò abbandonando sul tavolo della cucina quella melodia allegra. Appoggiò la testa alla finestra. E il fiato del suo sospiro appannò il vetro. Il mare era nero, rigato di bianco all’orizzonte, sembrava, e lo era, di una ostilità invincibile. Lo osservò per un paio di minuti poi posò la tazza, indossò il cappotto grigio, il cappello, i guanti ed uscì. Amava il vento freddo e quel velo di sale che si posa sulle labbra, tanto quanto odiava l’umidità che arriccia i capelli: “Amore e odio non si separano mai, neppure nelle briciole della vita” – pensò, di sfuggita.
Con passo veloce giunse alla panchina amata, sempre scartata, da tutti, per gli scogli troppo alti, ad impedire la vista del mare. Pochi sapevano, però, per  una cronica anemia di pazienza, che nei giorni di tempesta il mare gli si scaglia contro e come una visione fa la sua comparsa in forma di schizzi e schiuma. Si sedette in punta, con le mani sotto le cosce, un po’ piegata in avanti, in modo da poter dondolare, indietro, avanti. Le parole di lui gli pulsavano in testa come fossero loro a dare il ritmo al cuore e al sangue: “
È stato un errore, ho sbagliato, scusa. Non c’è futuro per noi”. Lei non aveva risposto nulla. Come era solita fare. Lo guardò, si voltò e andò via, avendo l’impressione di sfaldarsi ad ogni passo, di lasciare pezzi di sé lungo la strada, di disseminare corpo sull’asfalto, brandelli di carne e sangue, come una scia.

Interactive "Rain Room" Exhibit Allows Visitors To Control Their Environment

Un inizio…
La neve scendeva ch’era un piacere. Mare grigio e bianco dappertutto. Il giorno di Pasqua. Da non credere! Il saluto del cielo al mio primo giorno di disoccupazione fu una nevicata da notizia in prima pagina: 5 Aprile neve sulle coste della Sicilia! Ed io restavo lì, imbambolata ai vetri della finestra, guardando i fiocchi imbiancare le mie prime ore di libertà e ricoprire, fino a seppellire, l’abitudine del passaggio in edicola, giornali e parole fresche che sporcano di nero le dita. Tutti i miei incarichi, in giro per il mondo, inabissati sotto quel morbido tappeto bianco, insieme ad una lettera di dimissioni scritta al volo, uno squarcio di lucidità. Una lettera di cui non ricordavo più una sola parola.
Neppure una. La sensazione si, quella la ricordavo, però. E’ stato come trovarsi in un uno spazio aperto dopo aver vissuto mille vite al chiuso. Senza aria. Sapevo che, in seguito, un seguito non troppo lontano, sarebbero arrivati i dubbi, le incertezze, quel panico sottile e crudele che attraversa i pensieri come un coltello, quando ci si chiede se si è fatta la cosa giusta. Sarebbero arrivati i pensieri cupi, il senso incerto del futuro, sarebbero arrivate le domande incalzanti e preoccupate degli amici e quelle agitate, concitate di mia madre. Ma, in quel momento, un momento da prima pagina, volevo solo restare imbambolata ai vetri a vedere la costa della Sicilia bianca di una neve rubata a cieli lontani.

Ruoli e relazioni. La mia “risposta” a papa Francesco

 

via @ilpost

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Lo scorso 8 maggio, in occasione dellAssemblea plenaria dell’unione internazionale delle superiore generali, papa Francesco ha tenuto un breve discorso, subito amplificato dai mezzi di comunicazione per la frase rivolta alle religiose: siate madri non zitellehttp://attualita.vatican.va/sala-stampa/bollettino/2013/05/08/news/30952.html

A dire la verità, nonostante il plauso dei mass media e delle stesse religiose presenti, credo ci sia poco da stare allegri. Da donna, battezzata e studiosa di Sacra Scrittura, infatti, l’affermazione di papa Francesco e tutto il suo breve discorso mi hanno suscitato diverse riflessione e non poche perplessità. Ecco le sue parole

E poi la castità come carisma prezioso, che allarga la libertà del dono a Dio e agli altri, con la tenerezza, la misericordia, la vicinanza di Cristo. La castità per il Regno dei Cieli mostra come l’affettività ha il suo posto nella libertà matura e diventa un segno del mondo futuro, per far risplendere sempre il primato di Dio. Ma, per favore, una castità feconda, una castità che genera figli spirituali nella Chiesa. La consacrata è madre, deve essere madre e non zitella! Scusatemi se parlo così, ma è importante questa maternità della vita consacrata, questa fecondità! Questa gioia della fecondità spirituale animi la vostra esistenza; siate madri, come figura di Maria Madre e della Chiesa Madre. Non si può capire Maria senza la sua maternità, non si può capire la Chiesa senza la sua maternità e voi siete icona di Maria e della Chiesa”.

Viene naturale chiedersi il perchè di tale risonanza mediatica. Forse perchè è inusuale che un pontefice si esprima con un linguaggio tanto comune e comprensibile? Comune e comprensibile, appunto. Tutti hanno recepito il messaggio, perchè? Perchè il papa usa due dei clichè più comuni per identificare una donna. Per giorni i giornali hanno riportato la notizia. Non è forse un segno allarmante del riconoscimento unanime e immediato, non riflesso cioè, della donna e dei ruoli sociali che le sono stati attribuiti, o meglio, imposti e dai quali ancora stenta a liberarsi? È palese che se il discorso fosse stato rivolto a dei religiosi uomini il linguaggio sarebbe stato differente, fosse solo perchè la lingua italiana corrente non possiede il maschile di “zitella” (Alcuni vocabolari riportano “zitello” e ne specificano l’uso desueto. Altri, invece, non lo riportano affatto e indicano l’uso di “scapolo”, ma privo del senso dispregiativo).

Certo, il Pontefice è assolutamente in linea con secoli di Tradizione, come negarlo? Ma scorrendo le pagine della Bibbia (prima Fonte alla quale la vita della Chiesa deve attingere, dopo aver imparato ad averne sete) mi pare di non trovare ovvio questo legame tra maternità e femminilità, tra “castità feconda” e primato di Dio e costruzione del Regno. A cominciare dalla maternità “naturale”. Le madri nominate nei vangeli non hanno proprio un rapporto roseo con Gesù: la madre di Giacomo e Giovanni viene rimproverata per la pretesa che i figli siedano alla destra e alla sinistra di Gesù (Cfr. Mt 20,20-23). E Gesù sulla via che lo porta al Golgota non ha parole tenere per le madri che piangono su di lui: “Lo seguiva una gran folla di popolo e di donne che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui. Ma Gesù, voltandosi verso le donne disse: figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete sui vostri figli. Ecco, verranno giorni nei quali si dirà: Beate le sterili e i grembi che non hanno generato e le mammelle che non hanno allatato (Lc 23,27-29). A proposito di mammelle e di latte materno, Gesù non risparmia neppure sua madre: “In quel tempo, mentre Gesù parlava, una donna dalla folla alzò la voce e gli disse: Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato! Ma egli disse: Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!.

 

La maternità, dunque, non è via privilegiata di vita con Dio, neppure per la vergine Maria. Ciò “senza cui non è possibile capire Maria di Nazareth” non è in primis la sua maternità ma l’ascolto della Parola di Dio: “Mentre egli parlava ancora alla folla, sua madre e i suoi fratelli, stando fuori in disparte, cercavano di parlargli. Qualcuno gli disse: Ecco di fuori tua madre e i tuoi fratelli che vogliono parlarti. Ed egli, rispondendo a chi lo informava, disse: Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? Poi stendendo la mano verso i suoi discepoli disse: Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre“. Ciò che dona a Maria la possibilità di generare il Figlio di Dio è il suo assenso alla Parola: “mi accada secondo la tua parola (Cfr. Lc 1,38) risponde all’arcangelo Gabriele che le porta l’annuncio. Nè la “maternità di sangue” né quella cosiddetta “spirituale” possono essere considerate vie privilegiate di sequela. La maternità è seconda alla relazione con la Parola.

 

Relazione. Parola chiave per comprendere molte cose nella Bibbia, fra queste anche la presenza delle donne nella vita del Rabbì di Nazareth. Ma chi sono le donne che seguono Gesù? Fiumi di inchiostro e studi magistrali esistono sull’argomento. La mia riflessione si ferma semplicemente ai dati forniti dalla Scrittura. Maria di Magdala, Marta e Maria, Giovanna, Susanna, Maria di Clèofa. Di alcune conosciamo il nome, di poche il nome e la storia, altre compaiono per il breve tempo dell’incontro con Gesù. Le donne raccontate nei vangeli non sono certo esempi di “castità”: la donna che bagna di lacrime i piedi di Gesù e li asciuga con i suoi capelli è una prostituta (Cfr. Lc 7,36-50), da Maria di Magdala il Messia Figlio di Davide scaccia via ben “sette demòni” (Cfr. Lc 8,2), e poi c’è un’ adultera colta in flagranza di reato (Cfr. Gv 8,1ss), una donna resa impura, secondo la cultura del tempo, dalle sue continue emorragie, che crede di poter guarire toccando anche solo un lembo del mantello di Gesù (cfr.9,20-22); c’è la samaritana con la sua vita disastrata, che ella stessa riesce a comprendere soltanto alla luce del dialogo con lui (cfr. Gv 4,1ss).

 

Donne, con le loro storie. Sono storie aperte, che mutano, che cambiano nel corso del loro incontro/legame con Gesù. Il vangelo ci narra di percorsi, di situazioni che si trasformano grazie alla relazione con lui, ad un riconoscimento che è reciproco e che coinvolge il corpo, il cuore, la vita. Le donne lo cercano, lo toccano, lo guardano, gli parlano, lo sfiorano, gli tengono spesso testa, non si lasciano sedurre così facilmente da lui, lo interrogano, lo afferrano, lo sfidano, provocano in lui un cambiamento come accade durante le nozze a Cana di Galilea. Maria esprime a Gesù la sua preoccupazione: “Non hanno più vino”, Gesù risponde: “Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora”, la madre non si lascia scoraggiare e ordina ai servi: “Fate quello che vi dirà”. L’acqua viene cambiata in vino ed è anticipato per Gesù l’inizio dei “segni” (Cfr. Gv 2,1-12). Anche la donna siro-fenicia che con fermezza chiede la guarigione della figlia permette a Gesù di compiere un passo avanti nella consapevolezza della sua missione: “Partito di là, Gesù si diresse verso le parti di Tiro e Sidone. Ed ecco una donna Cananèa, che veniva da quelle regioni, si mise a gridare: Pietà di me, Signore, figlio di Davide. Mia figlia è crudelmente tormentata da un demonio. Ma egli non le rivolse neppure una parola. Allora i discepoli gli si accostarono implorando: Esaudiscila, vedi come ci grida dietro. Ma egli rispose: Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa di Israele. Ma quella venne e si prostrò dinanzi a lui dicendo: Signore, aiutami! Ed egli rispose: Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini. È vero, Signore, disse la donna, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni. Allora Gesù le replicò: Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri. E da quell’istante sua figlia fu guarita” (Mt 15,22-28).

 

 

Il papa nel suo discorso alle religiose afferma: “È Cristo che vi ha chiamate a seguirlo nella vita consacrata e questo significa compiere continuamente un ‘esodo’ da voi stesse per centrare la vostra esistenza su Cristo e sul suo Vangelo, sulla volontà di Dio, spogliandovi dei vostri progetti ”. Quello che Gesù fa con le persone che incontra è praticamente il contrario, almeno in un primo momento. Ogni incontro si gioca sulla scoperta della reciproca identità: “Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia? ” (cfr. Gv 4,29); “Ed ecco una donna, che soffriva d’emorragia da dodici anni, gli si accostò alle spalle e toccò il lembo del suo mantello. Pensava infatti: Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita. Gesù, voltatosi, la vide e disse: Coraggio, figliola, la tua fede ti ha guarita». E in quell’istante la donna guarì” (Cfr. Mt 9,20-22); “Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi; ma non sapeva che era Gesù. Le disse Gesù: Donna, perché piangi? Chi cerchi?. Essa, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo. Gesù le disse: Maria!. Essa allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: Rabbunì!, che significa: Maestro!” (cfr. Gv 20,14-16). Gesù svela a noi stessi la nostra identità, ed è grazie a tale rivelazione, dentro al processo di questo svelamento, lento, sofferto, personalissimo che noi lo riconosciamo come Signore della nostra vita. Riconoscimento reciproco, nella relazione.

 

Il decentramento da sé, la rinuncia al progetto personale, “lobbedienza allo Spirito autenticata dalla Chiesa attraverso mediazione umana”, come afferma il papa nel medesimo discorso, forse sono dottrine che devono essere ripensate. Per costruire certo, non per distruggere.

 

Per spogliarsi di sé non è necessario capire prima chi si è? E forse la vita dei credenti non è stata in qualche modo privata, nei secoli, di questo passaggio fondamentale dando origine a storpiature e perversioni del vangelo? Non si è fatto abuso dell’insegnamento sul “rinnegamento di sé”?, della “mediazione umana soggetta all’obbedienza” (il termine “obbedienza” è presente soltanto due volte nei vangeli. Gesù la chiede agli elementi naturali e ai demòni. Agli uomini richiede “ascolto” della Parola) a scapito di una coscienza di sé consapevole che, invece, è sempre più smarrita? E che per reazione si irrigidisce su posizioni estreme?

Donne = Madri; Non madri = zitelle. Certo, è un pregiudizio che, ahimè, non appartiene soltanto alla cultura cattolica. Forse sarebbe stato più bello, più forte e vero se il papa avesse detto: “Siate donne, non zitelle”. Sarebbe stato più bello se invece di parlare alle religiose come esponenti di una categoria avesse parlato loro come rappresentanti di una realtà, quella femminile, così ricca e bisognosa di essere riconosciuta nella sua identità, una identità non fatta di ruoli, ma di vita vissuta, di storie, di relazioni, di incontri. Non esiste un modo di essere suore, un modo di essere madri, un modo di essere mogli, un modo di essere donne. Esistono le persone con le loro storie, e se dei tratti comuni ci sono, questi vanno conosciuti per comprendersi, per comprendere, non per leggere la realtà a senso unico. Nel vangelo secondo Matteo, al capitolo 25, si parla delle dieci vergini. Fra queste cinque si comportano da sagge e cinque da stolte. Al di là del linguaggio metaforico, uno stesso status mostra la possibilità di comportamenti diversi,ciò che fa la differenza è la relazione delle singole con lo “Sposo”.

La mia riflessione non vuole essere una critica al Papa né un attentato alla vita religiosa così come la Chiesa da secoli la vive e la custodisce. La mia è semplicemente una riflessione, basata su quanto mi pare di capire dallo studio delle Scritture, e sul desiderio di partecipare in modo consapevole e responsabile alla vita della comunità dei credenti in Gesù. La riflessione teologica sulla vita religiosa è viva, va avanti, si nutre di pensieri nuovi e diversi che piano piano la rinnovano. Ma quello che mi sembrava essere in gioco nell’affermazione del papa supera i confini della vita consacrata. La necessità di ripensare la dimensione femminile nella cultura, nella società, nella vita ecclesiale è tragicamente urgente. E se non lo faremo noi, lo farà la storia, anche senza di noi. Grazie a Dio. Si, lo Spirito soffia dove vuole (Cfr. Gv 3,8).