La ragione non bacia le sirene

L’autunno porta il miglior mare, ma le creature di gamba doppia a terra non lo sanno. Scambiano il calore del sole con il tempo propizio del mare e s’ingannano. Hanno paura del freddo che sferza ad una ad una le gocce d’acqua e sale sulla pelle nuda e così, in autunno, il tempo propizio del mare, si rintanano fra le mura di casa e gli voltano le spalle.

Lo vedessero adesso, così, come lo vedo io, lo vedessero ingrigire a poco a poco, gonfiarsi come ventre gravido, arricciarsi di bianco e spuma sulla costa. Gridano, parlano, cantano, si guardano, si cercano, sulle spiagge, in estate, e trattano il mare come uno stagno di frescura. Fossero adesso qui, invece, reggessero un po’ meglio il silenzio, avessero udito per ascoltare il rintoccare dei ciottoli che il mare vuole portare a fondo con sé, onda dopo onda. E’ il tintinnio del corteggiamento, della resistenza, della resa. Avessero occhi per vedere i granelli di sabbia compattarsi al ritiro delle acque e separarsi uno dall’altro al sopraggiungere dell’onda, saprebbero vivere e comprendersi con più saggezza.

Quando sulle spiagge deserte vengo in autunno a cercar tracce di amori perduti, trovo resti di parole non dette, fanciullezza abbandonata sul bagnasciuga come pelle di serpente, infanzia ilare e vecchiaia portata sulle spalle; guardo alla terra ferma come al guscio duro di una tartaruga. Poveri uomini e povere donne! Quanta fatica fate nell’illusione di poter ammorbidire e far breccia nel vostro stesso guscio, in un tempo opportuno che non sopraggiunge mai. Creature terrestri d’incomprensibile cecità. Avete occhi che non resistono al sale e polmoni d’aria incompatibili alle profondità. Siete creature di superficie che si proteggono da tutto.

Noi sirene, invece, su questa superficie strisciamo, a colpi forti di braccia trasciniamo la nostra parte estranea di corpo, per raggiungere  gli scogli pungenti sulla riva, per poter vedere anche noi il mare di fuori. Eppure, con un solo tuffo torniamo all’acqua fredda degli abissi, scompariamo a colpi di coda, giù, giù, sempre più a fondo. Le nostre “squame di madreperla” si riempiono della luce del sole e una volta tornate alle profondità, portiamo luce nelle tenebre e gli odori di mille superfici lontane, trascinati dal vento, li uniamo al profumo del mare in una pozione che inebria gli dei.

Lasciate sulla sabbia le impronte invisibili del vostro tormento, voi che sempre volete essere altrove, voi che vi portate appresso il vostro corpo come un castigo. I granelli che non si possono contare, piccoli, privi di consistenza hanno la forza per sopportare il peso delle vostre felicità mancate e il terrore che vi attraversa quando la felicità vissuta vi pare fragile e minacciata e vi irrigidite e vi spaventate e stringete i pugni per trattenere quello che non potete, per far vostro ciò che non vi appartiene. Se foste in grado di reggere il mare d’autunno, il mare, paziente e generoso, vi restituirebbe ogni cosa. Ma gli uomini sono sempre alla ricerca delle “belle giornate” che rubano al mare il silenzio e ai ciottoli il tintinnio della resa.

Noi ci mostriamo di rado, solo agli uomini afflitti, a quelli che non vogliono più convincere nessuno della loro superiorità ma che piuttosto l’hanno vista infrangersi sugli scogli aguzzi della vita. A loro ci mostriamo, a coloro che non hanno più bisogno d’esser creduti e sanno restare, tutti interi, ad abitare le cose che accadono, oggi, ora. Non si domandono se sono matti o ubriachi, ma ci guardano e sorridono, ci tendono la mano per salire sulle loro barche di legno e fatica e così, adagiate sul fondo restiamo ore a regalare sguardi. Alcuni s’innamrano di noi e noi di loro e l’amore non è un pericolo, nel mare, d’autunno, l’amore si prende e si da, al ritmo delle barche sull’acqua. Ci guardano e pensano alle loro donne, a quelle che hanno perduto, a quelle che hanno lasciato andare, a quelle che hanno tradito o a quelle che li hanno feriti, riducendo il loro cuore in miseria. S’avvicinano con desiderio, senza bramosia, questa l’hanno perduta a suon di drammi e malanni. Con una mano toccano le squame, e con il viso si tuffano dentro ai nostri capelli. Non parlano, respirano. Giocano ad acchiappar la vita con il naso, giocano a rincorrere i tonni, ad occhi chiusi  e labbra aperte appena, cercano sulla nostra bocca la morbidezza dei molluschi e il sapore dolce del pescato appena tratto dal mare. Cercano un nutrimento senza caccia.

Qualcuno di loro sa anche piangere e noi dal loro viso lecchiamo le lacrime con la nostra lingua minuta, una ad una, restituiamo le lacrime al mare. E il mare le riconosce come  l’unica traccia di sé, rimasta clandestina dentro al corpo degli umani e allora canta, il mare, canta la nostalgia per gli uomini e le donne coi piedi immobili a terra.

Quale maledizione la parola, quale assordante rumore se spiega gli sguardi, quale massacro se squarta il bene voluto come un pesce da taglio cercando i pezzi migliori da vendere al più ricco offerente. Quale maledizione la parola che mette a tacere l’attesa di abbracci da compiere muti, che piega le carezze al merito e giustifica gli slanci del cuore, che s’impiglia come pesce nelle reti crudeli dei pescatori notturni.

L’autunno possiede il mare migliore. Il luogo dove non si dovrebbe stare, la permanenza fuori stagione, l’amore fuori luogo, il corpo mai del tutto compiuto, le conchiglie vuote, le spine dei ricci, la vaghezza delle acque durante la burrasca, l’attesa d’improbabili ritorni: fuggite uomini la luce accecante della ragione, il ventre sterile del buon senso, la ragione non bacia le sirene.

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